Viterbo la Chiesa di santa Maria Nuova nel 1910 c. (Archivio Mauro Galeotti) 

La storia di Viterbo per Pietro Egidi - prima parte

Di poco posteriore S. Maria Nuova. Abitualmente la si dice costruita nel 1080; in realtà sappiamo solamente che prete Bitervo e Leone suo fratello in quell’anno donarono, perchè vi si erigesse una canonica, una chiesuola col titolo di S. M. nuova «que est posita supra mercatu de ipso castro Biterbu, iuxta hospitale ».

Ma codesta chiesuola può essere la presente? In un’iscrizione incisa nei primi decenni del secolo XII si dice che Bitervo e Leone «inchoaverunt hoc mirificum opus»: incominciarono quest'edifizio mirabile; dunque esso, cominciato dopo il 1080, dovette sorgere negli ultimi anni del mille o nei primi del 1100.

L’esame stilistico anzi spingerebbe piuttosto ad entrare di qualche decennio nel secolo XII. Comunque, essa è oggi uno dei più preziosi gioielli della città. Oggi solamente. Perchè fino a ieri essa era miseramente deturpata.

Un intonaco spesso copriva la severa nudità della pietra concia, si stendeva su per le colonne, celava in gran parte le sculture dei capitelli: sulle navi erano state gittate basse volte che nascondevano il bel tetto dipinto: nel prospetto erano state aperte due porte e un grandissimo occhio rotondo; erano state chiuse invece le finestrine allungate e la elegante porta duecentesca sul fianco.

Per miracolo non era stato abbattuto il vago pulpito esterno, ove è tradizione abbia predicato S. Tommaso d’Aquino. Oggi, per cura del parroco e della Società per la Conservazione dei monumenti, in gran parte le è stata restituita l'antica fisionomia.

Impresa veramente lodevole e degna d’esser segnata ad onore ed imitata. Quando tra pochi mesi il geniale lavoro, con studioso affetto condotto, sarà terminato ; quando abbattute le due brutte cappelle che chiudono ancora le navi minori, saranno ricostruite le due absidiole, e tutta la parte posteriore liberata dalle casupole che le sono addossate, potremo vantarci d’aver vinto sul tempo e sugli uomini una grande battaglia, ritogliendo loro dalle fauci una preda che pareva ormai per sempre perduta; potremo gloriarci d’aver ridato alla città integro un monumento che segna una tappa sicura del cammino dell’arte architettonica fra noi, e d’averle restituito, con gli affreschi che sulle pareti riapparvero, un intero capitolo della sua storia pittorica.

Come spiegare un così rapido passaggio dal vuoto artistico del secolo decimo e dei primi decenni dopo il mille, alla ricchezza di questo periodo? Che era successo?

Che era successo!? che la infanzia malsicura aveva ceduto alla rigogliosa giovinezza; il bocciòlo s'era aperto in fresca corolla; il castello era diventato città. Sin dal principio del secolo undecimo in tutta la provincia romana (come in Toscana, come in Lombardia) s’era andato accentuando un moto di concentramento degli abitanti.

Il numero dei vici, dei gau, delle corti va restringendosi e cresce quello dei castri. Non infrequenti le riunioni di lavoratori in un luogo preso in enfiteusi da un monastero e da un signore per farvi un castello, «ad castellum faciendum»; non infrequenti le agglomerazioni intorno ad un castello già da tempo costrutto.

Mille le cause di questo movimento demografico e sociale, mille gli episodi; ma sarebbe fuor di luogo parlarne. Solo credo necessario accennare ad uno, perchè, male interpretato, servì di base a tutta una fantastica storia sulla derivazione dell’arte viterbese.

Attorno a Viterbo, come del resto in tutta la Toscana e in qualche altra provincia d’Italia, con la minuta suddivisione ripetuta dei feudi diventati ereditari, con la graduale partecipazione ai possessi fondiari dei servi, disseminati nelle corti possedute dal demanio regio o dai grandi signori e specialmente dalle chiese e dai monasteri, s'era venuta formando nella campagna una classe mista di piccolissimi nobili che talora in centinaia si dividevano un magro possesso, di servi turbolenti che pretendevano mutare in diritto il possesso che di fatto avevano sulle terre dei signori, di liberi agricoltori stretti dai legami del vicinato: una classe ribelle, malcontenta, sempre in lotta coi signori, e soprattutto odiata dai monasteri e dalle chiese a danno dei quali più abitualmente s'andava affermando.

Con un nome solo questa classe per secoli venne detta Lombardi, sebbene in più special modo questo nome volesse indicare la piccola nobiltà.
Di fronte a loro nel castello stava formandosi la classe dei cittadini, dediti alle industrie, con i quali i Lombardi avevano frequenti intimi contatti nei mercati, che sappiamo per sicura testimonianza essersi tenuti allora presso la via romana alle porte del castello, ove
ora è la chiesa di S. Maria Nuova.

