Viterbo IL RACCONTO
Agostino G. Pasquali

 

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La lotta per la vita

     Nei mesi successivi non accaddero fatti meritevoli di essere raccontati.

     I giorni passavano monotoni con l’incessante alternanza di lavoro in fabbrica e riposo in baracca. Riposo? Sarebbe meglio dire: inazione, alienazione, estraniazione stuporosa come per l’effetto di un anestetico che stordisce ma non dà un vero e piacevole riposo.

     Nemmeno rompevano la noia i frequenti passaggi degli aerei alleati diretti a bombardare Berlino, e infatti ci eravamo abituati agli allarmi e al frequente passaggio rombante dei bombardieri. Il loro arrivo veniva segnalato dal comando del campo con un lugubre ululato delle sirene che significava l’obbligo di rifugiarci nei ‘Bunker’.

   Forse i comandanti di quegli aerei avevano specifici obiettivi da colpire, oppure erano in grado di riconoscere, per lo meno di giorno, che lì, dove stavamo noi, c’era un lager pieno di prigionieri e quindi sarebbe stato un atto criminale sganciarvi le bombe per uccidere pochi soldati tedeschi ma anche tanti compatrioti e uomini di paesi alleati.

     Pertanto, se l’allarme era dato di giorno, lasciavamo le nostre occupazioni al suono delle sirene senza alcuna paura, con calma, anzi con il non piccolo piacere di interrompere il lavoro e di rallentare la produzione bellica. Talvolta ci attardavamo sulla soglia del rifugio, succubi di una insana curiosità, a guardare gli stormi di aerei: passavano in volo in formazioni geometriche che ci stupivano per la perfezione perché era come se effettuassero una parata elegante nella forma, ma la sostanza era che dopo pochi secondi avrebbero sganciato tonnellate di mortifere bombe. Berlino era vicina e sentivamo presto le esplosioni seguite dalle colonne di fumo che vedevamo alzarsi all’orizzonte: esplosioni, distruzione e morte, ma restavamo indifferenti a guardare.

     Invece, se l’allarme era di notte, il pericolo era notevole perché i bombardieri sganciavano le bombe dovunque individuavano un centro abitato. Dunque di notte, al primo suono delle sirene, ci levavamo dalle cuccette a castello e andavamo al rifugio di corsa e tuttavia con la passiva rassegnazione di chi sa che, una volta o l’altra, può essere colpito e morire. In fondo la morte è talvolta una liberazione per chi soffre senza speranza.

     Ma non erano solo la noia e i rischi notturni che ci tormentavano perché eravamo, come sempre, affamati. Può sembrare strano che ci si possa ragionevolmente abituare a tutti i mali, anche ai dolori fisici, anche al pericolo di morire, ma non alla fame.

     Tuttavia ci fu un momento che ruppe, almeno per me, il triste tran tran dei giorni grigi, penosi e soprattutto affamati. Ricordo che era la Pasqua di quell’anno.

     Per uno dei tanti bombardamenti su Berlino non erano arrivati i rifornimenti. La cucina ci aveva fornito solo una brodaglia composta di patate cotte in acqua sporca, proprio sporca con residui terrosi che scricchiolavano sotto i denti: le patate erano state messe a lessare nei pentoloni senza neppure pulirle.

     Da parecchio tempo a me non era arrivato più alcun pacco da casa perché il paese del Lazio, dove stava rifugiata la mia famiglia, era stato liberato dagli alleati e si era quindi interrotto ogni rapporto postale. Invece alcuni compagni di baracca, originari dell’Italia settentrionale dove sopravviveva la repubblica di Salò e c’era ancora il controllo tedesco, ricevevano viveri da familiari e amici. Quei pochi che ricevevano un pacco, se richiesti con insistenza, concedevano qualcosa ai colleghi meno fortunati, ma lo facevano controvoglia, sgarbatamente, facendo capire che consideravano quella cessione quasi un’estorsione.

     In quell’occasione che, come ho detto, era il giorno di Pasqua, giorno di riposo, non c’era neppure la distrazione del lavoro. Avevo una fame torturante, ma la dignità mi impediva di umiliarmi a mendicare cibo a chi ne aveva ricevuto da casa.

     Dopo il rancio, che era stato quel paio di patate sporche di terra, mi ritirai nella baracca sperando di dormire e dimenticare la fame. Coricandomi sentii qualcosa che si frantumava sotto la coperta: erano tre dischi di Schüttelbrot. Capii che ce li aveva messo di nascosto dagli altri il carabiniere Kurzschwarzer che evidentemente aveva ricevuto un pacco dalla famiglia. Avrei voluto ringraziarlo, ma non era nella sua cuccetta. Mi ripromisi di farlo appena possibile.

