Viterbo

Attilio Carosi
Scipione Moscatelli fabbricante di carte da gioco e fiammiferi.

Due cose sono infallibili nel mondo, papa Pio IX ed i fiammiferi di Moscatelli, diceva il popolino romano nella seconda metà dell'Ottocento. Chi era Scipione Moscatelli?

Nel 1855 il nuovo Teatro dell'Unione apriva le sue porte da piazza di S. Marco, delimitata dall'omonima chiesetta, dal Palazzo Santoro e, di fronte, da Casa Moscatelli.

Una via, radendo le scale di S. Marco e le botteghe adiacenti fino alla salita di S. Rosa, univa la piazza al largo di S. Rosa dipinta, dove la macchina, sfruttando il poco spazio disponibile, si riposava per l'ultimo balzo verso la chiesa. Dipinta perché l'immagine della santa era dipinta proprio sulla facciata della Casa Moscatelli, sita tra l'attuale negozio Cappelli e la stazione di servizio per auto. Quando circa il 1930 il palazzo fu demolito per dare spazio e vita a piazza Verdi, l'affresco fu trasferito  nell'angolo dove oggi lo vediamo.

La casa era quindi in una posizione commerciale privilegiata: verso il Corso - la nostra Svolta - i locali del fornito emporio, dietro, i magazzini e la tintoria, una delle maggiori della città. Proprietario ne era Domenico di Ludovico MoscateIli, la cui famiglia era emigrata in Viterbo dall'Umbria ai primi del Settecento. Nel 1802 aveva sposato Clementina Guerrini e ne aveva avuto Vincenzo, Giuseppe, Francesco, Scipione e Rosa.

 
 

Debbo molte notizie alla gentilezza, alla cortesia ed ai precisi ricordi della sig. Anna Lomonaco, nipote di Scipione Moscatelli e sorella dei compianti Michele e Cesare, esponenti politici del secondo dopoguerra viterbese. A lei il mio vivo grazie e la mia riconoscenza. Ringrazio ancora per la collaborazione la signora Maddalena Carnevalini Egidi ed i signori Noris Angeli e Mauro Galeotti. Un particolare ricordo per Archimede Quatrini, l'umano e cordiale tipografo scomparso alcuni anni or sono che, ragazzo, provvedeva col tipico carrettino a mano viterbese al trasporto delle carte.

Scipione, nato il. 2 settembre 1813, aveva frequentato da ragazzo le scuole dei padri della Dottrina Cristiana di S. Martino al Cimino ed il ginnasio presso il Seminario Vescovile di Viterbo. Vivacissimo, aitante coraggioso cavaliere, aveva preso parte più volte alla Giostra della bufala in piazza del Comune, aveva vinto il palio ed altri premi, amava per scommessa salire a cavallo le scale della Basilica della Quercia, Lavorava nell'azienda paterna con il fratello Giuseppe e soltanto nel 1866, in età matura, aveva sposato Anna di Nicola Grispigni (1). Morirà quasi centenario nel 1907.

 
 
 

Non conosciamo documenti da cui trarre l'anno di nascita delle carte da gioco viterbesi. Il padre Domenico il 21 agosto 1847 aveva preso in enfiteusi perpetua dal Seminario di Viterbo, per 55 scudi annui, i locali dell'ex convento dei frati minimi di S. Francesco di Paola, o Paolotti, alle Fortezze fuori Porta Romana (2).

In un elenco di tasse comunali del 1850 Domenico Moscatelli, negoziante di chincaglierie, pellami e fabbricante di zolfanelli fosforici, è tra i commercianti più abbienti della città tanto da pagare una tassa di 42 scudi, Un ruolo posteriore di pochi mesi ripete la medesima tassazione per le stesse merci per i figli Giuseppe e Scipione. Domenico, infatti, era morto il 24 giugno 1850. Circa il 1855 Scipione, da solo, rinnova l'enfiteusi dei locali alle Fortezze e si divide dal fratello per dissensi sulla conduzione degli affari. Sono questi gli anni in cui egli deve avere aperto la fabbrica delle carte; più tardi aveva abbandonato la manifattura dei fiammiferi, o zolfanelli fosforici, per gravi fenomeni di fosforismo tra gli operai.

