Viterbo LA STORIA DI VITERBO
Mauro Galeotti

Saggini Costruzioni e la Storia di Viterbo: Porta di santa Lucia oggi Porta Fiorentina - Prima parte
Saggini Costruzioni e la Storia di Viterbo: Porta di santa Lucia oggi Porta Fiorentina - Seconda parte

Porta Fiorentina e Piazzale Umberto I nel 1913 circa
(foto Giuseppe Bazzichelli - Archivio Mauro Galeotti)

Il 18 Dicembre 1456 venne a Viterbo il rettore del Patrimonio Paolo di Santa Fede, erano con lui cinquecento fanti.

Giunti fuori le mura, i Viterbesi, che avevano sospetti sul comportamento dei sopravvenuti, spinti anche dalla famiglia Tignosini, che non voleva che questi entrassero in città, fecero braccio di ferro per impedire l’ingresso di quell’esercito. Scrive della Tuccia:
«Noi priori essendo fuori della porta di S. Lucia, pregammo tanto il rettore, che lassò fuori li fanti mandandoli verso S. Maria del Paradiso e lui con poche persone entrò dentro; e tanto operammo quella sera con altri cittadini, che il rettore mostrò aver perdonato i detti Tignosini», i quali giurarono fedeltà a santa Chiesa e così quei fanti entrarono ben accolti dai Viterbesi e rimasero in città fino alle ore 21.

«Venerdì mattina [31 Agosto 1459], a ora di terza, gionsero in Viterbo dette genti [ossia i reclutati di messer Bartolomeo Rovarelli, arcivescovo di Ravenna, nuovo rettore, e di messer Galeotto], ed entrorno per la [...] porta di S. Lucia con li detti governatori [Rovarelli e Galeotto]».

I Gatteschi si allearono così coi nuovi venuti e insieme combatterono, in nome della Chiesa, i Maganzesi, tanto che «Alessio con i Maganzesi si misero in rotta» e furono sopraffatti.

«Sabato sera, 24 [Novembre 1459, scrive della Tuccia], fe’ murare [il rettore del Patrimonio Bartolomeo Rovarelli] detta porta di Pian Scarlano, e rimase Viterbo solo con due porte apribili, quella di S. Lucia e di S. Sisto e di notte facevano gran guardie».

«La domenica [22 Giugno 1460, è sempre della Tuccia che scrive] entrò in Viterbo messer Pietro di Francesco [Gennari (1407 - 1472), vescovo di Viterbo dal 1460 al 1472] da Viterbo, quale era arciprete di S. Sisto, venuto da Siena, fatto vescovo di Viterbo e Toscanella dal papa. Entrò per la porta di S. Lucia con grandissimo onore col baldacchino sopra la testa portato da trentadue cittadini, compartiti in due squadre in processione, con tutto il clericato [...] il qual benefizio l’aveva confirmato il papa per il grand’amore li portava».

Papa Pio II, con nove cardinali, il 17 Maggio 1462, di venerdì, entrò in Viterbo, provenendo da Soriano. Il 17 Giugno di quell’anno, scrive della Tuccia, «fu la festa del Corpo di Cristo, e in quella il papa fe’ fare una grande e bella festa trionfale, talché mai in Viterbo fu fatta una simile […] presso la porta S. Lucia fe’ fare due ponti con archi e soprarchi». Si tratta dei soliti archi trionfali in legno che poi venivano demoliti.

Scrive della Tuccia:
«Nel mese d’agosto [1465] passò per Viterbo la figlia del duca di Milano con la gente del predetto re [Ferrante], e passò canto le mura della porta S. Lucia [...]. Non volse entrare in Viterbo per sospetto della moria, che ci era».

Una notizia lampo:
«In quel tempo [1466, scrive della Tuccia] fu fornita la porta di S. Lucia, cioè la porta di fori con il torricello».
Il 4 Aprile 1474 venne a Viterbo il re di Danimarca e di Norvegia, Cristiano I, andava a Roma, da papa Sisto IV, per ricevere le indulgenze, fu ricevuto alla Porta di santa Lucia «coi dovutigli onori; e a traverso la via romana decorata dei consueti archi di verdura, viene condotto dal cardinal Gonzaga, suo parente, nel palazzo di san Sisto», così riferisce Cesare Pinzi.

Il 10 Dicembre 1494 Carlo VIII di Francia per raggiungere Roma, dopo lo scontro in Firenze col celebre Pier Capponi, entrò in Viterbo dalla porta, fu ossequiato dai priori e salutato, con una ampollosa orazione latina, da messer Tommaso Veltrellini; orazione che lo storico Cesare Pinzi ha pubblicato nel 1908 sul Bollettino Archeologico di Viterbo, l’originale è nella Biblioteca di Grenoble.
Tommaso Veltrellini nel 1499 fu inviato ad Orte quale paciere tra Orte e Amelia, la sua famiglia aveva lo stemma: di verde al castello d’argento.

