Viterbo LA STORIA DI VITERBO
Mauro Galeotti

Saggini Costruzioni e la Storia di Viterbo: Porta di santa Lucia oggi Porta Fiorentina - Prima parte - Seconda parte - Terza parte Quarta parte

Porta Fiorentina fine anni 1930 primi del 1940. A destra è il distributore di benzina Agip Victoria e la porta ha ancora i cancelli di ghisa (Archivio Mauro Galeotti)

Nel Febbraio del 1701 vi furono alcune lamentele a causa della porta in legno che non chiudeva bene e per serrarla di notte, per il portinaio, era un problema non indifferente. 

Da un sopralluogo per riattivarla si ravvisò la necessità di spendere almeno sessanta scudi, anche perché era necessario l’utilizzo di molti chiodi andati perduti e di serramenti nuovi, perché i vecchi erano ormai troppo consunti.

La porta, meglio definibile torre porta, proprio perché aperta alla base di una torre merlata, venne chiamata spesso Fiorenza, per la strada che esce da essa e che conduce a Firenze. Ad esempio, questo nome lo trovo scritto nella seduta del Consiglio generale del Comune del 12 Aprile 1701, ove si stabilì, tra l’altro, anche la demolizione della saracinesca e del torrione soprastante, coronato di merli. 

Infatti, «Conoscendo gl’Ill/mi signori Conservatori che nella Porta della Città detta di Fiorenza, o di S. Lucia vi era bisogno di rimuovere la saracinesca che occupava parte di detta porta e rendeva assai oscuro l’ingresso in essa Città essendo perciò andati con Mons. Ill/mo et Rev/mo Filippo Leti Governatore a visitarla e fattala considerare dal molto Reverendo Padre Maldonati Rettore della Compagnia di Gesù e perito in simil materia e mastro Carlo Antonio Tedeschi capomastro muratore ordinò il medesimo Mons. Ill/mo Gov. che si gittasse a terra la medesima seracinesca per ampliare la medesima Porta e render detto ingresso non solo più ampio ma ancora di miglior aria et indi osservata la seconda porta nella quale serviva d’arco un pezzo di muro assai rustico, ordinò parimente che si gettasse a’ terra, e che si alzassero li pilastri che servivano di stipite per porvi poi sopra due palle di pietra con i lor piedistalli et essendo anche i lati della medesima porta sino alla sudetta porta di muro assai rustico, ordinò che si dovessero far arricciare, incollare, ed imbiancare, ed osservato ancora che la facciata della sudetta Porta che si serra sopra la quale è un torrione con li merli che minacciavano ruina, ordinò che questi si risarcissero, e stabilissero e che si pulisse la muraglia di essi in gran parte ricoperta di edera, et adornare la facciata con qualche pittura, e farci dipingere l’Arme di S. Santità, quella dell’Em/mo Santacroce nostro Vescovo e quella della Città, alle quali detti Ill/mi Sigg. Conservatori ordinorno che si aggiungesse quella di Mons. Ill/mo Gov.re», così riferiscono le Riforme.