Chi dette l'ispirazione per impiantare in Viterbo questa nuova industria? Probabilmente commercianti o piccoli imprenditori della Toscana o del nord dello Stato Pontificio, conosciuti dai Moscatelli nei loro viaggi di affari per rifornire l'emporio di stoffe pregiate, sete, damaschi. I primi tempi Scipione dovette servirsi di un esperto che insegnasse a lui e agli operai la tecnica della fabbricazione e l'uso delle macchine, anche se rudimentali.

Non abbiamo esemplari di carte che ci testimonino la creazione fin dagli inizi di nuovi semi e figure - quelli caratteristici delle carte viterbesi - o la riproduzione di carte di altre regioni. Inoltre erano forse ancora in vigore le norme dell'editto del tesoriere pontificio Ercolani del 27 luglio 1814 che con-cedevano particolari agevolazioni per la stampa e protezionismo per la vendita dei mazzi prodotti negli Stati della Chiesa. Risalgono al 1861-62 frammenti di fogli-paga fortunosamente salvatisi dalla distruzione (3): il mazzo più antico conosciuto deve essere uscito dai torchi di Scipione Moscatelli tra il 1867 e il 1870. Sull'asso di denari (fig. 1) è incisa una cornucopia, simbolo della ricchezza, e la scritta bollo centesimi 30.

La legge fondamentale dello Stato italiano sulle carte da gioco è del 21 settembre 1862 e prescrive che sull'asso di denari siano incise la figura di Mercurio seduto di profilo e la scritta bollo c.mi 30, aumentato a cm. 50 dalla legge 8 giugno 1874, con la modifica del disegno di Mercurio, di cui si raffigurerà soltanto la testa col berretto alato, circondata dalla leggenda "Regno d'Italia"  in bollo ottangolare.

Poiché la monetazione in lire e centesimi era stata introdotta nello Stato Pontificio dal cardinale Giacomo Antonelli il 18 giugno 1866 e l'editto che fissava in 30 c.mi il bollo delle carte vedeva la luce il 23 novembre successivo, la datazione del nostro mazzo è da porsi appunto alla fine del governo pontificio in Viterbo. Le carte sono acquarellate a mano, misurano mm 45 x 90, il dorso, o rovescio, è decorato a stelle e cuori alternati (fig. 11).

In basso, orizzontale, la leggenda Viterbo. Lo sconosciuto artista-incisore deve avere avuto sottocchio mazzi piacentini, romagnoli e fors'anche qualche carta ispano-portoghese del secolo precedente. Le figure sono sempre in piedi, i semi (coppe, denari, bastoni, spade) non intrecciati ad eccezione del tre di bastoni, il quattro di denari i primi anni ha al centro la scritta Fabbrica di Scipione Moscatelli (fig. 6), poi un grappolo di moscato o moscatello, simbolizzante il cognome (fig. 7).

Il quattro di coppe porta sempre, più o meno stilizzato, un leone, lo stemma, cioè, della città di Viterbo (figg. 3,4,5); i cavalieri, ,nel mazzo più antico, non hanno staffe, i cavalli sono sempre scalpitanti (figg. 8,9,10,14,19,20,21). Le figure cambiano spesso i connotati e la foggia dell'abito; del re di spade, si conoscono almeno quattro immagini diverse.

I rovesci, anche per evitare contraffazioni, mutano spesso disegno: una ballerina che piroetta sul mondo, un giullare che esce da un tondo con nella mano destra un cartiglio su cui si legge carte da giuoco e, sotto, Ditta S. Moscatelli, un giullare a tutto rovescio, gigli di Francia, un gallo che canta all'alba (fig. 12), ecc. Anche le misure variano: mm. 50 x 90 alla fine del secolo (figg. 17,20,23), mm. 49 x 92 le ultime del 1953 (figg.2,5, 7,10,16,19,22).