Scrive Giuseppe Signorelli, su Viterbo nella storia della Chiesa, in merito all’arrivo di Carlo VIII, «Il 5 furono decretati i donativi da presentargli e fu emanato un bando per provvedere la uccellagione, ed obbligare ciascuna famiglia a dare uno o due polli per casa. Per la spesa necessaria si doverono impegnare le argenterie».

Una graziosa leggenda, con un fondo di verità, narra come i frati Domenicani vennero ad officiare la Chiesa di santa Maria della Quercia. Pare, infatti, secondo la descrizione di Antonio Riccardi, che «Dopo un anno li Padri Gesuati del Beato Giov. Colombano [...] vedutisi questi insufficenti per soddisfare al numeroso concorso, rinunziarono alla missione». Lo storico Andrea Scriattoli afferma, inoltre, che i frati del Beato si erano messi in urto con i rettori del Comune e per questo motivo dovettero abbandonare la chiesa.

Il Riccardi asserisce che il Consiglio comunale decise «di mandare tre Priori della Città sulla Porta di S. Lucia, dalla quale per la strada romana si va verso Firenze, con la precisa ordinazione di attendere ivi la venuta di qualche religioso forestiere, per consegnare a quello, che entrasse il primo, ed al suo ordine l’amministrazione del nuovo Santuario. [...].

Appena arrivati alla porta, i tre Priori videro comparire tre religiosi domenicani, che erano il venerabile frate Marziale Auribelli Generale di tutto l’Ordine con i suoi compagni che tornavano a Roma dalla visita delle provincie oltramontane».

Fu fatta loro l’offerta e «ne provò grande allegrezza quel padre Generale; e consentì subito alla nobile offerta». Così papa Paolo II con Bolla 29 Settembre 1469 investì del possesso della chiesa e casa di santa Maria della Quercia i Padri Domenicani.

«Martedì, a dì 22 del mese di settembre [1472], entrò in Viterbo messer Francesco Maria di casa Visconte [Visconti] di Milano con il trionfo usitato in detta città; ed entrò la porta di Santa Lucia».

Il 12 Giugno 1473 di passaggio entrò in Viterbo, da Porta Salicicchia, la figlia del re Ferdinando di Napoli, Eleonora, la quale era stata promessa in sposa ad Ercole, marchese di Ferrara. 

Eleonora prima di raggiungere il futuro consorte, alloggiò nel Palazzo di san Sisto, ospite del cardinale di Teano, Niccolò Forteguerri. Viterbo in suo onore era stata ornata, come era uso, di archi trionfali coperti da verdi fronde. Al suo seguito erano milletrecento persone, sessantacinque «trombetti e piffari e altri instrumenti».

Inoltre vi erano ventiquattro nobili tra conti e marchesi del Regno di Napoli, quattordici dei quali portarono con sé le rispettive mogli, poi sedici nobili lombardi, dieci fantesche vestite di verde e duecentoottanta muli.

Dopo giochi, balli e feste in suo onore, la sedicenne «bella, piacevole, domestica e lieta» dama, «montò un cavallo baiardo coperto dal collo sino alla coda da un ricchissimo drappo d’oro», uscì dalla Porta di santa Lucia per raggiungere la vicina terra di Montefiascone.

Il 1° e 3 Maggio 1527 la città fu colpita da una tremenda sventura, i Lanzichenecchi e gli Spagnoli, «Zonsero a Viterbo […] qual poteva essere 22000 persone da fatti, el resto era da ragazzi et bagaje, al numero di 30 mille persone», così riferisce una lettera di Angelo Sanuto del 19 Maggio 1527.
Giunti presso le mura di Viterbo, pur vedutele ben difese, non esitarono ad attaccare, con l’aiuto di alcuni fuoriusciti del posto, la Porta di santa Lucia, la quale fu sfondata e la furia di quei demoni si riversò nell’abitato, saziandosi solo dopo innumerevoli razzie e saccheggi.

Pinzi riporta in volgare quanto sulle Riforme riferisce Pacifico Peroni, cancelliere comunale, in merito a quel triste momento:
«Sfracellate le porte di Viterbo, il diabolico esercito imperiale irrompe dentro la città, briaco di odio feroce contro Roma, la Santa Romana Chiesa, il suo degnissimo e universale pastore Clemente VII, e contro tutti i sudditi di lui. Le case dei fuggitivi sono rabbiosamente saccheggiate, le porte sfondate, e tutte le chiese sacrilegamente spogliate, togliendo a noi persino la protezione delle sacre reliquie. A colpi di scure si aprono i monasteri per depredarli: e, dove si vede alcuna cosa intatta, la si manomette e se ne fa bottino».

La marmaglia lasciò Viterbo inginocchiata e si diresse alla volta di Roma ed i Viterbesi, superato il terrore, tirarono un sospiro di sollievo e iniziarono a riparare i danni subiti.

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