Porta della Verità nel 1910 c. (Archivio Mauro Galeotti)

Mauro Galeotti dal libro "L'illustrissima Città di Viterbo", Viterbo 2002

Porta della Verità è situata a quota 347.50 metri sul livello del mare, sorge ad est della città presso il Poggio del Tignoso, il quale fu cinto di mura nel 1095. 

Anticamente si chiamava Porta dell’Abbate, per la presunta esistenza della Chiesa di san Macario posta di fronte alla porta. All’interno della porta, invece, era la Chiesa di san Mattia dell’Abate, quindi fu anche chiamata di san Matteo, e di conseguenza di san Matteo dell’Abate.

Nel 1243 i Viterbesi, per potersi meglio difendere dall’attacco di Federico II, murarono molte porte della cinta castellana, ma Porta di san Matteo, con qualche altra, fu lasciata aperta e ben difesa. Nel 1247 risulta chiusa per la carestia che aveva colpito la città, e nello Statuto del 1251, sectio prima - officia, rubrica 58, viene proibito che si gettino immondizie o sporcizie o anche animali morti dalla porta «Abbatis usque ad Pontem».

Si menziona nello Statuto, sectio tertia - extraordinaria, rubrica 98, anche il barbacane «extra portam Abbatis»; alla sectio prima - officia, rubrica 54, si ordina tra l’altro di restaurare la via che dalla porta conduce sino al Pilum Calderarii.

Nel 1414 Faziolo, Giovanni, Petruccio e Antoniuccio Gatti, si presero una nuova rivincita contro gli eterni rivali, i Tignosi, costretti a fuggire da Viterbo varcando la Porta di san Matteo; nel 1454 risulta chiusa e vi fu costruita la saracinesca.

Poco dopo, nell’anno 1456, Paolo Orsini con i suoi soldati, venne a Viterbo e di notte attaccò la città presso la Porta di san Matteo cercando di scalare le mura in silenzio, ma una guardia sentì e ben presto furono tutti in allarme. La reazione dei Viterbesi fu così energica che i nemici furono ben presto messi in rotta.

L’Orsini non si dette per vinto: aver perso una battaglia non significava la sconfitta definitiva. Riordinate le truppe e date le disposizioni per l’attacco, fece «alla porta di S. Matteo assai scaramuccie, e ne morsero assai» dalla parte dell’attaccante, il quale insisté coi suoi, ricorda della Tuccia, per «otto dì, e poi si partirno senza aver niente da Viterbo», tanto era ben difesa dai suoi abitanti grazie anche alle solide mura e alla stabile porta.

L’anno successivo quest’ultima risulta chiusa e verso la fine di quell’anno, si ritenne opportuno fortificarla, costruendo la caditora o saracinesca con un parapetto, inoltre, per difesa furono innalzati nuovi merli sia sulla porta che sulle mura limitrofe.

Nelle cronache di della Tuccia, date alle stampe da Ignazio Ciampi (1872), la porta è nominata san Mattia della Botte nell’anno 1458, allorquando il cronista viterbese venne eletto priore di Viterbo, è questo un errore di lettura del Ciampi o chi per lui. Leggo, infatti, più correttamente, da una copia delle cronache di Niccolò della Tuccia, tratte da un manoscritto conservato nella Biblioteca degli Ardenti, «habitai presso la Porta di S. Mattheo dell’Abate, in una casa ove sta uno chiostro con una fontanella; et capo schale sopra detta fonte feci fare de novo me Nichola sopradetto».

L’anno seguente, il rettore del Patrimonio Bartolomeo Rovarelli, arcivescovo di Ravenna, ricevette dal papa un Breve perché «guardasse bene la città di Viterbo, imperocchè lui non la voleva più perdere», causa di ciò la sempre possibile rivendicazione dei Maganzesi, soffocati qualche tempo prima. Il rettore per stare più tranquillo, fece murare tre porte tra cui risulta anche la nostra, in questione.

«A dì 15 settembre [1460], fu aperta [dalla muratura predetta] la porta di S. Matteo dell’Abbate che era stata smurata il sabato innanzi, che fu a’ dì 6, ed aperta la domenica e lunedì, che fu la festa di S. Maria della Verità. Poi fu rinserrata e tenuta in quel modo fino a’ dì 15 sopraddetto. E questo murare e serrare di porta fu per il sospetto, che avevano li Gatteschi delli forastieri di Viterbo». Così riferisce della Tuccia.

