Il Cinema Corso nella Chiesa di san Matteo in Sonza

Vincenzo Ceniti

Quando arrivavano i “nostri” la platea applaudiva ed esultava.

Accadeva al cinema Corso di Viterbo nei film in bianco e nero della serie di Tom Mix  le cui gesta vennero in seguito riprese ed esaltate da centinaia di attori di ogni calibro (John Wayne su tutti) alle prese con cavalli, colt, indiani, assalti alla diligenza, wanted, saloon, whisky, poker, mandrie, ballerine, … sullo sfondo di canyon, montagne rocciose, fiumi, praterie, ranch, deserti ed altro. Buoni contro cattivi, il 7° Cavalleria contro gli indiani, banditi contro sceriffi  e trionfo finale del bene suggellato dai titoli di coda con “The end” su stacco musicale conclusivo.

Nel trentennio 1940/1960, cui faccio riferimento in questi sbiaditi ricordi, la città disponeva di altri cinema che proiettavano pellicole similari, ma il tempio dei cow boy era il Corso anche perché più economico. Circa 150/200 lire a seconda dei film.  Si contendeva il titolo di “Pidocchietto” col suo rivale cinema Nazionale in via della Rimessa.                

Fino al 1870 era una chiesa consacrata, detta di San Matteo in Sonza, tra le più antiche accanto alla porta omonima dal nome di uno dei tanti modi di chiamare l’Urcionio che scorreva a cielo aperto da quelle parti.

Alla fine dell’Ottocento venne trasformata in un palazzo con cinematografo, inizialmente Sala Galiana, come titola ancora l’architrave della porta di ingresso, poi cinema Corso. Nel 1914 era già attivo con la gestione di tale Ezio Cristofari. Probabilmente era aperto già da qualche anno. Successivamente venne condotto dalla società di Claudio Taurchini – ben noto imprenditore nel settore - cui facevano capo anche il Genio e il Teatro Unione e poi Lux.

Al piano della strada (corso Italia) si apriva un piccolo vano inizialmente destinato a biglietteria dove oggi c’è un negozio di accessori per cellulari. In seguito cassa venne sistemata in cima alla rampa  da cui si accedeva alla platea con circa 250 sedie di legno ed alla galleria. Nella cabina di proiezione operava negli anni dell’immediato dopoguerra Mariano Angeli alle prese con una macchina di marca tedesca che aveva il difetto di scaldarsi precocemente e quindi di bruciare la pellicola. Prudentemente,  a mo’ di estintore,  teneva sulla macchina un fiasco spagliato riempito d’acqua. 

Gli succedette alle “manovre” Giggi Greco (vaga somiglianza con Fernandel),  alto, piegato, taciturno.  Lo ricordo così e lo invidiavo perché poteva vedere i film gratis. Nelle ore libere passeggiava con passo svelto e furtivo per le vie di Viterbo, cane al guinzaglio. Attaccava anche i manifesti. Sul fianco destro della sala, lungo via Mazzini, si aprivano un paio di finestroni  manovrati alla base da lunghe maniglie di ferro utili alle aperture durante gli intervalli (clima permettendo) per il ricambio d’aria. Se ne occupava una signorina (la cosiddetta “maschera”) che aveva anche il compito, munita di torcia elettrica, di condurre nel buio gli spettatori ad un posto libero. 

La luce esterna che penetrava in sala tagliava come una lama la densa coltre di fumo che stagnava all’interno. Al cinema si fumava e si buttavano le cicche in terra. Il ruolo di “maschera” toccava però anche agli uomini tra cui un tale Angelo Serra ex guardia carceraria che badava alla platea col sigaro in bocca.   

Alla fine degli anni Cinquanta nel cinema lavoravano le sorelle Celestini che si alternavano alla cassa, allo sbigliettamento ed alle pulizie. Indossavano un camice celeste ed avevano le unghie laccate e le labbra rosse. Direi compiacenti. Una plancia di legno affissa al muro esterno presso l’ingresso riportava il manifesto del film del giorno con la scritta “Oggi”.  Il privilegio più grande era quello di avere un biglietto invito che ti permetteva di entrare gratis. L’amico Silvio Cappelli mi ha dato la foto di un raro esemplare di buono-omaggio.

L’età che avevamo in quegli anni ci portava a frequentare il cinema per i film di avventura: prima quelli di cow boys, poi quelli di Tarzan con il mitico Johnny Weissmuller (Il figlio di Tarzan, Tarzan e le amazzoni, Tarzan a New York), di pirati, di Zorro, di spadaccini e in genere di guerra. Ma anche quelli comici soprattutto Stanlio e Ollio, Totò, Charlot, Gianni e Pinotto. Le pellicole strappalacrime le lasciavamo a mamma e papà.  

La platea non si entusiasmava solo all’arrivo dei  “nostri”, ma anche per alcuni  big della musica di allora: Glenn Miller, Luis Armstrong, Ducke Ellington, Ben Pollack, Harry James. Per noi ragazzi anni Cinquanta era il tempo dello swing e del jazz ed in genere delle “novità” americane.

Tanto è vero che negli scantinati delle case si organizzavano piccoli gruppi di strumenti per imitare i grandi di allora con sax, tromba, contrabbasso, batteria, fisarmonica, chitarra. Un pomeriggio di quegli anni (la memoria e il cuore mi dicono 1957) con un gruppo di amici andai a vedere al Corso il film tanto atteso sulla vita di Benny Goodman . Al termine di un assolo del batterista Gene Kupra al ritmo frenetico di Sing, Sing, Sing applaudimmo spontaneamente a scena aperta come se gli esecutori fossero lì.

Dalla metà degli anni Settanta del secolo scorso il Corso iniziò il suo declino, complici soprattutto la televisione ed altri modi alternativi di intrattenimento. Un ultimo rigurgito lo ebbe con i film a luci rosse per militari, maggiorenni e guardoni di ogni età. Titoli piuttosto coloriti e eloquenti del tipo “Apriti con amore” o “Fuoco nel ventre”. Poi la chiusura definitiva nei primi anni Ottanta. 

Oggi il cinema è in desolante abbandono e riesce difficile per gli attuali proprietari trovare una destinazione economica. Ci fu un intrigante revival alcuni anni fa, nel 2015, per iniziativa di “Quartieri dell’Arte” guidati da Gian Maria Cervo che utilizzò la sala per una performance teatrale con una “stazione” della storica processione  del Corpus Domini di papa Pio II (1452) e la prima assoluta in lingua italiana di “Call Me God” di quattro autori fra cui lo stesso Gian Maria Cervo.  Ma fu solo un episodio. 

 

 

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