Bernardino Peroni, segretario del Comune di Viterbo, l’8 Maggio 1701, scrive che il cardinale Andrea dei Principi Santacroce «arrivò […] alla Porta di S. Lucia, fatta ornare nuovamente a’ spese del Publico di pittura, non solo nella porta esteriore, ma’ anche nell’interiore, dove si vedeva sotto Padiglione, sostenuto da due Putti l’arme del Papa Regnante, con da un lato l’arme dell'Eminentissimo Vescovo, e dall’altra dell'Illustrissimo Monsignor Governatore sotto delle quali si legge la seguente iscrittione. Andreae Sanctacrucio, / quem omnes complexae virtutes / ad purpuram feliciter evexere, / et Viterbiensis ecclesiae antistitem praefecere, / in primario ejus ingressu / S.P.Q.V. / hoc longe impari meritis monimento / festivos diffusus in plausum / humile testatur obsequium. / Anno a partu Virginis MDCCI. / Summo pontifice Clemente XI regnante, praesule Philippo Leto civitatem moderante.
Con finire l’ordine l’Arme della Città di Viterbo, e nel Pilastro a’ lato destro della porta si vedeva l’arme della Città di Trivoli confederata.
Pur l’adito, che stà trà l’una, e l’altra porta fù tutto parato di sete a’ spese publiche, ed eretto in una parte l’Altare arricchito d’argenterie, ed ornamenti sacri pure del Publico, a’ man sinistra della Porta era inalzato il Baldacchino di S.E. di damasco cremisi, ed in faccia una Catedra pure ricoperta dello stesso.
Smontato S.E. nell’ingresso della Porta servito alla staffa dall’Illustrissimo Sig. Tenente Vincenzo Primomi, entrò nel sudeto adito, guardato dagl’Alabardieri, e portatosi alla bradella dell’Altare, baciò quivi la Croce presentatagli dal Sig. Archidiacono Gio: Domenico Lomellino, indi portatosi al Trono con l’assistenza de’ Canonici, e Dignità, da esso udì una breve Orazione latina recitatagli con gran spirito dal Sig. Domenico Antonio Meoni giovinetto Nobile di Viterbo».

Terminata l’orazione, il cardinale si incamminò verso il Duomo accompagnato dai canti e dallo sparo di mortaretti, esplosi dalla vicina Rocca Albornoz, per ordine del castellano Sebastiano Zazzara.
I conservatori del popolo, il 27 Ottobre 1702, ordinarono al falegname Nicola Mancini la fornitura delle ante lignee della porta, eseguite su disegno dello stesso. Vennero, ovviamente, stilate le norme del contratto, per cui i conservatori «danno e concedono […] a mastro Nicola Mancini falegname qui presente la fattura della nuova porta di legno da porsi nella Porta della Città di S. Lucia con gl’infrascritti patti e considerazioni.
Che detto mastro Nicola sia obligato come si obliga in termine di tutto l’entrante mese di novembre haver terminata la detta Porta di modo che per li primi giorni di decembre sia posta in opra e sia in atto di potersi aprire e serrare.
Che detta Porta debba esser fatta a tenore del disegno del medesimo mastro Nicola da conservarsi in filza e che li tavoloni debbino essere di tutta lunghezza e non altrimenti di più pezzi e di legname d’olmo ben stagionato e di buona qualità.
Che in detto Portone vi debbino essere quattro specchi cioè li due da basso colla chiodatura fatta a mandorle secondo il disegno e gli altri due specchi di sopra debbino havere nella mandritta l’arme del Mons. Ill/mo e Rev/mo Gov/re con chiodi minuti nel modo che il medesimo vi ha fatto il disegno parimente in filza e nell’altro specchio a’ man manca vi debba parimente detto mastro Nicola farci a chiodi minuti il leone coronato con il globo fatto del piedi con le lettere F.A.V.L. nel modo che parimente si vede nel disegno in filza.
Che debba fare la fodera nel fusto e sopra detta fodera vi debba essere la sua guarnitione cioè una di lunghezza di palmi due scorniciata e sopra di essa altra di un palmo parimente con la sua scorniciatura e chiodatura fatta a mandorla conforme al disegno e secondo esso fare tutta la Porta.
Che in detta Porta vi debba fare il suo sportello da serrare et aprire.
Che li chiodi debbino essere di giusta longhezza da potersi ribattere dall’altra parte, cioè tutti li chiodi grossi e la testa di essi debba esser almeno larga quanto è il giro descritto in detto disegno e conforme la mostra lasciata in Segreteria.
Che detto mastro Nicola Mancini a tutte sue spese debba far detta Porta e l’Ill/ma Communità sia solo obligata pagargli per mercede e per ogn’altra cosa scudi quarantacinque e di somministrargli le Bandelle gangani serrature e Catenacci e che detto mastro Nicola debba il tutto metter in opera e per qualsivoglia altra cosa non possa pretendere di più di detti soli scudi quarantacinque.
Che ad scudi 45 si debbino pagar al medesimo nell’atto della stipulazione dell'istrumento cioè scudi venticinque acciò possa provedere i legnami e chiodi, quali scudi 25, attualmente ha e riceve mediante una bolletta spedita da detti Ill/mi Sigg. Conservatori e diretta al sig. Ludovico Veltri de Romanelli dep[ositar]io della Communità qual bolletta tira a se e tirata ne fà quietanza e li rimanenti scudi venti l’Ill/ma Communità promette farli pagare a detto mastro Nicola terminata che sia e posta in opera la detta Porta e quanto sia ben fatta, ad uso d’arte, e secondo il detto disegno e non altrimenti perché così è e in caso che in termine del suddetto mese di novembre il medesimo mastro Nicola non havesse terminato il lavoro di detta Porta nel modo che gli si obbligato: fa lecito all’Ill/ma Communità e per essa agl’Ill/mi Sigg. Conservatori farla terminare da altro falegname a tutte spese, et interessi di detto mastro Nicola perché così convengono per patto espresso e non altrimenti», così leggo sulle Riforme.

