Questo è il 60millesimo articolo del giornale

 

Il Palazzo papale nel 1860 circa (Archivio Mauro Galeotti)

La storia di Viterbo per Pietro Egidi - prima parte
La storia di Viterbo per Pietro Egidi - seconda parte

La storia di Viterbo per Pietro Egidi - terza parte

Meno intenso invece l'influsso sulle costruzioni civili. In esse resistono molti degli elementi dell’arte romanica.

Sta appunto in questo, se non m’inganno, lo speciale carattere delle nostre costruzioni civili dugentesche. In esse, come forse mai altrove, s’ è cercato di fondere e armonizzare i due sentimenti.

La tradizione costruttiva romanica non poteva essere repentinamente troncata o assorbita: era troppo viva e affidata a troppi monumenti! I costruttori viterbesi, quando non sono sotto la diretta influenza dei monaci stranieri, voltano “ancora gli archi a tutto sesto, preferiscono le travate alle crociere, tagliano le finestre ad arco tondo o ribassato; però non può non giunger gradita al loro senso d’arte la ricchezza e la bellezza dell’ornato francese; se ne innamorano, e cercano avvivarne e abbellirne i loro edifici.

Da questo tentativo di armonizzare le eterogenee tendenze vien fuori il palazzo degli Alessandri a San Pellegrino. Ecco: è ancora arco lombardo a tutto sesto che domina; ma nell'arco corrono gusci, tondini, listelli, che lo arricchiscono e lo rendono più leggero; dalle pareti si protendono cornici a gragde rilievo, solcate da profonde gole e tempestate da file di rosette a punta di diamante, di dentelli, di fuseruole; i capitelli, sebbene semplici ancora, arricciano vivamente le loro foglie.

E presso all’arco tondo arditamente si slanciano gli archi rampanti a sorreggere i fianchi degli edifici, a sostenere le scale che dalla via salgono svelte alle abitazioni; accanto alle finestre, semplici, rozze, limitate da un arco ribassato poggiante sui nudi filari di pietre conce, se ne aprono altre scompartite da colonnine sottili che sorreggono trafori lobati. C'è in tutto un movimento, una vita, una ricchezza, ignoti alle pesanti fabbriche dei secoli precedenti!

E come nel palazzo degli Alessandri, che risale certamente ad alcuni decenni prima del 1250, così nel palazzo comunale. Qui oggi la cosa è meno evidente, perchè della prima costruzione, avvenuta tra il 1264 e il 1270, non resta che il portico: caddero o furono abbattuti i piani superiori verso la metà del quattrocento, e furono rinnovati pontificando Sisto IV, di cui la rovere e il nome campeggiano ancora nel prospetto. Ma la forma dei capitelli dalle grandi foglie fortemente piegate, e la sagoma delle cornici che girano sugli archi ci fanno sicuri del nostro giudizio.

Con tutta probabilità nel dugento buon numero di finestre bifore traforava la facciata, dando luce al grande salone dipinto, ove si raccoglieva il consiglio grande, affollato di cavalieri e di popolani, a discutere e decidere gli affari del Comune, mentre sotto il portico e nella corte retrostante si rendeva giustizia all'aperto, in cospetto di ogni cittadino.

Se si pensa che la costruzione del palazzo comunale si compiva negli stessi anni che s’erigeva quello papale, di cui parleremo subito, e se si pon mente alla facilità con cui si ripeteva un motivo quando fosse piaciuto, forse non si riterrà troppo lontana dal vero la ipotesi che si possa riconoscere un facsimile del palazzo comunale dugentesco in una modesta casetta, della piazza del Duomo, per fortuna assai ben conservata.

Questo piccolo edificio con ogni probabilità non sorse che in pieno trecento, di certo non esisteva nel 1278, e nei dettagli, specialmente nei capitelli, porta i segni d’un arte un poco più avanzata; ma il suo portico è una derivazione di quello comunale, come le sue finestre sono una ripetizione di quelle del palazzo papale.

La fantasia moltiplichi gli archi e le finestre, faccia sormontare il prospetto da una merlatura guelfa e avrà, se non m’inganno, l’immagine del palazzo del Comune.

Immagine di forza e d’ eleganza che doveva esser patente prova della potenza e della ricchezza raggiunte dal comune, mentre il palazzo papale, che negli stessi anni andava sorgendo, doveva esser segno dell’altissima mira cui ne tendeva l'ambizione. Ne sorse l’idea intorno al 1260.

