Viterbo IL RACCONTO
Agostino G. Pasquali

IL RACCONTO: Schüttelbrot a Natale 1943 – Seconda serie. Prima puntata  Seconda puntata - Terza puntata - Quarta puntata - Quinta puntata

     La sera del 14 aprile, erano circa le ore 22, ci fu uno dei bombardamenti peggiori. Potsdam venne ripetutamente colpita in una serie di passaggi aerei che sganciarono bombe di grande potenza distruttiva.

     Quando cominciarono a suonare le sirene d’allarme mi trovavo al lavoro in fabbrica per il turno di notte con altri due colleghi, il maresciallo Giullaro e il maresciallo Sandretti. Scendemmo con calma nel rifugio insieme a tutti coloro che erano nello stabilimento, cioè le operaie e i pochi uomini anziani.

     Il rifugio, un tipico bunker tedesco, era costituito da uno stanzone rettangolare di circa 6 metri per 12, con pareti di cemento armato e tre grandi pilastri centrali che, con travi anch’esse di cemento, reggevano il soffitto sul quale insisteva una parte dello stabilimento; il locale non aveva finestre e riceveva aria da due grossi tubi che partivano dal centro delle pareti più corte e andavano verso l’esterno, ignoro come e dove sbucassero in superficie.

     Al bunker si accedeva, come ho già detto, da una scala a chiocciola interna allo stabilimento oppure dall’esterno attraverso un tunnel. Era dunque un posto freddo e scarno ma dava una sensazione di robustezza e quindi di sicurezza purché non si soffrisse di claustrofobia. Unico arredamento: delle semplici panche di legno rustiche e senza schienali addossate alle quattro pareti così che potevano prenderci posto una sessantina di persone; se ce n’erano di più, il che avveniva quasi sempre ad ogni allarme perché oltre al personale della fabbrica vi si rifugiava anche gente che abitava nei dintorni, chi non trovava posto sulle panche si sedeva a terra.

     Quella sera eravamo una cinquantina di rifugiati, tutti scesi dalla fabbrica attraverso la scala interna.

     Nessuno arrivò dal tunnel perché probabilmente nessuno fece in tempo. Forse l’allarme venne dato in ritardo, o forse la gente all’esterno perse tempo perché stava già a letto oppure perché si muoveva di malavoglia, rallentata da una sorta di pigrizia acquisita per effetto del monotono ripetersi delle sirene: infatti si era generata una sorta di assuefazione al pericolo ovvero una ingiustificata confidenza nell’abbondanza del preavviso. Ma quella volta il bombardamento cominciò presto, improvviso. Quasi subito una bomba cadde ed esplose lì vicino.

   Noi, nel sotterraneo, sentimmo un boato, tremarono le pareti e dal soffitto caddero frammenti di cemento; la porta che dava verso il tunnel si aprì con violenza scardinando le cerniere e si abbatté sul pavimento; dall’apertura entrò nel locale una nube di polvere. Quindi le luci che illuminavano il rifugio si spensero per un attimo e poi si riaccesero ma più deboli. Si era interrotta la corrente elettrica ed erano entrate in funzione le batterie di riserva.

     Restammo annichiliti senza renderci subito conto di quello che era successo; eravamo paralizzati dal terrore e incapaci di ragionare; il cuore batteva convulsamente e sentivamo mancare il fiato. Ci guardammo l’un l’altro incerti e dubitammo di essere vivi quando ci fu chiaro che una bomba era esplosa proprio sopra di noi. Poi ci riprendemmo e, appena la polvere si fu un po’ diradata, vedemmo, attraverso l’apertura della porta scardinata, che il tunnel d’accesso era libero solo per pochi metri, più in là un ammasso di detriti lo ostruiva completamente.

     “Hinaus! Hinaus!” (Fuori di qui) qualcuno cominciò a gridare avviandosi verso la scala a chiocciola, ma le luci si abbassarono e in pochi secondi fummo nel buio completo. Chi aveva dei fiammiferi li accese. Si fece un po’ di luce e quel lucore ci consentì di orientarci e di ragionare.