Era il 12 Settembre del 1467, di sabato, per i Viterbesi fu una notte tremenda, tanto che fu difficile addormentarsi, infatti, cadde sui tetti delle case sì tanta acqua da essere definita gran diluvio; i danni furono ingenti e assai gravi. Tra le tante cose distrutte risultò anche l’uscio della Porta di san Matteo. Tale calamità costò al Comune circa duecento ducati d’oro, tutti spesi per riattare porte, mura e vie cittadine.

Riferisce della Tuccia che nel 1471 Sisto IV, con Bolla al Comune di Viterbo, proibì tra le altre cose che si facesse entrare in città «vino forastiere, salvo moscadello e vino di mare». I Viterbesi che non rinunciavano tanto facilmente a ’na fojetta de vino ma l’ostaria, pensarono fosse bene di scavare i cellari, le cantine, sotto alle loro case per poter, con sicurezza, fornirsi di vino fresco a volontà specialmente d’Estate.

Accadde però, continua della Tuccia, che fu talmente tanta la terra scavata e accumulata lungo le strade che era divenuta molto ingombrante e allora si decise di gettarla dalle mura, presso la Porta di san Matteo. Avanti alle mura di Viterbo, in quel tratto, esisteva un vallo, o fossato, detto anche carbonara che aveva le funzioni di difesa; la cecità dei Viterbesi fu così grande che empirono tutto quello scavo indebolendo così la difesa della città.

Nel 1519 si fa menzione di una fontana posta nell’arengo fuori Porta della Verità, infatti, in quell’anno, il priore della Chiesa di santa Maria della Verità nel far costruire il muro della sacrestia della chiesa, comandò al muratore di convogliare le acque piovane del tetto della sacrestia medesima, nella fontanella dell’arengo di santa Maria della Verità, verso Porta di san Sisto.

Ora una nota di vita e di necessità.

«Le monache di S. Caterina pensavano condurre l'Acqua dela fontanella che sta sopra Santa Maria della Verità ala porta di san Mattheo […] e di gia come havete possuto vedere vi hanno fatto il fontanile, ma quando hanno voluto condurvi l’acqua […] han trovato tutti i condotti guasti» e si sono dovute arrestare, poiché rifarli sarebbe costato trenta o quaranta scudi. Quindi le monache pregarono «che la detta Acqua si conduca ala detta Porta». A ciò furono nominati «homini a' vedere questo lavoro» e la Comunità contribuì con la somma di dieci scudi, era il 19 Maggio 1569.

Quattro mesi dopo, il 18 Settembre 1569, «Vi si propone che per bellezza dela Città si indirizzi la seconda Porta di san Mattheo, cioè che vada per diritto da la prima porta ala porta dela Chiesa dela Verità dove andarà poca spesa». 

Fu concesso il rifacimento purché la spesa non superasse la somma di dieci scudi.

Il 21 Febbraio 1577 si ordinò di lasciare aperta la porta di S.ti Matthei, per consentire ai fedeli di partecipare alla predica nell’antistante Chiesa di santa Maria della Verità, al patto che nessun forestiero entrasse in città, poi il 13 Novembre 1579 la porta fu chiusa per la peste. Il 4 Novembre 1591 «In esecutione al ordine del Ill/mo Signorato per Commissione di SS.tà ordinarno» che si chiudesse la porta e che il portinaio si trasferisse alla porta salsichia, ossia Porta san Pietro.

Il 30 Luglio 1624, per prevenire la peste, la Sacra Congregazione ordinò che la porta restasse «sempre serrata tanto di giorno, come di notte», e nel Consiglio generale del 1° Luglio 1630 la porta è detta murata, sempre per paura del contagio della peste.

Nell’Aprile Maggio Giugno 1631, ai priori che assumeranno tale incarico, dai priori precedenti «si ricorda che è stata fatta la porta nova di S. Mattheo e stata abbrusciata la vecchia e bene di farla rimettere su».

