Viterbo STORIA
Mauro Galeotti dal libro L'illustrissima Città di Viterbo - Viterbo 2002

                            Veduta dell'Ospedale Grande degli Infermi alla fine dell'800, ripresa da Via Chigi, a destra è la Valle di Faul, dietro sono l'Ospedale è il Duomo di san Lorenzo con il campanile (Archivio Mauro Galeotti)

Il complesso dell’Ospedale Grande degli Infermi di Viterbo occupa buona parte del Colle del Duomo.

In questa area era nel secolo XIII l’abitazione dei vescovi della città, abbandonata vari anni dopo che i papi lasciarono l’attuale Palazzo papale. L’Ospedale fu iniziato a costruire il 20 Gennaio 1573 e il reparto di medicina fu realizzato il 24 Gennaio 1574, creato per volontà anche del Comune, tanto che architetto fu uno dei priori, messer Domenico Poggi.

L'Ospedale Grande degli Infermi nella prima metà del 1600
(da www.scopriviterbo.it di Ser Marcus de Montfort)

Al nuovo ospedale furono destinate tutte le rendite dei vari altri piccoli ospedali ed ospizi della città e gli fu dato, in modo assai semplice e popolare, il nome di Ospedale Grande, perché naturalmente era quello di più grandi dimensioni, mai esistito a Viterbo.

La spesa per la costruzione fu di cinquecento scudi, di cui duecento a carico del Comune, duecento del cardinale Farnese e cento dal cardinale de Gambara. L’approvvigionamento di acqua fu preso dalla Fonte di san Lorenzo e fu altresì emesso un decreto che vietava l’impiego, in ospedale, di donne di età inferiore ai cinquanta anni.

Oggi nell’atrio dell’Ospedale è murata, a ricordo, l’epigrafe, già posta sulla primitiva facciata, come testimonia Gaetano Coretini nel 1774 e come si vede nel disegno conservato presso l’amministrazione dell’Ospedale attuale. Tale disegno è da far risalire al secolo XVII e non al XVI come altri affermano, infatti è ben visibile in alto di chi guarda lo stemma appartenente ad Antonio Santacroce vicelegato di Viterbo dal 1622 al 1624, partito, d’oro e di rosso alla croce patente dall’uno all’altro sorretto da due angeli. 

Segue, al centro, altro angelo sostenente con la sinistra un cartiglio bianco e con la destra l’emblema dell’ospedale composto dai tre monti recanti ognuno sulla cima una croce, all’estrema destra è lo stemma di Viterbo sorretto da un angelo.

La facciata dell'Ospedale Grande degli Infermi realizzata nel 1878

Dal suddetto disegno si nota chiaramente la porta d’ingresso principale dell’Ospedale dalla caratteristica sagoma cinquecentesca con sovrastanti epigrafi e stemmi, si vedono anche i lati su Via san Clemente e Via sant’Antonio rimasti pressoché invariati, si intravede anche il campanile della Chiesa di santa Maria della Cella con la banderuola.

Torno all’epigrafe nell’atrio, eccola: Alex(andro) Farnesio card(inale) leg(ato) / populus Viter(biensis) pauperum / comoditati studens / salubriori in loco a / fundamentis extruxit / an(no) a partu virg(inis) / MDLXXV.

Nel 1578 per ampliare l’Ospedale fu acquistato l’orto dei Tignosini, poi nel 1582 la Chiesa di sant’Anna, della quale tratterò in seguito, e nel 1583, su disegno del viterbese Francesco Monaldi, fu eretta la cappella dell’Ospedale. Cappella dell’Ospedale La Cappella era «tutta messa a stucchi ed oro, a capo della corsia principale», stucchi che furono eseguiti dai fratelli scultori Adriano e Giovan Battista Schiratti.