 

(1) Dal matrimonio nacquero Cecilia (1867), moglie dell'avv. Vincenzo dei baroni Lomonaco, e NicoIa (1869). Troviamo Giuseppe, maggiore di otto anni di Scipione, consigliere comunale nel 1849 sotto la Repubblica Romana e, più volte, dopo il 1857.

(2) Atti Vescovili, notaio Filippo Piermartini. Secondo la stima dell'architetto Paolo Oddi il casamento era composto di un pianoterreno e di due piani addossati alle mura castellane, del valore di scudi 1075; i due pezzi di terreno annessi, uno tra Porta Romana e la chiesa, l'altro tra questa ed il palazzo di donna Olimpia a S. Pietro, ortivi e vignati e con pochi alberi da frutto, valevano quasi 300 scudi per l'agronomo Ignazio Parri. Il convento era stato chiuso circa il 1810 dal governo napoleonico e successivamente ceduto al Seminario di Viterbo. Moscatelli si obbligava a non fare lavoreccio di strepito nelle stanze adiacenti alla chiesa, regolarmente officiata. Il convento e parte della chiesa sono stati distrutti dai bombardamenti del maggio 1944.

(3) Con spirito viterbese ricordiamo i nomi degli operai presenti nella Fabbrica in quegli anni: Ludovico Cavalletti, Giuseppe Baldassarre, Gerardo e Giacomo Orioli, Giovanni e Antonio Marzi, Francesco Canevari, Eusebio Giorgi, Francesco Piacentini, Nazzareno Cipriani, Domenico Giustini,  Domenico Cisterna, Giuseppe Casaldi, Scipione Bonucci, Vittoria Rosati. Maria Bastianini, Assunta Giannini, Filomena Luciani, Giacinta Latilla, Sabba Filippetta, Maria Giusti, Angela Bracci, Vittoria Mazzoni, Maria Capoccioni, Angela Andreoli, Diana e Giacinta Stella, Teresa Mancini. Giuliana Pettinelli, Nazzareno Cipriani, Antonia e Cecilia Annibali, Cecilia Dobici, Maria Pistolesi.

 
 
 

Il complesso del Convento dei Frati di S. Francesco di Paola nel 1938
(fototeca Mauro Galeotti)

Scipione Moscatelli curò personalmente la sua fabbrica fino quasi alla fine dell' '800, tenendosi al corrente del progredire della tecnica con viaggi a Firenze ed in Alta Italia e mantenendo in Roma un suo agente, di religione ebraica, per Io smercio al minuto. La stagione migliore per lavorare era l'estate, quella della vendita l'inverno.

L'ottima manifattura, la buona organizzazione commerciale, l'oculata amministrazione, davano all'industre viterbese un reddito annuo tra le quindici e le ventimila lire. Ritiratosi Scipione, il figlio Nicola chiuse la fabbrica e concesse la privativa delle carte a Guglielmo Murari di Bari, con I'obbligo di mantenere il nome sociale e le caratteristiche viterbesi (4). Purtroppo la società non ebbe prospera vita, si andò anche ad un giudizio tra le parti e quando nel 1914 (5) i figli di Scipione, Cecilia e Nicola, cedono attrezzatura e nome ai tipografi Enrico e Giulio Agnesotti per 11.000 lire, i venditori si accollano le spese per il concordato a chiusura della causa con i Murari.

Con i fratelli Agnesotti si associavano nell'acquisto, fino circa il 1920, la signora Cristina Danna con il marito Riccardo Marini. Gli acquirenti ricevevano una calandra, una cesoia circolare, un taglia angoli, una tagliatrice, una macchina tipografica, clichés vecchi e nuovi, cioè figure e semi di vecchio e nuovo modello, ed altri accessori. Si obbligavano inoltre a mantenere l'antico nome Ditta Scipione Moscatelli.