     Mangiai un po’ di quel pane lentamente, per gustarlo meglio, per farlo durare, per lasciarne un po’ per i giorni successivi. Lo mangiai di nascosto per evitare che qualcuno se ne accorgesse, per non creare problemi al mio benefattore.

*     *     *

     Ora, ricordando quel dono prezioso e inaspettato da parte di Kurzschwarzer, mi chiedo se lui abbia aiutato me per generosità o per una scelta selettiva e quindi un po’ egoistica, perché ero il suo comandante da trattare in modo privilegiato. Di sicuro non poteva certo dare il pane a tutti come aveva fatto sul treno a Franzenfeste. Allora si era trattato più che altro di un assaggio perché, pure in una situazione di scarsità di cibo, non c’era la fame grama dei giorni del lager.

   Adesso, mentre ci ripenso, mi viene in mente che il Vangelo narra come, in una situazione analoga di mancanza di cibo, ma certamente meno drammatica, Gesù sfamò una folla moltiplicando cinque pani e due pesci. Ma Kurzschwarzer non era Gesù che aveva il potere di fare i miracoli. E dunque mi viene da dire: “Ma che bravo Gesù! Bella forza, dar da mangiare agli affamati con un miracolo!”... Ma che mi viene in mente? Sto bestemmiando?

     Comunque mi sono chiesto spesso se nelle difficoltà emergano le doti migliori oppure quelle peggiori dell’animo umano. A leggere i romanzi, a osservare film e sceneggiati, si trovano risposte contrastanti. La mia esperienza di carabiniere mi porta al pessimismo, probabilmente per deformazione professionale perché ho avuto a che fare più con i delinquenti egoisti che con le persone buone e generose.

     Tuttavia mi sforzo di credere che bontà e generosità siano più diffuse di quanto sembra, che non si mostrino perché sono mimetizzate dalla modestia. Infatti qualche persona generosa la conosco, ma sovente nasconde le sue buone azioni con una forma di modestia più laica che evangelica. Kappadue, Klaus Kurzscharzer, era sicuramente uno di questi.

     Peraltro, se ripenso a quei brutti momenti di quasi mezzo secolo fa, alla guerra e alla prigionia, alla fame e ai pericoli, devo concludere che, in quel luogo di sofferenza che fu il lager, chi era già egoista peggiorò e chi era generoso fu costretto a indurire l’animo e a soffocare la generosità. Perché quello era l’unico modo per sopravvivere. O no?

*     *     *

     Apro una parentesi nel racconto.

     Qualche tempo fa ho manifestato questi pensieri a un mio nipote che ha studiato filosofia e quindi – suppongo – capisce l’animo umano e i grovigli di sentimenti che lo travagliano. Mi ha ascoltato, ha annuito, e poi mi ha mostrato un quadruccio che tiene appeso nel suo studio. Invece del solito paesaggio bucolico la cornice inquadrava un semplice cartoncino con una scritta. Questa:

                 Homo homini lupus (Hobbes)

                 Lupus est homo homini (Plauto)

                 Homo homini aut deus aut lupus (Erasmo di Rotterdam)

                 Mala vitae vi puer aut lupus aut agnus fit (Anonimo)

   Ho letto e sono rimasto sconcertato: l’unica cosa che capivo era che si trattava di latino, e io non Io so il latino; ma lui mio nipote, sì, l’ha studiato. Ha tradotto quelle massime e me ne ha spiegato il significato, però l’ha fatto con un discorso che era per me difficile da seguire e comprendere, per cui gli ho chiesto di scrivermelo. Si è messo alla Olivetti-lettera 22, ha riempito due pagine e me le ha date. Conservo ancora il foglio. Ecco la trascrizione:

   “Affermare che l’uomo sia un lupo nei rapporti con il suo prossimo è una massima di grande effetto ma, come sono quasi sempre le massime, è errata o quanto meno discutibile e rettificabile. Infatti, come si può leggere nel quadro, ne ho trascritte alcune versioni che hanno significato diverso, ma ce ne sono altre. Per esempio, Antonio Gramsci ha scritto: “Homo homini lupus, foemina foeminae lupior, sacerdos sacerdoti lupissimus.” (L’uomo è lupo verso gli altri uomini, la donna è pure peggio nei confronti di un’altra donna, il sacerdote nei confronti dei suoi colleghi è il peggio del peggio). Si può essere più pessimisti di così? Oppure Gramsci scherzava?

     Comunque bisogna precisare che il lupo è una metafora della cattiveria umana. Il lupo, come tutti gli animali, non ha cattiveria ma si comporta seguendo gli istinti naturali, dei quali il più importante è quello della sopravvivenza per cui in situazioni critiche può aggredire per difendersi, o per attaccare, o semplicemente per procurarsi il cibo.