Per timore della peste il cardinale Antonio Barberini, il 7 Aprile 1632, avvertì le autorità viterbesi di essere previdenti, dopo questo consiglio la Congregazione di Sanità ordinò che «si serrino le porte relativamente aperte di faule, di S. Pietro e di S. Matteo».

I conservatori in data 24 Settembre 1642, per precauzione, ordinarono la chiusura della porta con tanto di terrapieno, ciò a seguito dello scoppio della guerra tra la Città di Castro e lo Stato pontificio, l’ordine fu perentorio:

«Che si serri e terrapieni la Porta di S. Matteo».

Il 31 Maggio 1656 dal Consiglio generale della Comunità fu deciso di chiudere la porta su ordine della Congregazione di Sanità, per il solito timore del contagio della peste.

La porta venne di nuovo chiusa nel 1713, per paura del contagio, e fu anche riparata, tanto che il 18 Febbraio 1713 venne pagato il falegname «per aver aggiustato la porta».

Ma quell’ingresso alla città non agibile creava dei problemi, infatti, il 10 Gennaio 1714 viene letta in Consiglio la seguente lettera:

«mentre sussiste come V.S. riferisce l’incomodo, che provano cotesti PP. Cappuccini per esser serrata la porta di S. Matteo in occasione de’ presenti sospetti, la S. Consulta rimette al di Lei arbitrio il far riaprire la medesima si valerà della notizia, e Dio la prosperi. Roma 6 gennaio 1714 [firmato]. Di V.S. come fratello per il Card. Paulucci, A. Banchieri segretario». 

In esecuzione del volere disposto nella lettera, il governatore ordinò l’apertura della porta, ponendovi però a guardia i soldati, sia di giorno che di notte.

Nel 1715 la porta si presentava in tale degrado che era giunta sul punto di diroccare, ma i provvedimenti per il restauro vennero presi qualche anno dopo. Infatti, nel 1727, fu mastro Francesco Ruella che dovette provvedere allo «scarico del torrione sopra la porta di San Matteo ordinato dalla Sacra Consulta».

L’incarico fu dato dai conservatori senza la dovuta licenza, pertanto quest’ultimi trovarono varie opposizioni quando decisero di far eseguire anche la ricostruzione della porta allo stesso mastro che, tra l’altro, era «dipendente dalli medesimi». Infatti, fu chiesto che fossero affissi gli editti, perché per tutti i lavori eseguiti per la Comunità è giusto «trovare chi voglia farlo con maggiore vantaggio del Pubblico».

A seguito di ciò il 6 Agosto 1728 venne pubblicato un bando «pro-confectione nove porte» della Verità; l’11 dello stesso mese ebbe luogo l’accensione della candela e a seguito di ciò pervennero nove oblazioni.

In effetti Porta di san Matteo dell’Abate stava presentando seri rischi di crollo ed inoltre veniva considerata troppo angusta per l’entrata e l’uscita dei carri e carrozze unitamente al traffico pedonale, si pose quindi mano alla costruzione di un’altra porta che sostituì l’antica e fu chiamata pressoché da quel momento Porta della Verità.

Nello stesso anno fu demolito anche un torrione già costruito nelle vicinanze.

Nel Consiglio del Comune, tenutosi il 1° Ottobre 1728, leggo che:

«Dovendosi rifare il muro e porta nuova di S. Matteo d’ordine della S. Congregazione del Buon Governo dato con lettera degli 31 luglio 1728 et essendosi posta a bando la fattura di esso muro con porre anche in opera i conci necessari per essa Porta, et essendo detti lavori ad uso di muratore restati a estinzione di candela a mastro Francesco Crescentini come migliore oblatore secondo la di lui offerta in filza.

Quindi l’Ill/mi et Ecc/mi […] Conservatori del Popolo […] danno e concedono il detto lavoro a Mastro Francesco Crescentini».

Era stato stabilito che la paga al muratore era di baiocchi trentadue e mezzo la canna.

Nel 1728 è lo scalpellino mastro Camillo Moisi a preparare i conci per la porta, fu coadiuvato dai muratori Francesco Crescentini e Egidio Ruella.

Il 3 Settembre 1729 Santi Sagratino ricevette quarantadue scudi «per porto […] della lastra di marmo coll’iscrizione sopra la nuova porta di San Matteo».