Per rimanere al passo con le nuove tecniche specialmente per la cilindratura -gli Agnesotti comprarono macchine anche in America. E fabbricarono carte fino al 1953, prima in via Principessa Margherita, oggi Matteotti, nei pianoterra del palazzo Bussi-Belli (6), poi dove ancora oggi ha la sua sede la tipografia in piazza Mario Fani, nei locali dei già Collegio dei Gesuiti Seminario Vescovile. L'ex convento alle Fortezze, insieme con altri beni, fu con gesto munifico donato da Nicola Moscatelli, morto celibe nel 1932, all'ospizio di S. Carlo, oggi Gerontocomio Giovanni XXIII. 

(4) Nel rovescio, sempre incollato a mano sul dritto, le carte della Ditta Murari hanno la scritta Guglielmo Murari Puglie.

(5) Atto notaio Filippo Cassani, 31 ottobre 1914.

(6) Il  palazzo fu demolito circa il 1935 per la costruzione della nuova Via Marconi. Era all'inizio di Via Matteotti a sinistra andando verso la Rocca. La tipografia apriva le finestre sulla valletta del torrente Urcionio

 

 

Tecnica di fabbricazione delle carte Moscatelli

Le carte stampate fino a tutto il secolo XIX erano composte di tre strati; il dritto, l'anima ed il rovescio. Sul primo erano incisi i semi e le figure, il secondo serviva a non dare trasparenza alla carta, sul terzo si stampava il nome della ditta e fregi e figure varie ed era di maggior formato degli altri due perché i margini si rovesciavano per incollarli sul dritto.

Questi i tempi di lavorazione:

a) - stampa in nero, con procedimento xilografico, delle figure e dei semi e della decorazione dei rovesci, a fogli interi;
b) - taglio dei fogli ed incollamento dei tre strati;
c) - pittura dei semi e delle figure;
d) - levigatura e pulizia con talco delle carte;
e) - scelta delle carte, composizione dei mazzi, imbustamento.


Dai frammenti dei fogli-paga sopra ricordati, si ricava che presso Moscatelli lavoravano stampatori, cilindratori, pittori, tagliatori, stenditori e lisciatori. Una donna matura, detta la maestra delle carte, guidava il lavoro di bambine decenni che incollavano le carte e  le lisciavano con blocchetti di marmo, mettendole poi ad asciugare.

Sotto la soprintendenza di un'altra operaia, altre ragazze munite di un traforo e ciascuna per uno stesso colore (per lo più il rosso, il giallo, il bleu, il nero) dipingevano i tratti stampati in nero. Dopo la pressatura, le carte erano passate al talco per renderle scorrevoli. I mazzi, scelti con cura, erano messi nelle buste di cartoncino ed inviati all'agente di Roma per mezzo della diligenza in cassette appositamente costruite.

*

Le ultime carte viterbesi -lo abbiamo già detto -furono messe in commercio nel 1953. Perché non farne una seconda edizione, anche solo per cartofili e per l'antiquariato? Franco e Bruno Pierro guidano oggi con successo, iniziativa ed abnegazione, le attività della casa editrice e tipografia Agnesotti, tanto in Viterbo quanto in Roma, e potrebbero aggiungere alle loro benemerenze  viterbesi anche quella di ristampare caratteristiche figure degli antichi mazzi. Sappiamo che imprenditori romani sarebbero disposti a dare una mano per lo smercio nazionale ed internazionale.

E poiché nel 1881 cade il primo centenario di attività della tipografia Agnesotti, fondata da Giuseppe, padre di Enrico e Giulio, sarebbe questa un'ottima occasione per festeggiarla nel modo più degno.

 
 

La Chieda di Santa Maria delle Fortezze dopo le incursioni aeree del maggio 1944, il Convento è sparito
(Fototeca Biblioteca Anselmi)

 

 

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