Silvana Mangano nel film “Riso amaro”

Vincenzo Ceniti console TCI

E’ sempre un piacere sfogliare i numeri della rivista Tuscia dell’Ept di Viterbo che per circa trent’anni (dal 1970 al 1990) ci ha raccontato storie, leggende, ricette,  personaggi, usi, feste e costumi della nostra terra a volte sorprendenti. L’ho sfogliata di recente e mi sono soffermato su un articolo di Tina Biaggi, firma storica e ironica del giornalismo locale, che ci riporta agli anni del primo Ottocento,  quando a Viterbo qualcuno si mise in testa di fare i soldi col riso. 

Tentativo ardito e fallito di far quadrare i conti delle famiglie di allora, in buona parte credulone e contadine.

Il paragone che qualche mitomane del tempo faceva con Ferrara –  la città del riso – fece inizialmente proseliti tra la povera gente che non aveva tante  alternative per il pranzo e  la cena. Solo che lassù, nella “Bassa”,  c’erano il Po, i terreni sotto il livello del mare, un efficiente sistema di canali e ragazze più sode e robuste di quelle nostrane. Ce lo raccontò  Giuseppe De Santis in “Riso amaro” (1949) con una prosperosa Silvana Mangano, le cui cosce impreziosite da due calze nere e sdrucite fecero la fortuna del film e il giro del mondo. “Noi – dicevano i più convinti – abbiamo le sorgenti del Bulicame che potrebbero rendere possibile e produttiva la coltivazione del riso”. 

Cosicché, scrive la Biaggi, le prime risaie sorsero proprio nei pressi delle polle sulfuree. Non solo. Ci furono anche alcuni tentativi similari nei dintorni, come a Ronciglione e Tuscania (l’allora Toscanella). Nessun paragone comunque con l’estensione delle risaie ferraresi e con le mondine di quelle parti. Dovevamo accontentarci di ragazze meno dotate e meno seducenti. 

Dalle terre del Bulicame si passò a quelle comprese tra Ponte Sodo e il Signorino conosciute come le campagne del Risiere. Nome premonitore? No, poiché l’origine non c’entrava col riso, come molti credevano, ma col torrente Riosiri che scorre da quelle parti, dedicato al dio degli Inferi, Osiride, considerato dalla leggenda uno dei fondatori della città di Viterbo. 

Fatto sta che alcuni “arruffapopolo” (c’erano anche allora) redassero un progetto di sviluppo all’insegna dello slogan “Viva il riso del Risiere” che fece subito presa. Ci sperava anche il gestore dell’allora ristorante-locanda dell’Angelo in piazza delle Erbe, Giuseppe Moscucci, che già pensava alla ricetta del  “Risotto alla viterbese”. 

Ma subito le prime delusioni. I costi di produzione erano troppo alti e portavano il prezzo al consumo a 5 baiocchi la libbra, contro i 4 del riso di Ferrara. Dunque niente vendita sui mercati nazionali.  Eppoi le invidie che non mancano mai.

I detrattori (ci sono sempre) o quelli esclusi dal potenziale affare cominciarono a mettere in giro notizie allarmanti su presunte malattie che si sarebbero diffuse nelle zone paludose delle risaie. Il progetto si bloccò con grande delusione dei proprietari dei terreni che già si aspettavano lucrosi guadagni. Addirittura si diceva che Viterbo era diventata una città insalubre e invivibile. Anche le risaie di Ronciglione e Tuscania subirono pesanti contraccolpi.  

Gli  amministratori comunali, che avevano creduto nell’affare, si trovarono  costretti a richiedere il parere di esperti. Come si legge in un documento, vennero interpellati il prof. Giuseppe Matthey (medico primario dell’Ospedale di Viterbo) ed il nostro Francesco Orioli (docente tra l’altro al  Liceo di Viterbo) sulla questione: “Se le risaie in generale, e quelle in particolare introdotte, o da introdursi nelle campagne viterbesi, siano indifferenti, o pregiudizievoli all’umana salute”. 

Verdetto senza scampo “Le risaie sono nocive per la salute pubblica e devono essere tenute lontane”.

La conclusione è amara e ci riporta ai giorni d’oggi in cui gente senza scrupoli avvia trasformazioni ambientali per il proprio interesse infischiandosi della salute pubblica. Proprio come accadde al Risiere. 

 

1930 il corso d'acqua Risiere che confluisce a sud nel Fosso Urcionio

 

 

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