     Bisogna considerare che questo comportamento è conseguenza di una legge naturale. Può sembrare una legge strana, ma non lo è perché vale per tutti gli esseri viventi, animali e vegetali. Gli animali lottano per sopravvivere; i singoli lottano nell’ambito del branco e i branchi lottano tra di loro nell’ambito della loro specie; e lottano le diverse specie fra loro per il controllo del territorio e per cibarsi le une delle altre. In modo analogo lottano pure i vegetali che si contendono spazio e luce sovrapponendosi l’uno sull’altro. Questa è la legge della vita, o meglio della sopravvivenza.

   Veniamo agli esseri umani. Il neonato è veramente uguale a un cucciolo di lupo o di animale in genere, e infatti cerca soltanto cibo e protezione. Ma il bimbo, crescendo, sviluppa quella che è la caratteristica che differenzia l’essere umano da tutti gli altri viventi: la coscienza. Coscienza intesa come consapevolezza e come senso etico.

     L’istruzione, l’educazione e soprattutto la convivenza in gruppi sociali, organizzati come anelli concentrici sempre più grandi (famiglia, vicinato, città… e così via fino allo stato-nazione), plasmano la coscienza nel bene e nel male, secondo le loro regole, ma non sopprimono l’istinto di sopravvivenza (lotta per la vita) che si concretizza in contrapposizione, concorrenza, rivalità… e lotta fisica, fino alla guerra.

     E allora, come dice l’Anonimo, è per la brutale violenza della vita (mala vitae vi) che l’uomo diventa un lupo oppure un agnello, ma ovviamente in senso metaforico perché nella realtà diviene dominatore o dominato. Questa alternativa si verifica non soltanto tra individui ma anche tra gruppi a tutti i livelli, fino al livello di stati nazionali. Ecco spiegato perché ci sono le guerre.

     L’uomo si organizza in gruppi sociali con l’intenzione dichiarata di migliorare i rapporti umani, ma non è vero. Certamente la convivenza socializzata produce un miglioramento materiale della vita, un progresso tecnologico ed economico. Questo è innegabile, ma l’uomo resta animale aggressivo, e quindi tende a dominare, vuole dominare.

Chi non desidera essere un ‘dominatore’, uno dei pochi dominanti? Cioè un capo? il direttore? il presidente della repubblica? il re?

E chi non ci riesce, magari si accontenta di essere il (mini) presidente del circolo ricreativo aziendale o il capo del condominio. E se neppure questo gli riesce sarà semplicemente un ‘dominato’, uno dei tanti.

     Si dice che la storia racconti il ‘Progresso della civiltà’, ma è una finzione. Al progresso tecnologico non corrisponde affatto un progresso morale e di convivenza civile. La società umana può apparire talvolta migliorata, ma è appunto un’apparenza perché in effetti l’evoluzione raffina semplicemente l’aggressività, la maschera, la rende più subdola, ma la conserva però, perché è connaturata. E alla fine, quando serve, si fa la guerra.”

     Ho letto lo scritto, ho meditato e ho chiesto: “Ma, allora, la politica? La democrazia?”

     Mio nipote ha sorriso un po’ sornione, non mi ha risposto, ma ha rimesso il foglio nella lettera 22 e ha aggiunto: “La politica è una creazione umana che, istituendo forme di dominio monocratiche o aristocratiche o democratiche o più spesso plutocratiche, continua la lotta fra la voracità insaziabile dei dominatori (i lupi della metafora) e la resistenza dei dominati (gli agnelli della metafora). OVVIAMENTE VINCONO POLITICAMENTE, DEMOCRATICAMENTE, SEMPRE I LUPI.”

     Questa teoria mi ha convinto, soprattutto considerando la mia lunga esistenza passata attraverso due guerre mondiali con l’intervallo di una dittatura, e vivendo attualmente (anno 1988) in una sedicente democrazia.

     Ho però qualche riserva sul comportamento individuale. Tornando al racconto: Kappadue era così ‘cattivo’? E io stesso come mi devo giudicare: un lupo o un agnello o magari, essendo stato carabiniere, un cane da pastore? E Walpurga? Già, Walpurga…

 

Walpurga

     Passata la Pasqua i giorni, le settimane, i mesi, continuarono a scorrere grigi e penosi.

     Tirava un’aria brutta nel lager, e peggiorava ma non per motivi locali interni al lager, piuttosto per il peggioramento della situazione generale del Reich. Il deterioramento della situazione bellica, soprattutto dopo lo sbarco in Normandia delle truppe alleate avvenuto il 6 giugno, stava indebolendo nei tedeschi, giorno dopo giorno, la fiducia nella vittoria e aumentando il timore della disfatta, e inoltre generava perfino una speranza di nuovo genere: la fine della guerra, una fine comunque fosse, anche con la resa.

