Un vecchio traliccio eolico della Maremma viterbese e un forno all’aperto per il pane

Vincenzo Ceniti

Alti, solitari, silenziosi. Sono i tralicci di ferro  (alti perfino una ventina di metri) alla cui sommità girava un’elica gigantesca (fino a 7 metri di diametro) orientabile secondo i venti e collegata ad una pompa che faceva salire l’acqua dai pozzi scavati dai contadini nella piana maremmana tosco-laziale.

Alla fine dell’Ottocento erano utili e innovativi per la bonifica di quelle terre paludose e malariche e per la loro coltivazione. Sostenibili, si direbbe oggi, tanto che sono considerati gli antenati delle attuali pale eoliche per la produzione di energia elettrica  Ne sono rimasti in pochi  nelle campagne della Tuscia viterbese, ma fino agli anni Ottanta del secolo scorso punteggiavano il paesaggio verso la Maremma e il Tirreno, erigendosi a simbolo di una civiltà contadina ormai scomparsa. 

Li realizzò Raimondo Vivarelli, un latifondista toscano che fu il primo ad utilizzare in Italia questi “motori a vento” economici ed ecologici. Il colpo di genio fu nel rendere orientabili le eliche ad ogni tipo di vento. Nel 1872 creò la prima officina nel centro di Grosseto per la loro produzione in serie. Prese spunto dalla pale eoliche texane che venivano usate per estrarre l’acqua dolce dalla falde artesiane per abbeverare il bestiame ed irrigare le colture. Vivarelli, insieme ad altri proprietari terrieri del tempo (Ricasoli, Collacchioni, Guicciardini, Bicocchi) credette  nelle potenzialità della Maremma e a poco prezzo acquistò alcuni latifondi trasformati poi in poderi produttivi.  

La prima pompa fu impiantata a Talamone. L’attività venne continuata dai figli e soprattutto dal nipote Raimondo Vivarelli jr (scomparso nel 2014) che  trasformò la produzione artigianale delle pale in un fenomeno industriale esportandole in molti paesi del mondo, soprattutto in Africa.  

Alcuni di quei tralicci sono ancora orgogliosamente in piedi con le pale arrugginite e mute, a testimonianza di un’archeologia campestre fatta di casali, stalle, forni all’aperto (il pane si faceva in casa), vecchi aratri e  porcarecce su cui aleggiano ricordi di sudore,  privazioni, lotte sociali, soprusi, schioppettate e briganti. Intorno ad essi - e quindi al pozzo e al fontanile- si animavano fino a pochi decenni  fa feste campestri, raduni mattutini di butteri e braccianti prima della partenza per i campi, ritrovi chiassosi di ragazzi, sciami di oche e galline. Intorno ai pozzi ci si riuniva nelle feste comandate anche per rosari di ringraziamento alla Madonna.   

Oggi quella Maremma, un tempo amara, greve e maledetta, come è stata descritta per secoli da scrittori, poeti e pittori, s’è fatta “dolce”, accogliente e ricercata, pur conservando quel look di rusticità gentile che fa la differenza nell’affollato scenario delle proposte turistiche.  Nella Tuscia è una delle “pillole” più originali specialmente in questi tempi di pandemia che ci sollecitano a considerare, con “nuovi occhi” come direbbe Proust, territori di prossimità per escursioni e vacanze. Quei vecchi tralicci in ferro sono lì a testimoniare un mondo che non c’è più e che ha lasciato il campo a nuove modalità di lavoro fatte di meno sudore e più tecnologia. E ci lasciano anche un magone di nostalgia. 

 

 

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