Viterbo LA STORIA DI VITERBO
Mauro Galeotti (dal libro L'illustrissima Città di Viterbo)


Porta Bove, primi del 1900 (Archivio Mauro Galeotti)

Porta Bove si trova nel tratto di mura costruito nel 1215, che va dal Piano di san Faustino sino alla Torre di Sassovivo, ad Ovest della città.

Alcuni storici, leggendo l’epigrafe ivi esistente, che poi riporterò, trovano difficoltà nel porre l’anno di costruzione della porta per causa della corrosione della pietra proprio in questo punto e si trovano in dubbio se leggere 1215 o 1255.

Il cronista della Tuccia scrive, all’anno 1215, che «Fu fatta la porta di Bove, e il muro sotto detta porta sino alle ripe, ove fu fatta una torre» e l’altro cronista Francesco d’Andrea asserisce allo stesso anno che «Fue facto el muro sopra la porta de Buove».

Non ci sono dubbi sulla data di costruzione della torre, infatti, oltre a dimostrarlo gli scritti dei cronisti che avanzano l’anno 1215, vi è anche un altro documento ufficiale del 1251. Infatti, nello Statuto di Viterbo di quell’anno nella sezione terza Extraordinaria all’articolo 2, si trova citata la Porta Bove «sunt extra portam Bovis», pertanto si esclude automaticamente l’anno 1255.

La porta fu chiamata di Bove, dal podestà di Viterbo in carica già il 3 Settembre 1215 Bovo Odonis de Bovo de Roma, come riferisce Norbert Kamp. Giuseppe Signorelli nel suo libro sui podestà lo chiama Bovo Oddonis Bovonis. Si presume, infatti, che fu lui ad iniziarne la costruzione.

L’epigrafe murata sulla porta ricorda un Bonaventura podestà di Viterbo dal 1255 al 1256, Bonaventura Cardinalis de Papareschis, Romanorum proconsul, il quale secondo l’epigrafe fu l’autore della costruzione della porta, ma più probabilmente il Papareschi fece terminare la costruzione della torre o la fece restaurare, collocando sulla sommità il suo stemma più volte ripetuto, due volte sul lato corto e tre in quello lungo. Da lui deriva l’altro nome dato alla porta stessa ossia Porta di Bonaventura.

Ma ancora da quest’ultimo nome qualche storico ritiene sia la derivazione di Porta Bove, infatti, sembra logico troncare Porta Bonaventura in BO: VE:.

Poco sopra all’arco esterno della porta è murata una bella epigrafe in peperino nella quale è la stessa porta a parlare:
L cu(m) qui(n)que fuit a(n)nos p(ost) M duce(n)tos / cu(m) Bo(n)ave(n)tura p(ro)co(n)s(u)l nobil(is) Urbis / re nom(en) co(m)ita(n)te bonu(m) me fec(it) et aux(it) / hi(n)c Bo(n)ave(n)tura(m) porta(m) me dicere iubet / qui me fu(n)davit rectorq(ue) sic decoravit / vivat i(n) et(er)nu(m) cu(m) ge(n)te cole(n)te (m) Vit(er)bum.

Tradotta: Quando fu il cinquanta e poi il cinque dopo il mille e duecento [1255], il proconsole Bonaventura, nobile dell’Urbe, mi fece bella ed anche più grande per questo vuole che mi chiami Porta Bonaventura. Colui che mi costruì è il podestà che così mi adornò: possa egli vivere in eterno con la gente che abita Viterbo!.

L’iscrizione è dentro ad una cornice a cuspide con tre stemmi uguali appartenenti alla famiglia romana Papareschi, di rosso, alle cinque fasce ondulate d’argento.

Sopra l’epigrafe, in corrispondenza delle sedi degli argani, si trovano due feritoie alte e strette.

All’interno la torre risulta in parte interrata. E’aperta, come la Torre di san Biele, per tutta la sua altezza terminando con un arco a sesto leggermente acuto. Sulla parete sono ancora le sedi degli argani che sollevavano la saracinesca o il ponte levatoio. Ancora all’interno sull’alto delle mura presso la porta, sul fianco destro di chi guarda, è un’altra epigrafe che ricorda un restauro alle mura stesse avvenuto nel 1290. Circondata da una cornice in peperino, dentellata nel lato inferiore, così è letta da Attilio Carosi:
† M. duce(n)tenis a(n)nis deciesq(ue) nove(n)is / muros Viterbi (con)structos n(om)i(n)e Verbi / Ranaldus Rector a(n)i(m)os(us) miles ut Ethor / que(m) Bru(m)fortina notu(m) dat stirps palatina / fecit fundari sic muros edificari / sic ratio(n)e pari fecit quosda(m) reparari / arma sui digna que sunt regalia signa / Su(m)mi Po(n)tif(ic)is sunt h(ic) supposita signis / hiis igitur duris letor circu(m)data muris / urbs ego Viterbi cui stat p(ro)tectio Verbi / p(a)pe sic quarti Nicolai tradita parti / versus bis senos hos Prosper fec(it) amenos.