   Una delle operaie, una certa Frau Christine, una signora dai modi decisi che avevo già notato perché aveva un certo ascendente sulle colleghe, chiese un po’ di silenzio e attenzione, invitò tutti alla calma e sconsigliò di uscire perché il bombardamento era tutt’ora in corso. E infatti si sentivano esplosioni ora lontane, ora vicine, qualcuna molto vicina al nostro bunker. Fece notare che il rifugio aveva resistito molto bene e sicuramente ci aveva salvati; salire di sopra ci avrebbe esposti stupidamente al pericolo; l’unica cosa sensata era aspettare la fine del bombardamento.

     Parlava con tono autoritario. La sua voce assunse rapidamente il tono di un comandante e come tale lei si comportò dando istruzioni che portarono un po’ di calma. Ordinò di accendere non più di due fiammiferi per volta, a turno tra quelli che ne avevano, razionandoli per poter mantenere il più a lungo possibile un minimo di visibilità. Poi si dette da fare per risolvere meglio il problema dell’illuminazione. Disse che ci doveva essere qualcosa per questo tipo di emergenza; cercò, e infatti trovò una specie di armadio a muro, una grossa nicchia chiusa da un portello metallico su cui era scritto con la pignolesca precisione teutonica e il gusto per le parole complicate:


ÜBERLEBENSPRODUKTE u. HANDGRABUNGSWERKZEUGE

 

     Tra gli Überlebensprodukte, prodotti per la sopravvivenza, c’erano maschere antigas, pacchetti di gallette e taniche di acqua; inoltre trovammo anche un pacco di candele e una scatola di fiammiferi. Gli Handgrabungswerkzeuge erano attrezzi per scavare a mano: picconi e pale.

     Nonostante la drammaticità del momento mi si presentò il risvolto comico di quel ritrovamento: la modernissima tecnologia tedesca forniva delle candele medioevali come rimedio alla mancanza di luce. Probabilmente in un rifugio italiano avremmo trovato di meglio, anche delle lampadine tascabili, ma sicuramente avrebbero avuto le pile scariche. Tutto sommato erano più efficienti le candele medioevali.

     Ci sono circostanze drammatiche e problematiche, come questa nella quale ci trovavamo, in cui non si sa cosa fare perché non sembra che ci siano soluzioni e non si può decidere nulla con il ragionamento e neppure con il buon senso. In questi casi la presenza di una persona sicura di sé, o che appaia tale, e che si assuma spontaneamente il compito di dare delle direttive, fa sì che quella persona diventi un capo, una guida cui affidarsi, un “Führer” come dicono i tedeschi. Costui (o costei) guiderà il gruppo, agirà con prudenza e meditata saggezza se possiede queste doti, e in tal caso sarà il salvatore; oppure improvviserà con incoscienza e presunzione, e sarà allora la rovina di tutti.

     La mia esperienza mi porta a pensare che nei piccoli gruppi il capo agisce di solito bene, mentre nei grandi gruppi, in particolare nei popoli, chi si improvvisa capo si fa prendere da un delirio di onnipotenza e produce guai e rovina.

     Nei popoli disciplinati, come è da sempre quello tedesco, può emergere un Hitler che porta i seguaci al disastro perché viene seguito in modo tanto convinto e fedele quanto irrazionale. In altri popoli meno disciplinati, come è da sempre quello italiano, invece può emergere un Mussolini che riesce comunque a farsi seguire, ma in modo provvisorio e scettico; però il finale non cambia: è comunque un disastro.

     E se è vero che questi cattivi Führer di solito producono disastri, è altrettanto vero che a volte fanno una brutta fine. Ma questa non è una consolazione. Strano destino quello dei grandi capi! Come ha scritto Alessandro Manzoni, riferendosi a un altro generatore di disastri, Napoleone: prima sull’altare, poi nella polvere. Ma può andare anche peggio, molto peggio, come è successo appunto a quei due che ho citato.

     Non tutti i Führer sono pessimi come Hitler o Mussolini, ci sono anche i buoni come J. F. Kennedy, Martin Luther King e addirittura Gesù, i quali purtroppo fanno una brutta fine pure loro, ma lasciano almeno un messaggio per migliorare l’umanità.