Tre anni prima papa Alessandro IV, sentendosi malsicuro a Roma, sempre torbida e più esposta ai possibili assalti di re Manfredi, s’era ritratto in Viterbo con tutta la corte, e vi s'era trovato così ad agio, salvo brevi intervalli, da rimanervi fino alla morte. Quali e quanti vantaggi ne venissero al Comune è facile immaginare: la ricca e numerosa corte pontificia
stabilmente allogata in città, moltiplicato a dismisura il valore degli stabili, cresciuto ogni commercio, frequenti i pellegrinaggi di fedeli, le visite de’ vescovi, le ambascerie de’ principi.

Agli enormi vantaggi materiali s’accoppiava l’orgoglio d’esser divenuto centro del mondo cattolico, sede di quell’autorità che, benchè scaduta dall’altissimo seggio cui l’aveva innalzata Innocenzo III, pure era ancora la prima dell’Occidente.
E allora maturò lentamente nell’animo dei Viterbesi il sogno ambizioso. Perchè la temporanea cuccagna non mutarle in perpetua grandezza?

Roma è in rovina, per le sue vie scorre ogni giorno il sangue, il suo popolo, sobillato dall’eretico Brancaleone, non vuol più saperne di dominio papale; d’estate l’aria romana è malefica: perchè Viterbo non sarà la nuova Roma?
Balenato il pensiero, ad ogni mezzo si ricorse per attuarlo. I Viterbesi fecero proposte d’oro! Promisero: se il papa verrà tra noi, la sua corte sarà albergata a spese del Comune; mai mancheranno i viveri, e il loro prezzo non salirà oltre i limiti fissati dal camerlengo della Chiesa; l'esercito cittadino sarà sempre a difesa del pontefice; e poichè fino ad oggi questi ha avuto per dimora un piccolo palazzo, ne costruiremo uno nuovo, ampio e bello, tanto che egli non rimpianga il suo Laterano. Al papa la prospettiva non spiacque; e così l’episcopio si trasformò in reggia papale.

Quel Raniero Gatti, che col Capocci era stato l’anima della difesa contro gli imperiali, era poi rimasto l’arbitro della città, e allora col titolo di capitano la governava. L’energia sua, mai smentita fino alla morte, riuscì a compiere il miracolo. In pochi anni (forse tre, forse cinque), il palazzo fu pronto ad accogliere l’ospite augusto. Nel 1266 era completa l’abitazione, nel- l'anno seguente la loggia.

Una parte del palazzo oggi, dopo tristi vicende, ha ripreso quasi l'antico aspetto: il resto, le camere più interne, divise da tramezzi, spezzate da bassi soffitti, l'hanno forse perduto per sempre. Ad ogni modo è facile ricostruire l’insieme, era un grosso edificio, la cui cima merlata si intagliava nel cielo.

Il tetto che sovrasta, era una volta due metri più basso e non impedia come fa a adesso, la vista. Un profondo fossato
lo divideva dalla piazza e dalla cattedrale; la facciata opposta cadeva quasi a perpendicolo sulla valle profonda. Era più un grosso castello che una dimora sacerdotale; ma era troppo noto come la santità dell’ufficio non fosse sufficiente difesa nei sì frequenti giorni di tumulto!

La costruzione è rozza e possente: ma nelle scabre pareti fioriscono le gentili bifore a tutto sesto, dai lobi ogivali, dagli estradossi traforati; una bella cornice si svolge sopra i loro archi e le ricollega alla porta principale. Subito appresso sull’ampio arcone pesante, sostenuto nel mezzo da un robusto pilastro poligonale, si svolge la leggerissima loggia.

Le sottili colonnine abbinate che si gittano coppia a coppia, una sì una no, i rotondi archi, dal cui incontro nascono le ogive a trafori lobati, pare debbano cedere, tanto sono esili, sotto il pesante coronamento. Il contrasto cresce ragione: di meraviglia! A questa fronte una simile doveva rispondere verso la valle, e sopra un tetto a due pioventi chiudere il luogo, facendone un nido di sogno!

Ogni parte ornamentale di questo bellissimo tra i monumenti viterbesi, è informata al nuovo stile: le sagome delle cornici e delle basi, i capitelli uncinati, i trafori lobati delle arcate e delle finestre, i grandi archi di contrafforte che sostengono il muro dal lato settentrionale, dove il terreno scosceso richiedeva altissime costruzioni.

