Viterbo IL RACCONTO
Agostino G. Pasquali

L'anno scorso scrissi un racconto a puntate che il direttore Mauro Galeotti gentilmente pubblicò nei mesi di novembre e dicembre. Si trattava di “Schüttelbrot a Natale 1943 nella baracca 17”. Era il libero adattamento della narrazione di fatti tratti da un memoriale, scritto a penna in un quaderno da un anziano maresciallo dei carabinieri che sentiva avvicinarsi la fine della sua vita. Riporto qui la fotocopia dell'incipit.

Un paio di lettori mi fecero notare che quel racconto non sembrava concluso perché si interrompeva troppo bruscamente, lasciando la curiosità di conoscere il seguito. Quei lettori avevano un po' di ragione, anzi forse piena ragione, per cui, sempre traendo spunto dal memoriale del maresciallo, ho scritto il seguito che inizia con la puntata odierna e proseguirà a puntate settimanali. Può sembrare il soggetto di una telenovela? Forse. Perché no? C'è qualcosa di male? Ci sono brutte telenovelas ma ci sono quelle ottime. Spero che questa mia risulti almeno buona. Ritengo che per una giusta comprensione della storia sia opportuno conoscere la parte precedente che si può trovare al seguente indirizzo: www.lacitta.eu/images/stories/pdf/Schuttelbrot-a-Natale-1943.pdf

Per chi non ha la pazienza di leggere o rileggere tutto il racconto scrivo qui appresso un brevissimo riassunto.

RIASSUNTO

Un maresciallo dei carabinieri racconta in prima persona la storia di una parte della sua vita.

L'8 settembre 1943, il giorno del tristemente noto “armistizio”, il maresciallo si trovava in Grecia per servizio e fu fatto prigioniero dai tedeschi come tanti militari italiani in Italia e all'estero. Venne caricato in un vagone merci insieme ad altri commilitoni per essere deportato in Germania.

Dopo un lungo e disagiato viaggio dalla Grecia alla Germania fu internato nel lager di Babelsberg nei pressi di Berlino e qui cominciò una sofferente prigionia.

Fu particolarmente triste l'avvicinarsi del Natale 1943, che venne però allietato proprio alla vigilia da una singolare ed emozionate Messa di Mezzanotte.

Schüttelbrot a Natale 1943 - Seconda serie

Al lavoro come schiavi

Ho già spiegato in precedenza che noi, pur essendo di fatto prigionieri di guerra, eravamo stati inquadrati formalmente come I.M.I., cioè internati militari italiani, vale a dire criminali secondo il codice militare, e perciò privati delle tutele della Convenzione di Ginevra; di conseguenza venivamo trattati come detenuti (internato significava appunto: detenuto, carcerato) e dunque disprezzati, costretti a lavorare come schiavi e nutriti con scarti di cibo (1).

Della fame ho già scritto abbastanza. Ora parlerò del lavoro.

Sei carabinieri, ma adesso dovrei dire 'internati', tra i quali c'ero anch'io, erano stati assegnati ad una fabbrica di pezzi per armi. Io ero addetto a una macchina che forava e rifiniva i fondelli dei bossoli per mitragliatrice pesante.

Non era un lavoro faticoso, ma era molto noioso e disagiato per il freddo che intorpidiva mani e piedi. Di conseguenza le semplici operazioni che dovevo fare, cioè alimentare la macchina con i bossoli in arrivo e smistare i bossoli lavorati muovendo alcune leve e sistemando delle cassette, erano operazioni di per sé semplici, ma divenivano dolorose, quindi provocavano errori e determinavano scarti di lavorazione.

A me personalmente importava poco se il numero degli scarti era più elevato della tolleranza prevista con la pignoleria tipica dei teutonici: 0,1% fori mancanti, 0,2% fori irregolari, 0,4% ammaccature.

C'era però un ispettore che girava di continuo nelle corsie dello stabilimento per controllare le lavorazioni. Radio Fante (2) diceva che fosse un anziano insegnante di nome Andreas Bremenz, sospeso temporaneamente dal suo lavoro perché la scuola era stata distrutta in occasione di uno dei frequenti bombardamenti.