Tradotta: Nell'anno 1290 il podestà Rinaldo, al pari di Ettore valente soldato, che la palatina stirpe dei Brumfort vanta, fece fondare queste mura di Viterbo, costruite nel nome del Verbo, altre mura edificare ed altre per uguale ragione riparare. Le sue onorate armi, insegne da re, sono qui sottoposte agli stemmi del Sommo Pontefice. Dunque, lettore, circondata da salde mura, sono io città di Viterbo / mi accompagna la protezione del Verbo / decisa a seguire le sorti di papa Niccolò IV. Prospero scrisse questi deliziosi dodici versi.

Gli emblemi di Rinaldo, o Rainaldo, di Brumfort e di papa Niccolò IV non ci sono più.
Nel 1221, presso la porta, accadde uno scontro armato tra Romani e Viterbesi e nel 1243 l’imperatore Federico II venne a Viterbo e la pose in assedio, i Viterbesi murarono molte porte e costruirono difese anche alla Porta Bove, come riferisce della Tuccia:
«E fecero gran steccata nella valle del Tignoso, cioè dal castello di S. Lorenzo sino alle mura della porta di Bove, in quel loco che ora si chiama a pie’ di fabule sino a S. Chimento».

La Valle del Tignoso era quindi quella che poi si chiamerà Valle di Faul e si estendeva fino al Ponte del Duomo. Giuseppe Oddi scrive, nel 1884, sul Giornale araldico genealogico diplomatico:
«Faul è il nome di una vasta contrada, inclusa per ultima nella città dopo la metà del secolo XIII. Fu campo di fiere, giostre e corse; ed è rimasta sempre campestre e disabitata. In qualche antico documento è menzionata fabule. Che fosse un tempo un campo coltivato a fave? od abbia appartenuto a qualche cospicuo cittadino per nome Faulo; il qual nome s’incontra nei documenti nostri?».

Da questa porta, fino a Porta di Valle, furono costruiti nel 1243, durante l’assedio di Federico II, le carbonare e uno steccato, a difesa della imboccatura dell’attuale Valle di Faul rimasta aperta. La sectio tertia, alla rubrica 2 dello Statuto di Viterbo del 1251, stabilisce che queste carbonare e lo steccato non dovevano essere mai riempiti, cinquanta libbre di multa erano comminate ai contravventori, «Statuimus quod carbonarie nove utiles de sticcatu, scilicet a pertusa Vallis usque ad carbonarias, que sunt extra portam Bovis, nullatenus repleantur».

Nel 1365 la porta non rivestiva più molta importanza per il transito, tanto è vero che in quell’anno, per recarsi negli orti della Valle del Caio e dei bagni, il Comune concesse ai Padri Agostiniani la facoltà di utilizzare la strada che conduceva alla porta, dando agli stessi anche le chiavi della medesima.

Nel 1392 Viterbo subì attacchi dai Romani da parte di Bonifacio IX e nell’Aprile di quell’anno, il Capitolo di sant’Angelo ebbe in obbligo la difesa di Porta Bove. Due anni dopo, il 22 Marzo, il Capitolo stesso contribuì a restaurare le mura prossime alla porta, che, secondo alcuni studiosi, fu murata prima del 1428.

I priori, nel 1457, elessero tre cittadini che avevano il dovere di restaurare e rendere funzionali le mura e le porte della cinta muraria, questi potevano disporre di una somma pari a venti ducati d’oro il mese. Gli eletti furono Giacomo di Domenico Almadiani, Giovanni di Nofrio e anche il cronista Niccolò della Tuccia, il quale, tra gli interventi eseguiti, scrive che fecero «rimettere un canto della torre di Bove, e far li merli».

Qualche anno dopo, nel 1466, fu iniziato a costruire un barbacane sul lato esterno della porta e nel 1474 fu «cresciuto il barbacane dal lato di fori della torre di Bove insino detta torre con un torrione innanti della torre di Bove, e fu il maestro Gabriello Lombardo. Furno spesi trecento ducati, che ci donò papa Sisto [IV]».

Lo Statuto di Viterbo del 1469 non prevedeva il portinaio per Porta Bove, a dimostrazione dell’uso sporadico della medesima. In quel periodo le mura del barbacane, erette da Porta di santa Lucia fino alla Torre di Sassovivo, prevedevano inoltre, l’innalzamento di una torre semicilindrica, proprio avanti alla porta, ancora oggi esistente ed incorporata nella abitazione. E’ l’evidente prova dell’inattività della porta.