Il 3 Ottobre 1729 al falegname Lorenzo Gerbi e il 3 Marzo 1730 al fabbro Francesco Galli fu effettuato il pagamento di quanto dovuto per aver rifatto le ante in legno della porta.

La porta, ancora oggi, ha la facciata ruotata in avanti, sulla sinistra di chi guarda, rispetto al filo delle mura perché fu eretta allineandola alla strada per facilitare la manovra nell’entrata e nell’uscita dei mezzi di trasporto.

Quella posizione era opportuna anche in considerazione che un muro di cinta di una proprietà privata, si appoggiava sul lato destro di chi usciva dalla porta stessa, visibile ancora in una fotografia del 1880 eseguita da Leonardo Primi, che ho pubblicato sul mio libro Viterbo fu, Viterbo è.

L’esterno della porta oggi presenta, in alto, cinque merli ghibellini, ben controllati da merli guelfi soprastanti le mura vicine. Più in basso, al centro, è il grande stemma degli Orsini in onore del regnante papa Benedetto XIII, Pier Francesco Orsini (1724 - 1730), dell’Ordine Domenicano, il quale, più volte, per recarsi alla Quercia, aveva transitato avanti alla porta.

Ai lati dello stemma sono due semisfere inquartate e recanti la sigla F.A.V.L., sotto al grande stemma è l’epigrafe marmorea:

Portam hanc olim informem et vetustate propê collapsam / reparatam ornatam in amplioremque formam extructam / Benedicti XIII summi pontificis pii felicis munificentissimi principis- iterato ingressu faustê ominatam et eius augusto nomini inscriptam / grati animi ergo, quod ingentibus civitatem cumularit beneficet - coss. romana trabea, canonicos pontificali tyara donarit - Iacobo Oddo praeside vigilantissimo, et ob refectas aequatas, / levibusque lapidibus antiqua magnificentia contratas vias, / de civibus, ac peregrinis optime merito, urbis ornatui, / publicae commoditati erigi iussit S.P.Q.V. anno rep. sal. MDCCXXVIII.

Tradotta: Nel 1728 il Comune di Viterbo per decoro della città e per comodità pubblica, aveva fatto erigere in più ampia ed ornata forma quella porta al posto di quella rozza e quasi per vetustà in ruina, già ivi esistente che era stata onorata dal ripetuto passaggio del detto sommo Pontefice e l’aveva nominata da Lui per gratitudine dei benefici che Egli aveva elargito alla città, concedendo la toga romana, ossia il rubbone d’oro ai conservatori e la mitra pontificale ai canonici e che del pari era grata a Giacomo Oddi, governatore vigilantissimo che avendo risarcito le vie della città, lastricandole con antica magnificenza di pietre levigate, si era reso benemerito dei cittadini e dei forastieri.

Ai lati dell’epigrafe sono due stemmi di più piccole dimensioni uno del governatore Giacomo Oddi, appena nominato, l’altro di Adriano Sermattei, vescovo di Viterbo (1719 - 1731), sotto l’epigrafe alla sommità dell’arco della porta è lo stemma del Comune con le sigle S.P.Q.V.. 

Aperto e fissato all’interno è il portone in legno simile a quello di Porta Romana chiuso da una sola spranga; la lunetta in legno, è ancora conservata sopra alla porta.

Un documento, che ho, datato «A di 20 Febbraro 1800», specifica:

«Nota di spese fatte da me Giovanni Battista Gagni per la porta di S. Matteo per ordine del Governo provisorio. Per (i) segatori per segare il fusto e fodere di olmo, e di castagno scudi 8. Per 12 piane da diece pagati alli Gelmoni per terminare il fusto del sesto scudi 2.20. Per scalettoni da dodici per la guarnizione, e cornice scudi 3».

Nel 1802 le ante lignee necessitavano ancora di restauro e furono ricostruite con un intervento del falegname Giovanni Battista Gagni che rifece le chiodature con decorazione a punta di diamante e con chiodi tondi disposti a quinconce.

Gli vennero pagati, infatti, 42,85 scudi per aver montato sei tavoloni nel fusto della porta, per aver realizzato l’architrave composto di tre travi e dotato la porta di tutti i ferramenti.