     In conclusione il popolo, quando agisce come un gregge cioè quasi sempre, se è guidato da un padrone sciocco o matto che lo porta al precipizio, ci si butta, e mentre precipita si rammarica, ma allora è troppo tardi. 

     Noi, lì, eravamo un piccolo gruppo e quindi era possibile sperare bene secondo la teoria che ho esposto perché c’era Frau Christine che era una donna Führer: la sua voce sicura aveva infuso un po’ di coraggio a tutti, e tutti ci preparammo ad aspettare. Aspettare che cosa? Non lo sapevamo, ma non c’era altro da fare confidando che quella Führer fosse una buona guida.

 

Sepolti vivi

     Il bombardamento durò a lungo; nel bunker se ne sentivano le esplosioni, alcune isolate altre seriali. Era un bombardamento così detto a tappeto, quello che non ha il fine di colpire luoghi militarmente significativi (depositi, caserme, nodi ferroviari, ponti), ma tende a distruggere indiscriminatamente la città o una sua parte allo scopo di abbattere il morale della popolazione.

     Non mi era mai capitato di restare così a lungo sotto un bombardamento aereo e questo prolungarsi accresceva l’apprensione. Però non provavo più un vero terrore come all’inizio quando eravamo stati colpiti. Non cadevano più bombe vicino a noi, e questo mi dava un po’ di speranza, ma sentivo piuttosto un’angoscia fisica, come nausea, mal di testa e impulso ad uscire. Non ho mai avuto difficoltà a stare in ambienti chiusi, però credo che in quell’occasione andai vicino a un attacco di panico claustrofobico che riuscii a controllare solo perché ero consapevole del grave rischio che avrei corso uscendo all’esterno.

     Non ero il solo a soffrire. Molte donne avevano un aspetto chiaramente disturbato, stavano rattrappite con la testa stretta fra le mani, si dondolavano in modo stereotipato e gemevano; altre, forse amiche o parenti, si abbracciavano per farsi coraggio; qualcuna muoveva le labbra silenziosamente come chi prega e infatti teneva le mani intrecciate. Erano immagini che mi ricordavano i drammatici dipinti che nelle chiese rappresentano le donne addolorate ai piedi del Cristo crocifisso.

     Era passato così del tempo, diversi minuti che parevano ore, quando cominciai a sentire difficoltà di respirazione. Non ero io soltanto perché vidi altri aspirare l’aria in modo esagerato aprendo la bocca e sollevando e abbassando il torace come chi ha fatto una lunga corsa ed è in debito di ossigeno. All’inizio pensai che fosse un effetto della polvere che era entrata quando era stato colpito il tunnel, ma poi mi resi conto che la polvere si era ormai depositata e ci si vedeva abbastanza chiaramente, l’aria era pulita quanto meno nelle zone illuminate dalle candele.

     Dunque era evidente che mancava l’ossigeno. Controllammo le due condotte di aerazione e costatammo che non si avvertiva più la caratteristica corrente del ricambio dell’aria. Si erano evidentemente otturate le uscite all’esterno. Ispezionammo anche la scala a chiocciola che conduceva su allo stabilimento e la trovammo ostruita da calcinacci e detriti.

     Eravamo chiusi nel bunker con poca luce e poca aria residua. Per la luce avevamo ancora una buona scorta di candele, ma per la mancanza d’aria non c’era rimedio. Se non fossimo riusciti a trovare una via d’uscita saremmo morti asfissiati. Né c’era da sperare in un immediato aiuto dall’esterno dato che il bombardamento non era terminato anche se si sentivano meno esplosioni e più deboli e lontane. Mi chiedevo se non sarebbe stato meglio che una bomba avesse distrutto il rifugio e fossimo morti subito piuttosto che dover affrontare una morte lenta per asfissia.

 

Continua domenica prossima

 

 

 

 

 

Salva

Salva

Salva

Salva

Salva

Salva

Salva

Salva

Salva

chi è on line

Abbiamo 956 visitatori online

 

 I libri

di Mauro Galeotti

 

Cartonato - pag. 246 - euro 25,00
in esaurimento, per l'acquisto
scrivere alla email spvit@tin.it

Cartonato - pag. 808, a colori
da euro 120,00 a euro 80,00
in esaurimento, per l'acquisto
scrivere alla email spvit@tin.it