Ma qualche difetto la porta, appena realizzata, l’aveva e, da parte dei priori, nacquero le inevitabili contestazioni, nei confronti del Mancini, tanto che, nel primo trimestre del 1703, così contestarono:
«Si è fatto item istrumento con Nicola Mancini falegname per perfectionare la porta di S. Lucia come sentiranno dal Nostro Segretario la quale non ho potuto revisitare per l’intemperie de tempi dovranno le Signorie Vostre Illustrissime far sublimar questo fatto».

E poi:
«Ricordi all’Illustrissimi Conservatori del trimestre Aprile, Maggio, Giugno 1703 […] fù data per istrumento a’ m.ro Nicola Mancini per far di nuovo la Porta di S. Lucia et egli l’ha fatta, mà essendosi riconosciuto, e dotata assai differente dal suo obligo contenuto in detto istrumento, non si è per tale causa voluto saldare però si prega la bontà loro di visitarla, così osservare l’istrumento e farla corregere com’è dovere».

Ma la contestazione non era ancora chiusa nel primo trimestre del 1704, infatti, così scrissero i priori uscenti ai loro successori:
«Fu fatta di nuovo la Porta di S. Lucia, e perche il Mancini falegname non ha adempito al suo obligo, e l’architrave è rotto si prega le Signorie Vostre Illustrissime oprare che tutto vienga aggiustato dal medesimo, acciò la Comunità non resti defraudata».

Il cancello della porta e il casotto, nel 1760, a causa di un nubifragio, persero coesione e stabilità, pertanto fu necessario ripararli, perché minacciavano di cadere, essendosi allentati i chiodi.

Il 7 Maggio 1768 giunsero al cospetto della porta, la moglie di Ferdinando IV, re di Napoli, Maria Carolina d’Austria unitamente a suo fratello Pietro Leopoldo, granduca di Toscana, e alla consorte Maria Luigia, figlia del re di Spagna. Furono ricevuti dai conservatori «aureis indumentis contexti et onorifico curru evecti, pluribusque nobilibus viris associati, multisque astantis militibus circumsepti, se contulerant».

Il cancelliere che assistette a tale avvenimento testimonia che il ricevimento si effettuò «in mezzo allo squillar delle trombe e al suonar delle campane». Furono poi, offerte loro, le consuete chiavi della città e gli ospiti rimasero meravigliati dalla bellezza delle fontane e dalla calorosa accoglienza ricevuta da parte dei Viterbesi, unitamente agli abitanti dei paesi vicini, accorsi per l’insolita occasione.

Questo è l’ultimo grande avvenimento che rese partecipe l’antica Porta di santa Lucia, infatti, in quello stesso anno, 1768, si presero provvedimenti per ampliare e rinnovare l’ingresso, perché la porta era ormai troppo angusta ed insufficiente a smaltire le necessità di transito dei mezzi di trasporto e delle persone. Così, di lì a pochi mesi, fu demolita perché vi fosse costruita, al suo posto, un’altra porta con l’entrata più ampia. L’esecuzione della costruzione fu offerta al viterbese Francesco Selvi il quale sostenne per intero le spese del rifacimento della nuova porta, avente, a differenza di come risulta oggi, il solo grande arco centrale.
Nuova la porta, nuovo il nome, infatti, fu chiamata Fiorentina dalla strada che da essa conduce a nord in direzione di Firenze.