Alla spesa contribuì anche il cardinale de Gambara che donò duecento scudi. Sull’altare fu collocata la pittura in tela di Cesare Nebbia (Orvieto 1536 c. - 1614 c.) eseguita nel 1594 per centotrenta scudi e raffigurante Gesù che rianima un paralitico. La cappella, nel 1844, fu distrutta in seguito ad ampliamenti, ossia quando si decise di sovrapporre la volta alla corsia.  Il quadro fu collocato sul nuovo altare ricostruito in quello stesso periodo nella corsia degli uomini, demolito di nuovo, nel 1877 fu posto sulle pareti dell’infermeria. Oggi si trova su una parete della scala che è posta davanti all’ingresso.

Nella cappella vi era anche un affresco eseguito nel 1601 dal viterbese Ludovico Nucci e raffigurante l’Annunziata. Papa Paolo V, il 1° Giugno 1615, accordò un’indulgenza in occasione della celebrazione nella cappella della terza Festa di Pentecoste. La nuova Cappella dell’Ospedale Grande fu inaugurata il 16 Agosto 1950 in stile barocco con altare in marmi policromi eseguito dalla Ditta Roe Costantini su disegno del cappellano.

Luigi Mignozzi. L’altare era sovrastato da un baldacchino di legno dorato. In una nicchia centrale era una immagine della Madonna col Bambino, Salute degli Infermi, che il conte Mario Fani ha voluto donare. Ai lati, almeno nel 1952, erano i quadri raffiguranti san Giuseppe e san Camillo, che è il protettore degli ospedali e degli infermi. In un lato era la vasca battesimale. Il 5 Agosto 1950 il vescovo Adelchi Albanesi consacrò l’altare dedicandolo alla beata Vergine Salus Infirmorum.

Nel 1588, gli emblemi in peperino dell’Ospedale, furono murati sulle case di proprietà di tale fondazione, tanto che ancora oggi sono visibili in più parti della città. Altro ampliamento dell’Ospedale si ha nel 1596 quando fu acquistata la vicina Casa e giardino della famiglia Tignosini confinante con Via della Cella, la Chiesa di san Gregorio e i beni dei Marsciano.

Nel 1601 si deliberò di affidare la cura degli infermi ai chierici regolari detti Ministri degli Infermi, prendendo contatti anche con Camillo de Lellis istitutore di quell’Ordine, il quale confermava la venuta di alcuni confratelli. Questi, col consenso del vescovo, furono inviati dal Capitolo della Cattedrale nella Chiesa di santa Maria in Poggio, concessa nel 1603.

Nel 1626 il Comune dette un contributo per ampliare la corsia degli ammalati, poi si optò per ripristinare alcune stanze e nel 1628 venne riparata la Fonte dell’Ospedale. Al principio del secolo XVIII fu aggiunto al primario, un secondo medico con l’obbligo al chirurgo di tenere una volta al giorno una lezione di teoria e pratica, sia agli infermieri dell’Ospedale che ad altri volontari. Chiuso l’Ospedale dei Convalescenti nel 1747, i beni di sua spettanza furono ceduti all’Ospedale Grande.

L'ingresso dell'Ospedale Grande degli Infermi da Via sant'Antonio con lo stemma dell'Ospedale: il trimonzio sormontato da tre croci

Nel 1776 i Governatori dell’Ospedale elessero a chirurgo il famoso dottor Prospero Selli, romano, professore di anatomia nella Università della capitale, con l’obbligo sia della lezione quotidiana di teoria e pratica, che della lezione di anatomia ai suoi discepoli, da eseguire almeno due volte la settimana e una volta al mese per chiunque avesse avuto il desiderio di avvicinarsi alla medicina. Tutto sembrava procedere per il meglio, ma arrivò la bufera con la Rivoluzione che causò vari danni per i vari passaggi di truppe francesi durante gli anni della Repubblica romana.

L’Ospedale fu soggetto a varie rapine e saccheggi di letti, biancheria, coperte e suppellettili. Non furono usati riguardi per i medicinali, tanto utili e scarsi, infatti svuotarono anche le dispense della farmacia causando enormi disagi ai dottori e agli ammalati. Il nostro Ospedale poté risorgere grazie alla buona volontà dei viterbesi che, a loro spese, lo rifornirono di tutto il necessario per poter riprendere ad operare. Furono, infatti, poste nuove tasse ai cittadini fino a quando non si ricostituì il patrimonio del nosocomio.