Nemmeno lui si preoccupava della qualità della lavorazione: i bossoli nemmeno li guardava. Si preoccupava soltanto della quantità e perciò gli bastava percepire distrattamente la continuità del ticchettio dei macchinari, dei tonfi ritmici delle presse, dello stridio delle mole; in sostanza gli interessava soltanto che il rumore tipico dello stabilimento industriale fosse regolare e ininterrotto.

Però se una macchina si fermava accorreva subito per rimproverare l'addetto, ma oltre il rimprovero non andava, punizioni non ne dava.

Avevo capito che, forse grazie alla sua cultura, quell'insegnante, divenuto provvisoriamente controllore, era una persona comprensiva e tollerante e capiva la nostra sofferenza e infelicità. Probabilmente sapeva pure che, nonostante i roboanti messaggi del Führer ripetuti meccanicamente dalle autorità civili e militari, la situazione generale del suo paese stava peggiorando e la Germania si stava avviando verso la sconfitta.

Purtroppo per noi Herr (3) Bremenz ci lasciò presto per tornare alla sua scuola che nel frattempo era stata ripristinata.

Al suo posto arrivò una ben diversa e tormentosa Frau (3) Walpurga Strenge. Ma forse Strenge non era il cognome ma il soprannome: infatti era anche detta “Die strenge Walpurga” (= la severa Walpurga). E se quel cognome creava già una brutta aspettativa, il nome di battesimo appariva sgradevole a noi italiani perché evocava il cattivo ricordo delle purghe subite da bambini e quello, anche peggiore, dell'olio di ricino dei fascisti. Ma fu il suo aspetto fisico, quando la vedemmo per la prima volta, a impressionarci e preoccuparci.

Era costei una teutonica tutta d'un pezzo, sia in senso materiale perché aveva la struttura di un cilindro alto e grosso, con braccia e gambe formate e robuste come tronchi di quercia, sia in senso psicologico per l'atteggiamento grintoso come quello di un cane da guardia. Era inoltre una fedelissima del nazismo, ancora fiduciosa nella vittoria finale cui lei intendeva collaborare con la sua opera di controllo del nostro lavoro.

Frau Walpurga aveva una sensibilità uditiva tale da percepire da lontano, attraverso ogni minima irregolarità dei rumori, se c'era un'incertezza nel governo delle macchine o un errore con scarti del prodotto. Allora arrivava con passi rapidi e pesanti e dava, di solito con un nerbo di bue, una dolorosa punizione al povero operatore che aveva sbagliato o rallentato la lavorazione. Bastavano un paio di sferzate perché il segno e il ricordo doloroso durassero per parecchi giorni.

Anche a me successe di subire una punizione da parte di quella virago.

La macchina che usavo, la perforatrice dei bossoli, si era usurata e non centrava più esattamente i fondelli. Io non me ne ero accorto, un po' perché mi preoccupavo soprattutto di non commettere errori e di non rallentare il ritmo del lavoro e un po' perché nessuno mi aveva istruito su quel particolare controllo.

Nonostante la noia del lavoro ripetitivo e il disagio del freddo che mi intorpidiva le mani, cercavo comunque di lavorare secondo le istruzioni che mi erano state date e non mi importava nulla della perfettibilità del risultato che, come ho detto, non era compito mio.

Un giorno Frau Walpurga venne a controllarmi e si dimostrò soddisfatta del mio rendimento valutandolo secondo i parametri numerici. Però, quando esaminò i bossoli perforati, notò che i fori non erano posti esattamente al centro dei fondelli.

Probabilmente qualcosa si era sregolato nella macchina e io non me ne ero ovviamente accorto. E poi c'era in me, come in tutti i lavoratori italiani trattati da schiavi, l'interesse, il desiderio, e una segreta soddisfazione nel pensare che il risultato del nostro operato potesse essere negativo, controproducente.

Non era un sabotaggio vero e proprio, ma una specie di sadico compiacimento nel prevedere i possibili disastri che i tedeschi avrebbero potuto subire.

