Viterbo CRONACA Teresa e il buon ladrone – seconda puntata
di Agostino G. Pasquali

 Leggi la puntata precedente Teresa e il buon ladrone - prima puntata 

  1. 2.         Lunedì mattina in casa Verdi.

               Prima di proseguire nel racconto conosciamo un po’ meglio i signori Verdi.

               Abitano nella città di Viterbo, in via Montoro al numero 18, in una palazzina che fa parte di una serie di case costruite nel seicento. La facciata è stata un po’ rimaneggiata nel tempo ma senza alterarne sostanzialmente l’originale impostazione signorile, che si vede subito per il grande ingresso ad arco con portone massiccio, il quale dà in un ampio androne seguito da una solenne scala. Non c’è ascensore, ma loro stanno al secondo piano, non troppo in alto, e non hanno problemi a salire e scendere anche diverse volte al giorno.

“Fare le scale fa bene alla salute…” gli aveva detto il medico in occasione di una di quelle rare volte che era venuto in visita domiciliare, ma era arrivato su sbuffante e si vedeva bene che avrebbe preferito l’ascensore.

Oltre alla signora Teresa, che ho già presentato perché è stata la protagonista della disavventura al supermercato, c’è Giovanni che è suo marito, e di lui ho già detto qualcosa, infine c’è il figlio Angelo. Si tratta di una tipica famiglia nucleare minima.

 

Giovanni è titolare di un negozio nel centro storico (l’insegna dice: Antica Bottega di Antiquariato  Arte e Artigianato), ed è uno dei pochi commercianti che, grazie al tipo di  attività, resiste ai morsi della crisi, non essendo soggetto alla concorrenza violenta dei supermercati e a quella subdola dell’e-commerce. Resistono anche pizzerie e bar, ma i negozi vicini al suo sono stati chiusi quasi tutti ed è triste anche per lui vedere tante porte sbarrate e i cartelli: Affittasi, Vendesi.  Comunque neppure Giovanni fa grandi affari, non è ricco né spera di diventarlo, ma vive decentemente con i piccoli guadagni che gli vengono dalla vendita di souvenir: piatti e brocchette (roba finta, copie di oggetti dell’epoca rinascimentale) e buccheri etruschi (copie di copie, cioè riproduzioni molto approssimate che artigiani locali eseguono sulla base delle foto degli originali che stanno nel Museo Etrusco di Tarquinia).

Di tanto in tanto gli capita di vendere qualche pezzo di vero antiquariato (un quadro o un vaso del sei-settecento, un mobiletto dell’ottocento, un vecchio libro praticamente illeggibile, ma rilegato in pelle di pecora e odoroso di muffa…) e, più di rado, un’opera contemporanea di pittore o scultore locale (un quadro astratto,  una scultura fatta di bulloni e ingranaggi rugginosi, una composizione di rifiuti di plastica…). In questi casi il guadagno è buono e si fa festa in famiglia stappando una bottiglia di prosecco.

In negozio è aiutato e talvolta sostituito da Teresa, la moglie, ma di lei si fida poco perché non sa riconoscere con sicurezza un pezzo antico e c’è il rischio che lo venda al prezzo di una volgare copia. Per aiutare la moglie ha contrassegnato gli oggetti con un piccolo adesivo, messo sotto o sul retro, che riporta la lettera ‘A’ (autentico) oppure ‘C’ (copia). Ma lei talvolta si dimentica di guardarci.

 

      Il figlio Angelo ha superato abbondantemente i trenta anni e si dichiara intellettuale di sinistra e disoccupato.

     Più esattamente si crede intellettuale perché ha un diploma, legge ‘Il Fatto Quotidiano’ e in TV guarda solo i dibattiti politici e Superquark. Inoltre si dà l’aria da socialista perché tiene sul comodino ‘Il capitale’ di Karl Marx e lo legge di tanto in tanto per curare gli attacchi di insonnia. Infatti dopo aver letto dieci righe si addormenta.

     Però disoccupato lo è veramente.  In passato ha cercato un lavoro per conto suo, per uscire dalla famiglia, tentando i rari concorsi pubblici e le poche selezioni delle aziende private, ma senza successo. Forse non è abbastanza preparato (difettuccio trascurabile), forse non è abbastanza furbo (questo è un po’ grave), sicuramente è senza ‘padrini politici’ (mancanza gravissima). Perciò si è scoraggiato ed ora è un NEET  (acronimo della definizione inglese  ‘Not in Education, Employment or Training’, cioè un ‘Non [impegnato] a studiare, né a lavorare, né a prepararsi per un lavoro’).

     “Macché NEET. È un fannullone!” dice il padre che non apprezza le sottigliezze sociologiche e, come quasi tutte le persone anziane, non capisce i giovani.