Porta di santa Lucia sparisce così per sempre, nonostante fosse stata tanto gloriosa negli avvenimenti della nostra città. Attraverso il tempo questo antico ingresso della città aveva ricevuto vari ornamenti e dagli scritti dei cronisti, non avendo alcuna stampa riproducente la porta, cercherò di descriverla. Andrea Scriattoli riferisce che in un vecchio apografo, conservato nella Biblioteca degli Ardenti, sono trascritte molte epigrafi viterbesi.

Lo storico scrive di aver trovato che sulla antica Porta di santa Lucia, «nel primo ingresso al di fuori verso la strada di Montefiascone», era inciso il noto passo virgiliano «Urbs antiqua potens / armis atque ubere glebae», che pareva volesse dire ai viventi «Voi entrate in una città che è potente nelle armi e ricca per la fertilità del suo territorio».

Inoltre, anche stemmi ed epigrafi erano ad ornamento della porta, infatti, vi era inciso, più in alto di tutti, il nome di Gesù Cristo, fattovi apporre da san Bernardino da Siena, ai lati erano gli stemmi di papa Nicolò V, sotto il quale era scritto Nicolaus papa V anno jubilei MCCCCL, di papa Paolo II con la scritta Pa. pp. II 1464, del cardinale Alessandro Farnese con la scritta Alexandro card. Phar. sedis / apostolicae legato / ob provinciam bene / gubernatam / MCCCCLXXXXV, di papa Giulio III con l’iscrizione Iulio III pont. max. / C. Viterbien. erexit / prov. gubernante / Rodulpho Pio card. de / Carpo legato MDLII.

A seguito della demolizione stemmi ed epigrafi furono tutti trasferiti e conservati nel cortile del Palazzo dei priori assieme a quello del cardinale Rodolfo Pio di Carpi che porta scolpite le parole, Rodulpho Pio card. de Carpo / legato provinciam pie / ac recte moderanti MDLII.

Verso la fine del 1783 alla Congregazione fu avanzato il progetto di abolire il sesto dell’arco della porta, al fine di «togliergli l’estrema tratta che gli dà la sua lunghezza, e per cui si rende difficoltoso ai Portinari l’aprirla e chiuderla. La medesima [Congregazione però] ha giudicato che rigettandosi il progetto si debba lasciare nello stato attuale».

La porta, ovviamente chiusa durante le guerre ed i pericoli di intromissioni nemiche, fu protagonista di una singolare serrata avvenuta nel quarto trimestre del 1790, infatti, «Fù chiusa a spese di questa Comunità per ovviare al fetore che veniva cagionato dalle di lei immondezze [raccolte in] una grotta fuori Porta Fiorentina».

L’uomo non cambia nel suo istinto, non è cambiato neppure oggi in questa che chiamano società civile, infatti, le grotte in città, ad esempio in Via san Clemente, in Via sant’Antonio, in Viale Raniero Capocci, nella Valle di Faul, sono state chiuse con muri, per impedire l’abbandono delle immondizie. 