Frau Walpurga si infuriò, mi investì con una serie di parolacce, di improperi che io non capivo nonostante la mia conoscenza della lingua tedesca, che però era scarsa e limitata al linguaggio ufficiale, e quindi non comprendevo né le varianti dialettali né il vocabolario degli insulti volgari. Lei considerò male il mio atteggiamento stupito e passivo, causato dal fatto che non la capivo, e mi colpì con uno schiaffo in pieno volto.

Il direttore della fabbrica, un tedesco che di solito se ne stava per i fatti suoi in un ufficio sopraelevato chiuso a vetri, da dove vedeva tutto ma sembrava indifferente a tutto, scese attirato dall'esplosione verbale della Frau.

Per mia fortuna Herr Alois Mayerfeld, si chiamava così, parlava un tedesco pulito e comprensibile; quindi riuscii finalmente a capire quale era il problema e a giustificarmi nei confronti della 'Strenge Frau'.

Intanto Herr Mayerfeld aveva chiesto l'intervento di uno specialista che registrò i meccanismi della perforatrice. Frau Walpurga assisté passiva ma interessata alle operazioni.

Alla fine si rivolse a me e disse: “Entschuldigung für…” che significa “Scusa per…” e mimò lo schiaffo che mi aveva dato.

Per una teutonica pura e dura come lei, era il massimo di cortesia che potesse concedere.

Risposi:
“Keine Entschuldigung, bitte. Ich habe verstanden.”

Che significa: “Non c'è bisogno di scuse. Ho capito.”

Mi sorrise, un incredibile sorriso dolce. Glielo ricambiai e pensai che la guerra, l'odio fra i popoli, i contrasti politici, sono veleni che intossicano l'umanità e trasformano la gente civile in animali feroci. Ma a livello individuale l'umanità può sempre manifestarsi come un fiore delicato, come un bucaneve che emerge dalla terra e rompe lo strato ostile della neve invernale alla ricerca del primo tenue tepore del sole di primavera.

NOTE:

(1) Subito dopo l'armistizio dell'8 settembre i tedeschi si impadronirono dell'Italia settentrionale e centrale e offrirono ai soldati italiani, presenti nell'Italia da loro occupata, questa scelta: o combattere con loro oppure essere deportati in Germania. Una piccola parte dei militari accettò la collaborazione, ma la maggior parte rifiutò e finì nei lager.

Ci furono anche moltissimi che, gettata la divisa, si nascosero, mentre altri presero le armi come partigiani. Considerando la situazione da un punto di vista strettamente giuridico, cioè del diritto internazionale, l'Italia, dopo l'8 settembre, non era più in guerra contro gli alleati, ma non lo era neppure contro la Germania.

Infatti la dichiarazione di guerra alla Germania fu formalizzata dal governo italiano soltanto il 13 ottobre. Pertanto i militari italiani catturati dai tedeschi in quel lasso di tempo, non facevano parte di un esercito nemico e quindi erano considerati traditori se rifiutavano di combattere, oppure disertori se fuggivano.

In conclusione i tedeschi, attribuendo ai militari italiani la pretestuosa qualifica di IMI, non li considerarono prigionieri di guerra e si sentirono in diritto di incarcerali come delinquenti e utilizzarli come lavoratori. In questo modo i tedeschi si procurarono 600.000 schiavi da utilizzare nelle fabbriche e nei campi in sostituzione dei loro uomini chiamati alle armi.

(2) Nel gergo delle caserme viene detto 'Radio Fante' il diffondersi di pettegolezzi e indiscrezioni, che è rapido e inevitabile particolarmente in ambito militare nonostante che sia riservatissimo e disciplinato, ma solo in apparenza.

(3) 'Herr' (= signore) e 'Frau' (= signora) erano i titoli con cui dovevamo rispettosamente chiamare i civili tedeschi con cui venivamo in contatto. Ai militari ci si doveva rivolgere con 'Herr' e il grado. Per noi IMI nessun titolo.

 

 

 

 

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