     Forse per quei motivi i militari guardiani del lager erano divenuti più tolleranti nei nostri confronti e, se pure esigevano sempre il pieno rispetto della disciplina, com’era nella loro natura, si accontentavano di un rispetto formale, direi all’italiana: se potevano non vedere, evitavano di guardare; se non potevano evitare di guardare, facevano finta di non aver visto. Sempre nei limiti di un furbo rispetto formale.

     ‘Die strenge Walpurga’ era la solita cagnaccia da guardia, occhiuta e intransigente, però meno manesca. Semmai aveva un atteggiamento più cupo, come se qualcosa la rodesse nella coscienza. Con il passare dei giorni aveva imparato un po’ di italiano, soprattutto insulti e parolacce che sono le prime parole che si imparano quando si convive con gli stranieri.

     Dopo l’episodio dello schiaffo, cui era seguito quel suo accenno di scuse di cui ho detto, e dopo aver costatato che parlavo un po’ di tedesco, di tanto in tanto mi rivolgeva la parola e io azzardavo un po’ di confidenza. Un giorno le chiesi:

     “Gnädige Frau, hier wissen wir nichts über der außeren Welt. Kann ich fragen, bitte, wie der Krieg geht?” (Gentile signora, noi qui non sappiamo nulla del mondo esterno. Per favore posso chiederle come va la guerra?)

     Ascoltò le prime parole, la premessa, con interesse quasi umano. Nessuno forse, neppure un amico, ammesso che ne avesse avuto qualcuno, l’aveva mai chiamata ‘gentile’ (gnädige). Ma quando arrivò la domanda vera e propria mi guardò con un’aria scontrosa, strinse un pugno che era a misura di macigno; temetti che me lo desse in faccia; pensai: “Ma chi me l’ha fatto venire l’impulso di fare una domanda così provocatoria?”

     Non fece nulla e io tirai un sospiro di sollievo. Invece, dopo un attimo di attesa durante il quale lo sguardo le divenne ancora più duro, esclamò in un misto di tedesco e italiano approssimativo ma ben comprensibile:
     “Kaatso! Mala antare! Scheiße und Verdammt! (Merda e dannazione!). Tutta colpevola di taliani, guera mala, molto più mala… taliani no aiuto: i taliani partighiani esere terroristen, Musolini e taliani pubblikini esere mit uns (con noi) pero colioni.”

     Ero rimasto senza fiato e aspettavo la tempesta che, pensavo, era solo rimandata. Forse lei lo capì e addolcì un po’ lo sguardo. Poi concluse:

     “Nichts gegen dich (Nulla contro di te) … tu buono taliano.”

     Si allontanò lasciandomi nel dubbio, se veramente pensasse bene di me oppure se mi ritenesse soltanto uno schiavo diligente, utile come una bestia da lavoro e altrettanto insignificante nella sua scala sociale.

     La notte successiva sognai lei, Walpurga, che mi sorrideva, mi diceva parole gentili, e io ricambiavo abbracciandola amichevolmente.

     Evidentemente mi agitavo nel sogno, mi muovevo e parlavo, così da disturbare i vicini di branda. Mi svegliai sentendomi strattonare da una mano che non era affatto una gentile mano femminile. Era il brigadiere Caputo che, con tono di voce preoccupato, mi chiedeva:

     “Mariscià, che vi sentite male?”

     “No, sto bene. Stavo sognando. Perché mi hai svegliato?”

     “Perché vi aggitavate e mugolavate, comm’uno ca soffre. O, se mi posso permettere… comm’nu gatt’nnammurate.” 

     Gatto innamorato? Che per caso mi stavo innamorando di Frau Walpurga? Che idea! Un uomo si può innamorare di una come quella virago? Ma sì, certamente! L’aspetto fisico bello è come il richiamo per le allodole, uno specchietto ammaliante ma traditore. Dietro un bel musino, oltre le belle forme, può esserci il vuoto sentimentale e, nel caso peggiore, una strega. L’erotismo è fisicità di qualche attimo, come avviene per il gatto innamorato di cui diceva Caputo, ma l’amore è un sentimento per la vita, almeno nell’intenzione.

     Però in quelle circostanze, nel caso mio, l’aspetto fisico era del tutto irrilevante. Quello che contava era che la mia affettività era già impegnata. Allora il pensiero corse via da quella baracca del lager, sorvolò la fredda pianura germanica, superò le rocciose montagne alpine, attraversò la dolce pianura padana, e ancora via, sui verdi monti dell’Appennino centrale fino al Lazio dove una giovane moglie e un bimbo aspettavano il mio ritorno.

     Tornerò? La domanda con risposta impossibile mi agitava e mi rendeva difficile riprendere il sonno.

     Ripensai a Walpurga e mi resi conto che non c’era nulla di erotico nel mio sognarla, ma soltanto un atteggiamento fraterno. Come amica, come sorella, sì, devo dire che lei mi stava diventando simpatica.

 

(La terza puntata fra sette giorni)

 

 

 

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