In effetti Angelo potrebbe lavorare nell’attività commerciale familiare, ma non se la sente perché ha idee piuttosto originali e ritiene che quel commercio sia immorale in quanto è basato sulla fatuità della gente che compra sciocchi souvenir, e sulle smanie di grandezza dei ricchi che, con il denaro malguadagnato sfruttando i lavoratori, pensano di acquisire importanza in  società arredando la casa con ciò che è costoso, ma superfluo e del tutto inutile, comunque senza alcun valore materiale. Queste idee sono originali? Secondo Giovanni sono sceme, ma a Teresa, che difende  il figlio come giustamente deve fare una madre, viene il dubbio che non siano del tutto sbagliate.

 

*     *     *

     Alle ore otto  sono tutti e tre riuniti per la prima colazione a base di cornetti e buon caffè all’italiana, vecchio stile, cioè fatto con una ‘caffettiera napoletana’ simile a quella di Eduardo De Filippo nella commedia ‘Questi fantasmi’. Non solo è un prezioso cimelio, ma è perfettamente funzionante ed è usata in famiglia da tre generazioni.

          Mentre fanno colazione Teresa riferisce uno strano sogno che ha fatto e che ricorda nitidamente. Racconta:

 

      “Mi sembrava di trovarmi in un’aula di tribunale in attesa dell’inizio di un processo. Non sapevo perché stavo lì, né  chi doveva essere giudicato né per quale motivo. Due carabinieri portarono un uomo ammanettato e incappucciato, lo fecero sedere e gli tolsero il cappuccio. Aveva un viso molto abbronzato, per intenderci potrei dire che era un tipo come Carlo Conti quando fa la pubblicità con Fiorello e ha una parrucca con tanti capelli ricci folti e neri. Naturalmente non era Carlo Conti, ma gli somigliava, e io avevo l’impressione di averlo già visto da qualche parte. Quell’uomo si accorse che lo stavo fissando e mi sorrise. Poi il suo sguardo cambiò in un’espressione cattiva e i suoi capelli si trasformarono in serpenti. Dato che ho la fobia dei serpenti, mi sono spaventata e  svegliata di colpo…”

 

     Giovanni interpreta quel sogno rifacendosi all’Antico Testamento che, come tutti sanno, racconta spesso i sogni, gli dà grande importanza, anzi li pone come mezzo di comunicazione tra Dio e gli uomini. La sua interpretazione è che l’Angelo Custode ha trasmesso a Teresa un avviso perché stia più attenta in futuro, in quanto non sempre i delinquenti sono coscienziosi come quel ‘buon ladrone’. Precisa poi con aria solenne e autorevole:

     “Il sorriso che diventa uno sguardo cattivo, i capelli che diventano serpenti, significano che tu, Teresa, non devi mai fidarti dei delinquenti. Tu non sai come sono veramente. Prendi quel ladruncolo di ieri. Non deve essere compatito come fai tu, Terè, perché è pur sempre un fuori legge, anzi due volte fuori legge: primo perché ruba, secondo perché è un clandestino. Io non sono certo sulle posizioni drastiche dei leghisti, ma non condivido nemmeno l’ondata di buonismo verso gli immigrati, che, da quando ci si è schierato anche il Papa, sembra aver contagiato quasi tutti. Prevedo che ne deriveranno grossi guai e non solo in Italia, ma in tutta Europa.

     I profughi? Che se li prenda tutti la Germania che dice di aprirgli le frontiere, ma astutamente apre solo ai siriani… e col contapersone, cioè solo per quanto le fa comodo. I tedeschi? Sono sempre uguali. Posso sospettare che siano egoisti e razzisti? Sì, che posso! Infatti se l’Italia è piena di profughi negri, perché la Merkel non apre pure a loro?”

 

     “Papà!” esplode Angelo, “Papà, citare la Bibbia per interpretare i sogni è roba da medioevo! Ti sei accorto che tra la Bibbia e noi c’è stato Sigmund Freud?

     E poi dovresti vergognarti per le tue valutazioni sui profughi. Sei d’una grettezza inconcepibile. Ma non pontifichiamo, lasciamo stare i testi sacri e la politica. Guardiamo al nostro piccolo: mi dici sempre che hai bisogno d’aiuto in negozio e vuoi che te lo dia io. Dovresti invece dar lavoro ad uno di questi disgraziati. Vai alla Caritas, chiedine uno e fai un’opera buona. Se tutti quelli che possono dare un lavoro lo dessero ad un immigrato, ma senza trattarlo da schiavo come fanno certi per le raccolte nei campi… forse la situazione si aggiusterebbe, e considera che…”

     Il padre lo interrompe con uno scatto d’ira:

     “Non ti permettere di interrompermi e di insultarmi…”

     “Ma sei tu che m’interrompi…”

     Le due voci, ormai decisamente irose, si sovrappongono e Teresa è costretta ad intervenire:

     “Oooh, calmi! Non litigate, non ricominciate con i soliti battibecchi. Siete peggio di quelli che in TV litigano, strillano e si parlano l’uno sull’altro e non si capisce niente. Se permettete io non sono come quei conduttori di talk show che tollerano la rissa e pare che ci godano. Quindi vi dico: piantatela e subito!”  