Negli elementi costruttivi invece si ritrova ancora l’influsso della primitiva tradizione. Pesante e nuda la facciata del palazzo, tondi gli archi delle porte e delle finestre; una volta a botte, non una crociera, sostiene la loggia; pesantissimo è il coronamento che grava sulle deboli colonnine.

Nel palazzo pare prevalere la rozzezza romanica, la eleganza gotica invece nella loggia. Ma dove le due maniere si fondono in una perfetta armonia è nella scala. Coi profili nitidi e complicati delle sue sagome e con l’ardito arco schiacciato, su cui si stende il ripiano, è una delle parti più belle dell’edificio.

Confessiamo che i nostri avi sapevano fare le cose da signori di buon gusto!

E potè parer loro anche di non averle fatte inutilmente! Infatti, per circa 28 anni i papi, da Alessandro IV a Nicolò III, si fermarono a Viterbo; e tutti più o meno lungamente abitarono il palazzo o vi furono eletti! Celeberrimo tra tutti il conclave da cui uscì papa Gregorio X. Erano due anni quasi, che i cardinali, traviati dalle ire personali e dalle male arti degli Angioini, si bisticciavano senza venire a conclusione alcuna, quando d’improvviso il popolo viterbese, guidato dallo stesso Raniero Gatti, anche allora capitano, li prese e a furia li rinchiuse là dentro, giurando non farli uscire che a papa eletto.

E poichè neppur questo giovava a deciderli, cominciarono in pieno inverno a scoprire il tetto «per meglio far entrare lo Spirito Santo», secondo la frase di uno dei cardinali prigionieri. Anche questo non bastando, senza curare maledizioni, minacce e scomuniche, decisero ridurre il vitto giornaliero ai porporati. E così dopo due anni e dieci mesi s’ebbe il nuovo padre dei Cristiani!!

Ma ben presto, tornati i papi a Roma e ridottisi poi ad Avignone, il bel palazzo fu trascurato. Abbandonato ai vescovi, subì ogni sorta di deturpamenti e trasformazioni, fino a ridursi allo stato in cui lo vedemmo con angoscia sino a pochi anni fa; rialzato il tetto, mascherata da volgari stanzette la facciata, accecati gli archetti della loggia, crollato l’altro prospetto sulla valle, mutilata la scala, interrato il fosso.

Solo da breve tempo le cure del ministero e del vescovo, sotto l’impulso dell’ispettore locale dei monumenti, han ridonato alla città questa gemma preziosa, con uno dei restauri meglio concepiti ed eseguiti tra i tanti degli ultimi anni. Qualche piccolo difetto che taluno può riscontrarvi, non vale a diminuire la riconoscenza e la lode per chi con tanta tenacia lo promosse e per chi l’ideò e lo condusse a termine (1).

Furono artisti nostrani o stranieri che idearono questo edificio, il più bello e significativo tra quelli dugenteschi della nostra città? Chi potrebbe dirlo? Basterà a me fare alcune constatazioni. Dell'intreccio di archi simili a quello della loggia, due soli esempi conosco: uno, quasi perfettamente identico, nel chiostro dell’abazia di Vaudrilles, costruita sulla metà del secolo tredicesimo e venuta oggi alla moda, per così dire, dopo che Maurizio Maeterlinck tentò rivivervi i drammi Shaspeariani; l altro, identico nello schema, sebbene privo della parte ornamentale, in una loggetta di cui Federico II aveva abbellito il palazzo suo di Lucera.

Ne aveva forse una simile la dimora imperiale di Viterbo, sorta circa un decennio dopo quella lucerina?
Sotto l'influsso del palazzo papale nacquero molti e molti edifizi: alcuni modellando su di esso i loro organismi sostanziali, altri traendone solo parti accessorie.

Tra i primi sono il chiostro di S. Maria del Paradiso; (una tozza e sgraziata riduzione della loggia) e la fiera casa dei Gatti a San Moccichello, evidente filiazione del palazzo; i secondi sono numerosissimi e traggon di là quale una finestra, quale la sagoma di una cornice, quale le linee costruttiva di una scala.

(1) Per la storia del monumento e del suo restauro vedi la bella monografia dell’ispettore dei mon.[umenti] C.[esare] PINZI, // palazzo papale di Viterbo nell'arte e nella storia, Viterbo. Agnesotti, 1910. 

  Segue

 

 

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