Il 21 Maggio 1831 per mettere la città «al coperto da ogni sorpresa», la porta fu fortificata con una «barricata di legni in piedi e traversi in armatura di pieno riempimento tra questa armatura, ed il fusto della porta con fascine, e terra trasportata con carretto». 

I lavori furono eseguiti dai mastri Valentino Dobici e Giacomo Zei.

Poco dopo, in una relazione del 1836 dell’architetto Francesco Lucchi, risultò che «Il sopravanzo» della «Fontanella presso la Porta di S. Matteo» spettava al Monastero di santa Caterina che lo utilizzava per le necessità della comunità.

Francesco Cristofori, in una nota, riportata circa il 1890, nella rubrica delle Riforme del 1819 - 1820, scrive:

«Fonte di san Matteo de l’“Abbate”. La fonte in marmo con una testa di leone e con l’epigrafe MDXXXIX esiste tutt’hora. La fonte però è essiccata. L’acqua derivava da quella del piazzale de la chiesa de la Verità».

Il 14 Febbraio 1845 furono eseguiti da Vincenzo Civilotti «lavori e riparazioni urgenti occorse alla casa del Portinaro».

Sul lato destro, per chi sta all’interno della porta, è murata una lapide, che riferisco a pagina 763, a ricordo dell’eroico avvenimento del 24 Ottobre 1867 che vide come protagonisti i Garibaldini e ricorda che caddero uccisi Luigi De Franchis, maggiore garibaldino; Gioacchino Alluminati, trombettiere e padre Manetto Niccolini dell’Ordine dei Serviti.

Dal manoscritto delle Memorie del falegname Carlo Antonio Morini leggo:

«La Notte del 24 Ottobbre 1867 provorno Li Caribaldini per Entrare nella porta della verità La trovarno chiusa e Li dettero Fuoco a tutta la porta doppo Entrorno Li Caribaldini La truppa ponteficj incominciò A Sparare contro quelle che dettero foco alla porta e quella Sera Volevono entrare a Viterbo quella jstessa Sera qualchuno Lì morì da una parte e laltra. La mattina La Commune di Viterbo fece morare La porta della città detta della verità e altre due porte di S. pietro fatte Li baracate e unita quella del Carmine e morì un maggiore della parte a verza e una palla di focile passo alla coscia del frate del Sagrestano della verità».

Il 24 Ottobre 1867 i Cacciatori del Tevere, comandati dal generale garibaldino Giovanni Acerbi (1825 - 1869), non riuscendo ad aprire Porta Fiorentina, difesa dai pontifici, si diressero a Porta della Verità. Il tratto di mura era difeso con meno soldati ed i Cacciatori accumularono vari pezzi di legna e li collocarono addosso alla porta, incendiandola. Cadute in terra le ante di legno, all’interno sembrava non ci fosse difesa.

Allora il maggiore Luigi De Franchis dette ordine di entrare in città varcando egli stesso per primo la soglia, seguito dal trombettiere Gioacchino Alluminati e dal frate servita Manetto Niccolini. Un gruppo di pontifici però li colpì a morte uccidendo all’istante il De Franchis e il trombettiere, mentre il frate spirò in seguito all’ospedale. I volontari si ritirarono sul vicino colle dei frati Cappuccini di san Paolo e si avviarono verso Acquapendente.

La costruzione della Galleria Gentili, lunga 367 metri per il passaggio della ferrovia che unisce le due stazioni di Porta Romana e di Porta Fiorentina, fu realizzata nel 1893 dalla Ditta Costantino e Pietro Latilla. L’opera ha occultato in parte l’ingresso di Porta della Verità che si trova ormai ad un livello più basso dell’attuale Viale Raniero Capocci, compromettendo l’estetica della porta stessa.

Verso la fine del secondo decennio del 1900, per facilitare l’accesso a piedi delle persone, furono costruite due scalinate a ridosso del dislivello stradale, proprio dinanzi alla porta.

Poi sono stati realizzati dalla Ditta Angelo Quatrini di Ronciglione, l’attuale sottopassaggio, su progetto dell’ingegnere Piero Sabelli Fioretti e Angelo Paccosi (1958), e l’accesso ad uso pedonale, a fianco della Porta della Verità (1958), che procurò una preoccupante fenditura sul muro, a sinistra di chi guarda la porta.

 

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