Nel Settembre e Ottobre 1600 ai priori, che rivestiranno tale carica, si ricorda:
«Noi pigliamo per espediente mandare a Roma per dare inibitione a Porta Bove [...] ne venne subito la quale inibitione non stava bene per di nuovo ne bisogna rimandarle per questo effetto si sono spesi pauli ventisei et pauli cinque si derno per fare acconciare [...] che sono in tutto 3.20».

In merito alla casa costruita avanti all’ingresso di Porta Bove, già nel 1871, il sindaco Angelo Camilli Mangani ne aveva ordinata la demolizione, ma senza effetto per intestine discordie fra i membri del Consiglio comunale divisi in liberali spinti e clericali intransigenti, così riferisce Cristofori.

Poco dopo, nel 1875, nacque una disputa tra il Comune che voleva si demolisse la costruzione e il proprietario Angelo Antonio Lucchetti, il quale asseriva, a ragione, che esisteva già una casetta semidistrutta e che il Comune, tacitamente, aveva approvato l’ampliamento della stessa chiudendo così lo spazio, rimasto ancora libero, dinanzi alla porta. Francesco Cristofori nel 1888, riferendosi alla porta scrive:
«ora quasi nascosta da un barocco edifizio moderno costruttole dai Sigg.ri Lucchetti innanzi, che quasi ne toglie interamente la parte inferiore allo sguardo di chi la osserva dal suburbio».

Nel 1919 la Torre - porta Bove ritornò a far discutere, infatti, ad opera dell’ingegnere Torquato Cristofori, furono stampate alcune cartoline commemorative del Progetto per la utilizzazione dell’acque minerali di Viterbo. 

Una delle cartoline realizzate da Torquato Cristofori con Porta Bove,
sulla destra si vede l'epigrafe descritta nel testo

In una di queste, in un disegno eseguito da Domenico Cristofori, è raffigurata Porta Bove, completamente isolata dalle mura, con ai lati due strade, una fontana con vasca e alcuni giardini, unitamente ai tram, che avrebbero dovuto collegare Viterbo, da Piazza delle Erbe alle Terme. A destra della cartolina è un cartiglio con la scritta:
Leone Viterbese! Della tua gloria, del tuo splendore della tua forza, non è rimasto che la tua effige scolpita nel nero sasso. Volgi lo sguardo e senti il caldo aroma della nuova e bella preda. 

In un’altra cartolina, che presenta ancora Porta Bove, leggo:
Popolo Viterbese! / Per volontà tua / sarà aperta alla città la porta / del suo glorioso avvenire. In un’altra Siamo ancora in tempo: / la nave è pronta allo scalo, ma non ci / siamo ancora imbarcati: / prima esaminiamone e ripariamone bene / le falle, mettiamone bene a posto il timone / per assicurarci una rotta sicura, / per evitare il naufragio.

E su un’altra ancora, con riportato il progetto e gli stemmi di Viterbo e della famiglia Cristofori, leggo:
Per la nostra città / è questione di vita o di morte. / Riflettere bene prima / per non pentirsi poi.

Per fortuna non se ne fece nulla e la città non morì, ma i rischi per la porta non terminarono.
Nel Piano Regolatore di Viterbo del 1936, allorquando Giuseppe Mainardi era ingegnere capo, si progettò, riprendendo l’idea del 1919, di valorizzare la porta facendo uscire da questa un viale di due chilometri che partiva dall’attuale Piazza Martiri d’Ungheria e raggiungeva il Bullicame, aprendo anche due fornici simmetrici alla torre che sarebbe rimasta comunque intatta. Il preventivo di spesa ammontava a lire ottocentomila, il progetto fu, grazie a Dio, abbandonato.

Oggi la porta è ancora murata e l’uscita è ostruita da una casetta, la torre di pianta quadrangolare, costruita con la tipica petrella viterbese in origine era alta ventotto metri compresi i merli di stampo guelfo.
I merli che si incontravano agli angoli terminavano a cuspide, mentre gli altri a superficie piana. Avevano tutti le mensole a gancio che consentivano il sostegno delle travi di legno orizzontali.

Voglio riferire la colorita descrizione che Francesco Cristofori fa della torre sul libro Dante e Viterbo:
«La torre nella parte rivolta verso la città è vuota, e sulla porta par che vi siano le vestigia di antiche pitture […]. Nell’incavo del fornice si scorge l’incanalatura della saracinesca e sembra la via essere ivi stata già assai più bassa che al presente. 

Fu chiusa nel secolo XVII, a quanto pare […]. L’altezza della torre mi sembra possa fissarsi ad un 20 metri più, o meno; il vano della porta a circa 7 metri d’altezza. 
La larghezza approssimativa della torre è sette metri e quattro più, o meno quello della porta, che le sta sotto. Il lato della torre dalla parte esterna all’interno è di circa sei metri.
Nel dar questi cenni, comechè assente dalla patria, non mi fò garante della scrupolosa precisione di essi, ed altrove spero poter esibire le varie dimensioni delle principali fra le molteplici torri tuttora superstiti nella città nostra».

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