Addirittura nelle grotte del Riello, ancora aperte, sono abbandonati vecchi elettrodomestici e oggetti di vario genere. Voglio ricordare a questo punto una notificazione del delegato apostolico Giuseppe Zacchia, datata 18 Agosto 1823, nella quale dispone tra l’altro:
«Siccome la polizia delle strade, vicoli ed altri luoghi pubblici delle città e terre, non che dei cortili e stalle di privata ragione dipende moltissimo la salubrità dell’aria respirabile, perciò niuno oserà gettare in esse strade vicoli e piazze acque putride ed immondezze nella sua lata interpretazione, ma dovranno le medesime essere trasportate ne’ luoghi appositamente destinati. Si dovranno altresì nettare e spurgare i cortili e stalle in ogni breve periodo di tempo più o meno secondo le stagioni.
Ogni trasgressione sarà punita con la multa di scudi uno. In tutti quei luoghi poi, nei quali non vi è la spazzatura delle strade per conto delle rispettive comunità, ciascuno sarà tenuto di scopare e pulire avanti la propria abitazione, bottega od altro sito di sua pertinenza in ogni sabato della settimana e trasportare le immondezze fuori dell’abitato o ne’ depositi destinati.
Ogni contravvenzione sarà punita con la multa di scudi uno. A quest’obligo sono pure tenuti gli abitanti di questa città centrale per quei vicoli, nei quali lo spazzatore della Comune non è tenuto di spazzare, ma solo di trasportare e spurgare gl’immondezzai. Se poi le projezioni nelle pubbliche strade saranno qualificate da dolo o colpa e con animo di offendere o lordare alcuno, in questo caso i delinquenti oltre all’emenda de’ danni alle parti offese, saranno soggetti alle pene pecuniarie e corporali imposte dalle leggi e bandi generali».

In quell’anno, ed anche nel 1855, viene nominato il Vicolo di Liparelli, di cui non ho trovato l’ubicazione.
Noris Angeli mi dice che i Lipparelli, con due p esercitavano attività commerciale verso Via delle Fabbriche, infatti un Antonio è citato ivi residente nel 1855, deceduto a seguito del colera.

Torno indietro, alla fine del ‘700, o meglio, al 18 Dicembre 1798, quando il generale francese François-Etienne Kellermann, dopo la sconfitta ricevuta dai Viterbesi nei suoi attacchi avvenuti qualche mese avanti, ripropose l’intimazione di resa ai nostri. Il 22 dello stesso mese con soddisfazione del generale, la città fu sottomessa ai Francesi, ma l’alto militare, per vendicare la sconfitta subita, fece bruciare le ante in legno delle Porte Fiorentina e Romana facendo aprire, inoltre, una breccia di cento metri e spezzare la campana dello Stormo posta sulla torre del Comune.

Non contento dispose il disarmo e la taglia di centomila piastre, delle quali diecimila dovevano essere pagate subito.
Il nuovo secolo iniziò male tanto che, per una epidemia di febbre gialla scoppiata nel 1802 in Toscana, furono chiuse le porte della città e fu allestito un lazzaretto nella Palazzina eretta fuori a Porta Fiorentina. Un altro lazzaretto fu aperto sull’attuale Strada di san Martino al Cimino nell’Osteria della Fontanella.

Per i moti del 1831 il generale Galassi incaricò gli architetti Tommaso Giusti († 1848) e Francesco Lucchi (1779 - 1853), i quali presentarono una relazione, in data 21 Maggio 1831, per mettere la città «al coperto da ogni sorpresa» e per Porta Fiorentina fu prevista la costruzione di una trincea con armatura in legno e con controfosso avanti, «tramezzo interno con armatura di travicelli, e tavole chiodate riempite di fascine, e sterro; taglio della detta trincera per formare tre boccaporti per i cannoni, e costruzione dei medesimi e delle piattaforme, rivestimento di detta trincera con zolle di erba bagnate, e battute con maglj, costruzione del cammino coperto per andare al barbacane contiguo», ove era la fuciliera, «Si domandarono, e si ottennero da Roma due pezzi di cannone da 6, che furono postati alla trincèa predetta», furono anche costruiti quattro cavalli frisi, cavalli di Frisia, dal falegname Onofrio Gagni, che nel 1818 risulta avere la bottega al n° 134 di Via del Melangolo, confinante col Palazzo Costaguti, poi Galeotti.

Anche il 1837 fu funesto, infatti, una epidemia di colera aveva colpito Roma e dintorni. A Viterbo furono prese le giuste precauzioni e le merci, tra l’altro, prima di portarle in città, venivano poste in isolamento, nella Palazzina di cui sopra avanti a Porta Fiorentina. Ma, nonostante ciò, qualche caso della terribile malattia si sviluppò nel Monastero di santa Rosa; alle cure necessarie provvide il dottor Giovanni Selli.

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