Nel 1803 anche il vescovo di Viterbo, Dionisio Ridolfini Connestabili, si prodigò in favore dell’Ospedale. Il 29 Giugno 1805 venne bandito un concorso per l’incarico di medico primario chirurgo e su ventisette esaminati vinse il dottor Giuseppe Matthey di Parma, questi fu anche incaricato della cattedra di anatomia e di medicina nel Seminario vescovile. Nel 1807, da parte di papa Pio VII, fu concessa all’Ospedale, l’erezione della prima Scuola clinica dei domini papali.

Il ricordo è conservato grazie all’altra epigrafe murata nell’atrio attuale dell’Ospedale, dettata da monsignor Paolo Polidori († 1847), allora vicario generale della Diocesi di Viterbo e poi eletto cardinale: Salvo D.n. Pio VII pontifice maximo felici augusto / schola clinices / decreto summi consilii negociis valetudinarii procurandis / iampridem constituta / nec alibi in tota pontificia dominatione hactenus excitata / idibus novembribus an. MDCCCVII / summa peritorum hominum exultatione / dedicata est / Josephi Franceschinii Ioannis comitis Savinii / Dominici Ciofii Aloysii Sannellii / populi conservatorum / nutu / adnitentibus com. Joanne Magnonio com. Joanne Savinio / Spiridione Menicotio Jacobo Cecchinio / IIII viris patriciis praepositis nosocomii / de re publica de aegrotantibus / de arte salutis humanae praeside / optime meritis.

Ricorda Francesco Pietrini che il ritratto di Paolo Polidori nel 1957 è in Vescovato nella Sala capitolare, oggi è nel Museo del Colle del Duomo.

La Scuola clinica fu inaugurata, con la solennità dovuta, l’11 Novembre 1807 nella Sala regia del Palazzo dei priori e fu attiva fino al 1835. Fu rinomata nei primi anni, poi la Costituzione sugli studi emessa da papa Leone XII, il 28 Agosto 1824, stabilì che solo le Università di Bologna e di Roma potevano rilasciare la laurea in medicina escludendo quindi Viterbo. Ogni pressione, perché la Scuola clinica dell’Ospedale di Viterbo fosse considerata come una succursale di quella di Roma, fu vana e ciò ne determinò la fine.

Scrive, nel 1837, Giuseppe Marocco nel suo Monumenti dello Stato Pontificio: «L’ospedale grande degli infermi ha varie corsie, e saloni, ed un bel gabinetto clinico, il primo che sia stato eretto nello Stato Pontificio, camere anatomiche, ed il locale attiguo per le cattedre di medicina teorica e clinica, di anatomia e chirurgia. All’altare della gran corsia de’ maschi vedesi la Probatica piscina di Cesare Nebbia orvietano».

Invece Stefano Camilli, nel 1840, lo illustra così: «Fra gli stabilimenti filantropici primeggia l’“Ospedal grande degl’Infermi”, ove i febricitanti infermi di qualunque classe de’ due sessi sono gratuitamente accolti, e curati in corsie, e sale distinte, e ripartite anche secondo la natura delle malattie.  Ha speciali “Governatori”, un “Priore amministratore, Medici, Chirurgi, Giovani assistenti, Apprendisti, Donne inservienti” pel loro sesso ec(cetera)”.

Questo stabilimento ha vistosi redditi ed in casi di influenza appresta più centinaja di letti.  Sotto la stessa Amministrazione, ed attiguo allo stesso locale é posto il “Reclusorio de’ Pazzi” ossia Carabozzoli dell’uno, ed altro sesso idoneamente trattati a tenore del grado della malattia». Per costruire una nuova corsia, nel 1850, venne chiuso un vicolo adiacente all’Ospedale, infatti, fino a quel momento esistevano già la corsia per gli uomini e quella per le donne.

Altro ampliamento si ebbe nel 1855 e due anni dopo si fecero i cancelli che furono collocati alle due estremità del piazzale. Nel 1857, anche se il papa espresse il desiderio di collocare nell’Ospedale, quali assistenti agli ammalati, le suore di san Vincenzo de’ Paoli, vennero incaricate quelle di Carità.

