Amilcare Quatrini con la moglie Augusta Marianna Mecarini e (da sinistra) i figli Aldo, Archimede, Azelio e Alba Redenta

Vincenzo Ceniti

Una folla di Quatrini, dal capostipite Giuliano (metà Settecento),  agli ultimi di oggi, a testimonianza di quella quercia fertile e solida, sinonimo di albero della vita, che fa da logo nella copertina cartonata del libro curato da Armando, figlio di Azelio (“Amilcare Quatrini & Figli”, marzo 2021, pp. 284) su una dinastia che ha contribuito a scrivere la storia di Viterbo.

Un racconto  “di carta” -  nutrito di date, nomi, fatti, aneddoti, foto ed altro -  per esaltare  la nobile arte della stampa di cui la nostra città è andata fiera attraverso i secoli.  

E i Quatrini ne furono tra i pionieri a cavallo Otto-Novecento, dal tempo di Amilcare (1872-1929) nipote di Giuliano, che da ragazzo a dieci anni venne assunto dalla tipografia di Giuseppe Agnesotti di via Principessa Margherita (l’attuale via Matteotti) dove imparò mestiere, trucchi e sapienza. Da lui, con la moglie Augusta Marianna Mecarini, (detta Nanna), prese via una vivace figliolanza, nucleo fondante della futura tipografia Quatrini con Aldo, Archimede e Azelio.  Anche loro subito a lavorare in tipografia. I primi due da Agnesotti e il più piccolo Azelio in quella parrocchiale di don Alceste a San Leonardo.  Dopo la parentesi del servizio militare, Aldo e Azelio (andarono anche ad Asmara nel 1937) si misero subito insieme e nel 1940 avviarono una cartoleria in Corso Italia (allora Vittorio Emanuele). 

Poi la guerra e i bombardamenti. Il locale venne raso al suolo, ma risorse con tutta la città, tanto che nel 1947 la cartoleria venne riaperta con arredi moderni e funzionali, alla pari delle altre tre attive in città: Buffetti (davanti  al Caffè Schenardi), Montanari (in via dell’Orologio Vecchio) e Bevilacqua (in via Saffi). Ma l’obiettivo restava la creazione di una tipografia di famiglia. 

L’occasione venne offerta loro proprio in quegli anni Quaranta da don Alceste che stava dismettendo i macchinari della tipografia parrocchiale di San Leonardo, acquistati dai Quatrini e sistemati nei locali di via Card. La Fontaine aperti nel 1947. L’anno dopo verrà ricordato per la stampa del libro “Rosa” (dedicato  alla patrona viterbese) che darà un segnale editoriale chiaro sul taglio delle future collane editoriali.  Seguirono  vari trasferimenti di locali, in funzione di nuovi riassetti aziendali che videro protagonisti soprattutto i figli di Archimede, Mario, Gabriele e Igino. Prima in Corso Italia (angolo via della Sapienza) e successivamente in viale Trieste, in via Santa Lucia e attualmente in via dell’Artigianato. 

Per ragioni di lavoro presso l’Ente Provinciale per il Turismo, iniziai a frequentare la tipografia nel 1973 (anno del primo numero della rivista Tuscia), quando operava in viale Trieste. Inizialmente con impianti di vecchia generazione (tipo linotype), poi con le nuove tecnologie legate all’offset. Dopo la morte di Archimede nel 1976 la ripartizione del lavoro tra i figli avvenne quasi automaticamente. Mario alla stampa e al modulo continuo, Igino alla composizione-impaginazione (curava anche un piccolo orto dietro il capannone) e Gabriele all’amministrazione. 

Ricordo Archimede come un padre saggio e tranquillo, un uomo d’altri tempi, lavoratore, burbero, buono, con la fortuna inestimabile di lavorare in famiglia coi figli, alle prese con un mestiere che aveva sempre amato. Non si scomponeva mai, neanche quando mangiai distrattamente l’unica pesca di un alberello che curava con amore e teneva come una reliquia presso l’ingresso della tipografia. “A ba’ – disse Mario – s’è mangiato la pesca” . Archimede non disse nulla, ero un cliente e non poteva fare altrimenti. Però mi puntò addosso due occhioni acquosi e severi. E’ l’immagine più cara che mi resta di lui.   

 

 

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