La convenienza del viver comune e per gli scopi della difesa e per quelli del benessere materiale e per facilitare gli scambi, persuase gli abitanti del contado a stabilirsi intorno al castro, levar case sui due lati della via principale e poi man mano intorno al mercato e nel piano di fronte e nei luoghi elevati ad esso vicini.

Piccole chiese rurali s’aprirono a soddisfare i loro bisogni religiosi, e offrirono centro sufficiente ai bisogni della rudimentale vita comune. Quando però cominciarono a spesseggiare gli abitanti, a crescer la ricchezza, e con essa il gusto, la cultura, il bisogno di sfarzo, le piccole chiese più non bastarono, o parvero troppo umili e nude.

Allora con rapidità, accresciuta forse dalla gelosia di un gruppo per l’altro, ad esse si sostituiscono altre, più grandi, più belle, più cittadine. Quasi cento anni son necessari perchè codesto processo di assimilazione si compia; ma infine, quando l’amalgama s'è formato, ad impedire il rinnovarsi dei danni, a garentire la sicurezza acquisita e l'autonomia benchè imperfetta con dolore e con stento conquistata, i borghi e il castello si chiudono entro mura comuni. Viterbo è formata! — Era forse l’anno 1095.

Questo volle dire il cronista dugentesco, quando registrò che «in quel tempo vennero ad Viterbo grande quantità de’ Lombardi, homini nobilissimi et gagliardi e sagi, et edificorno una strada dal dicto castello insino alla porta Sonsa et impopularo tra li dicti borghi di case e di famiglie».

Questi Lombardi non furon dunque, come anche oggi si afferma, consorterie, maestranze, corporazioni di artieri che qui fossero chiamati a costrurre le chiese, a fabbricare le case; furono « homini nobilissimi et «gagliardi e saggi,» gente abituata alle armi e alle lotte diuturne, in cerca di luogo ove meglio difendersi e prosperare.

Nè vennero dalla Lombardia a portar qui gli elementi di una maniera d’arte nuova fra noi; ma, uomini dei nostri luoghi, edificarono secondo le norme e col senso d’arte che venivan loro ispirati dai magnifici esempi che nella loro patria già sfolgoravano. Le chiese viterbesi, non v'a dubbio, sono d’arte romanico-lombarda, di quell’arte che dominò signora per tutta l'estensione dell’Italia Longobarda dal settimo al dodicesimo secolo.

Anzi di quest’arte sono i monumenti più meridionali, quelli che più si avvicinano a Roma, appunto come il nostro contado fu sull’estremo limite del Regno, di fronte al Ducato romano. Ma non faceva bisogno chiamare artisti e maestranze dalla valle del Po o dai piedi delle Alpi.

A due passi da noi, nella città in cui risiedeva il vescovo, che quei nostri avi riconoscevano per loro pastore, a Toscanella, da due o tre secoli almeno si ammiravano chiese che ogni studioso annovera oggi tra i più puri esemplari dell’arte romanica: S. Maria, S. Pietro. Questa sopratutto, che almeno dal nono secolo era diventata la chiesa madre, la cattedrale.

Chi potrebbe negare ia parentela che corre tra il S. Pietro di Toscanella e le chiese viterbesi? Si spogli la facciata di S. Pietro degli ornati aggiuntivi nel secolo XII, e si avrà il prospetto di S. Maria Nuova; i capitelli di S. Maria di Toscanella somigliano a quelli di S. Maria di Viterbo; quelli di S. Pietro a quelli di S. Sisto; l'abside di questa chiesa ripete gli ornati del S. Pietro di Toscanella.

Certo le chiese viterbesi non sono semplici e pure ripetizioni delle tuscanensi: ma da una parte esse sorgono in città giovane e ancor povera, quindi sono meno ampie, meno ricche; dall’altra nascono più secoli dopo, e quindi nella scarsa ornamentazione che hanno, sono più perfette e più evolute.

Però la pianta, la struttura, il modo di costruire, gli elementi principali di decorazione sono identici o per lo meno similissimi.

Vero è che anche le chiese tuscanensi furono attribuite ad artisti lombardi, ai celebri maestri di Como, le cui associazioni, strette da oscuri saldissimi legami, avrebbero tenuto nelle loro mani il monopolio delle grandi costruzioni in tutto il regno d’Italia per secoli e secoli.

Ma chi più crede a questo romanzetto? Ormai è dimostrato codeste corporazioni non esser mai esistite. Comacino (quale che ne fosse l'origine) fu nome di mestiere; maestri comacini si chiamarono in tutta Italia tutti i maestri muratori, dovunque fossero nati, liberi da ogni vincolo corporativo.

Segue

 

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