Il 3 Settembre 1857 Pio IX visitò l’Ospedale, ma ecco cosa leggo dalle Memorie edite per l’occasione: «Passò quindi [il papa Pio IX proveniente dal Monastero di santa Giacinta] rifacendo l’istessa via [san Lorenzo] all’Ospedale grande degli infermi, ove fu ricevuto dal Priore e dai Sigg. Deputati, i quali animati oggi più da vero spirito di carità, che da vanto sistematico di mal’intesa economia, ricevono le più affettuose benedizioni dai poveri infermi.

Il Santo Padre visitò le corsie degl’uomini e delle donne, diresse a molti infermi parole di speranza e di conforto, e dopo ciò assiso sul trono ammise al bacio del piede il Sig. Priore, e i Governatori, il Rmo Sig. Can. Don Salvatore Mascini Presidente della Ven. Archiconfraternita dei Sacchi con tutti i fratelli, e la Sig. Teresa Mencarini Marcucci Direttrice delle Sorelle con le sue compagne, destinati tutti per istituzione di S. Giacinta all’assistenza degli infermi; e fra questi due Capi sarebbe difficile impresa lo assegnare a quale si debba il primato per lo zelo, pazienza, e Cristiana Carità, con cui tanto santamente rispondono al loro istituto».

Nel 1860, scrive Giuseppe Signorelli, realizzando la camera mortuaria, fu ovviato lo sconcio di eseguire lungo le vie pubbliche le autopsie sui cadaveri. Il primo Statuto dell’Ospedale fu approvato con Regio Decreto del 23 Luglio 1877, aggiornato in seguito varie volte.

La facciata attuale risale al 1878 e nel 1933 l’amministrazione ospedaliera bandì un concorso per costruire un nuovo ospedale, vari furono i concorrenti, ma pochi i danari accantonati per la realizzazione del progetto, così non fu fatto più nulla. Era stato proposto come luogo di erezione dell’edificio il Quartiere del Pilastro, dove invece furono costruite le Case popolari.

Il 29 Ottobre 1927 vi si insediarono le Minime Suore del Sacro Cuore di Gesù, che offrirono tutto il loro amore per assistere gli ammalati. Gravemente danneggiato nel 1944 per i bombardamenti aerei, l’Ospedale fu riparato e il 30 Novembre 1950 assunse il nome di Ospedale Grande degli Infermi “Renato Capotondi Calabresi” in ottemperanza del desiderio di Angela Bevilacqua, madre di Renato. Infatti, nell’Ottobre del 1950, alla morte dell’usufruttuario Renato Vanni, l’Ospedale entrò in possesso della non indifferente eredità della famiglia Calabresi. 

Sin dal 1933, la signora Angela Bevilacqua, vedova Calabresi Vanni, aveva lasciato erede di tutti i suoi beni immobili l’Ospedale di Viterbo, solo se il suo unico figlio, Renato Vanni, psichicamente minorato, non avesse messo al mondo figli legittimi. Renato non ebbe figli. 

Alla sua morte l’Ospedale si trovò proprietario di sette poderi di circa centoventi ettari, unitamente ad altri fabbricati in Viterbo, tra i quali il Palazzo Calabresi.

All’interno dell’Ospedale, a destra dell’ingresso principale, lungo il corridoio ancora a destra, è il busto in marmo di Giacomo Polidori con l’iscrizione: A ricordo perpetuo dell’insigne benefattore / nob. Giacomo Polidori / la dep. amm. dell’Ospedal grande degl’infermi / A. MCMXXI d.d.

In basso è lo stemma Polidori così raffigurato, secondo Vittorio Spreti: d’azzurro alla fascia d’oro sostenente una colomba con un ramoscello d’olivo al naturale nel becco, accompagnata in capo da due stelle [in realtà ivi lo stemma ne riporta tre] di 6 raggi d’oro ed in punta dal mare fluttuoso d’argento e d’azzurro.

Mario Signorelli, invece descrive lo stemma nel modo seguente: di rosso, alla fascia cucita d’azzurro caricata da tre stelle d’oro.

 

 

 

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