 

     Mi permetto di proporre tra parentesi una sommessa considerazione.

 

(Come succede sempre quando si parte da punti di vista opposti, tutti hanno ragione e torto contemporaneamente, ma non lo vogliono ammettere e quindi non si arriva mai ad una conclusione ragionata e razionale. È  come negli sport violenti dove si gioca per vincere e quindi si combatte, e gli spettatori inveiscono contro giocatori e arbitro, si insultano tra loro e talvolta si aggrediscono.

     Infatti sembra che chi discute di problemi anche gravi, come l’immigrazione infinita, lo fa come in una competizione, cercando di annullare l’avversario, di ridicolizzarlo, di impedirgli di esporre le sue ragioni. E se si tratta di politici (di solito si tratta di politici o di giornalisti politicizzati) questi parlano, anzi sproloquiano, solo per conquistare voti. Del problema concreto non gliene frega niente. Nessuno fa mai proposte sensate…

     Gli immigrati? C’è chi dice di ributtarli tutti in mare, e chi invece vorrebbe accoglierli tutti, ovviamente a casa degli altri.)

 

     Nonostante il drastico richiamo alla moderazione i due sono pronti ad aggredirsi ancora, con parole forti e anche con insulti. Teresa è spaventata dagli sguardi feroci che i due si scambiano. Stanno per inveire contemporaneamente… ma ecco un break provvidenziale: ronza il citofono all’ingresso.

     “Chi è?”

     “Polizia, aprite per favore?”

     Teresa prima di aprire guarda bene lo schermo del videocitofono. Non si sa mai chi può essere e, anche se è uno in divisa, non c’è da fidarsi. Se ne sentono tante… Vedendo la persona, che pure è in borghese, identifica subito Sante Giorgini, il sovrintendente della polizia che è amico di famiglia. Apre e, mentre aspetta che l’uomo salga i due piani di scale, riflette tra sé e sé:

     “Qualcuno ha fatto la denuncia? Possibile? Io, per non fare brutta figura, non ho detto nulla nel supermercato. E comunque perché non sono stata convocata semplicemente in questura? E poi perché è venuto proprio Santino?”

     Il quale Santino, così chiamato familiarmente, entra, saluta, accetta l’invito a sedersi, ma rifiuta cortesemente l’offerta di un caffè quando vede la ‘napoletana’, perché lui è come George Clooney e cederebbe le scarpe per un caffè, ma deve essere un ‘espresso’, ristretto forte aromatico e cremoso. Vede poi l’aria interrogativa sui volti e chiarisce subito il motivo della  visita:

     “Prima di tutto non preoccupatevi. Non porto cattive notizie né guai. Devo solo chiedere a Teresa se sa dirmi chi è quest’uomo.”

     Il sovrintendente Giorgini estrae dalla tasca una busta e ne toglie una foto. Teresa osserva un volto stralunato, la testa bendata e gli occhi che guardano nel vuoto. Nonostante una certa ripugnanza si sforza di guardare meglio, ma non riconosce quella persona, è certa di non averla mai vista:

     “No. Assolutamente non lo conosco. Non l’ho mai visto. Perché? Dovrei?”

     “Non lo so, Teresa. Appunto te lo chiedo. Il fatto è che quest’uomo è stato ricoverato stanotte in ospedale. È stato trovato alla stazione più morto che vivo; ora è sotto choc, sembra non capire nulla, non parla, non ha documenti. In tasca gli abbiamo trovato soltanto un bigliettino su cui c’è il tuo nome e il tuo indirizzo. Eccolo, guarda...”

     Teresa prende il bigliettino, lo apre.  C’è scritto: ‘Siniora Mastrosio Teresa - via Montoro 18 – Viterbo’.

     Mastrosio è il suo cognome da ragazza. Strano! Da quando è sposata non lo usa più se non per gli atti legali e i documenti. E sorprendente è il foglietto: un rettangolo di carta a quadretti scritto con una grafia minuta e gradevole, la stessa della lettera del buon ladrone.

 

(Continua? È ovvio che continua. Alla prossima settimana.)

Agostino G. Pasquali

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