Villa San Giovanni in Tuscia STORIA
Micaela Merlino

Tutto cominciò dalle leggende che nel Medioevo sorsero intorno alla figura di San Nicola Vescovo di Myra, conosciuto anche con il nome di S. Nicola di Bari (250/270 circa-343 d.C.), secondo le quali questo Santo aveva una particolare predilezione per i bambini, e veniva in loro soccorso.

Nel XII secolo divenne il loro patrono e il 6 Dicembre, giorno della sua festa, invalse la consuetudine di fare regali ai bimbi. Ma il “mito” di Santa Claus nacque in America in epoca molto più recente, tra la fine del XVIII secolo e i primi decenni del XIX, per dare una connotazione prettamente americana alla celebrazione del Natale.

Nel 1774 George Pintard pubblicò a New York un opuscolo bilingue, in inglese e in olandese, nel quale vi erano alcune illustrazioni di S. Nicola in abiti vescovili all’interno di una casa, con calze colme di regali appese al camino e accanto due bambini, uno buono che reggeva dei doni, l’altro cattivo che teneva in mano una frusta.

Alla costruzione dell’iconografia e della funzione di dispensatore di doni di Santa Claus, contribuì anche una serie di poesie pubblicate in alcuni libri per bambini nei primi decenni del XIX secolo, come quella edita nel 1821 nel libro “The children’s friend” (“L’amico dei bambini”), nella quale Santa Claus, contestualizzato nell’inverno artico, era presentato a bordo di una slitta trainata da una renna, in viaggio per consegnare i regali nella notte della vigilia di Natale.

Nel 1823 il teologo newyorkese Clement Clark Moore scrisse un’altra poesia “A visit from Saint Nicholas” (“Una visita di S. Nicola”), dedicata ai suoi figli, pubblicata anonima sulla rivista “Troy Sentinel” e corredata da disegni. S. Nicholaus/S. Claus aveva ormai acquisito l’aspetto di un simpatico folletto vestito di pelliccia, seduto sopra una slitta trainata da ben otto renne.

Arrivato a destinazione la vigilia di Natale, entrava nelle case scendendo attraverso le canne fumarie dei camini, per dispensare doni. Ma l’iconografia di S. Claus che ebbe più successo fu quella disegnata da Thomas Nast nella seconda metà del XIX secolo: un paffuto “elfo americano” dalle fattezze gaudenti, col viso sorridente, barbuto, vestito con un abito e un cappello di pelliccia, contestualizzato in una sorta di laboratorio di giocattoli al Polo Nord, e con in mano una lista nella quale erano scritti i nomi dei bambini buoni e di quelli cattivi.

Sempre in America dai primi anni del XX secolo la figura gioviale di S. Claus fu utilizzata a fini commerciali dai Grandi Magazzini: in modo quasi ossessivo essa compariva su bigliettini, gadgets, indumenti, fino alla trovata di trasformare in tanti Santa Claus comparse viventi. Il messaggio era chiaro: a Natale bisogna scambiarsi i regali, come insegna S. Claus, e chi non lo fa diventa una sorta di outsider.

L’innocente favola per bambini divenne un’arguta trovata commerciale, che durante le Festività Natalizie fruttava alle grandi Aziende milioni di dollari di fatturato. Un vero trionfo per il consumismo. In Europa, e segnatamente in Italia, la diffusione del mito di S. Claus, ribattezzato con termine nostrano Babbo Natale, si è verificata nel secondo dopoguerra, e vi è stato anche un dilagare dei relativi riti del consumo dei regali, una pratica sociale ormai da molti decenni largamente condivisa.

Mettendo per un momento da parte le suggestioni del simpatico elfo in pelliccia, ci si può chiedere quale sia la funzione e lo scopo del donare. Secondo un’interpretazione di matrice antropologico-culturale, il dono fa parte di quelle pratiche sociali attraverso le quali tra individui, e persino tra comunità, si costruiscono e/o consolidano alleanze, si esaltano potenzialità economiche, si mettono in moto meccanismi psicologici di reciprocità (ricambiare il dono).

Dunque dare e ricevere sono atti di riconoscimento-accettazione dalle profonde valenze sociali. Ma la storia della cultura popolare dimostra che già molto prima della migrazione di S. Claus dall’America in Europa, sull’italo suolo c’era l’usanza di scambiarsi i regali: le strenne di Capodanno. Infatti i Romani in questa ricorrenza, che dal 153 a.C. coincise con il 1° giorno di Januarius (Gennaio), erano soliti imbandire ricchi banchetti ai quali invitavano parenti ed amici. In questa occasione i convitati si scambiavano le strenae, cioè regali consistenti in cibi quali datteri, fichi e miele, lucerne, monete, pietre preziose.

Il nome strenae derivava dal fatto che, soprattutto, ci si scambiava semplici rami di alloro raccolti all’interno di un boschetto sull’Esquilino dedicato alla dea Strenia, di origine sabina, divinità della fortuna e della felicità, il cui culto secondo la tradizione era stato introdotto a Roma da Tito Tazio. Il nuovo anno, dunque, si apriva all’insegna del culto di Janus, come racconta Ovidio nei Fasti, divinità tutelare di tutti gli inizi, perciò anche di ogni “rito di passaggio” che sanciva ritualmente la trasformazione. Passaggi temporali da uno status all’altro (l’inizio di un nuovo anno, o della stagione bellica, ecc.), ma anche passaggi spaziali (da dentro a fuori e viceversa, come avviene attraversando una porta).

Proprio per questa duplicità di funzione il dio Janus era raffigurato bifronte: una faccia rivolta al passato e al “dentro”, e l’altra faccia rivolta al futuro e al “fuori”. Oggi l’uso di scambiarsi strenne a Capodanno è stato soppiantato, come s’è visto, dall’usanza di scambiarsi i regali a Natale. Si può dire che nella nostra epoca anche il dono, come Janus, è diventato bifronte: manifestazione sentimentale, ma anche esaltazione del consumismo, e in tempi recenti addirittura fonte di stress, come avvertono gli psicologi.

La ricerca del dono come fattore scatenante di una sindrome ansiosa, provata da coloro che, in un contesto sociale segnato da un benessere diffuso (crisi economiche a parte), grazie al quale la maggior parte delle persone dispone largamente anche del superfluo, non sanno più cosa regalare ai propri cari.

Perciò il “fare un regalo” serenamente, mossi dall’affetto e dall’amicizia, si tramuta in “fare quel regalo” che possa effettivamente piacere/servire a chi lo riceve, senza però sapere precisamente quale possa essere. Inoltre il dono sembra essere diventato un indicatore di valore, così la gioia del regalare si tramuta in paura della disapprovazione (giudizio negativo per il regalo fatto) e in insicurezza del rifiuto (un regalo non azzeccato come fonte di disistima).

Per non trasformare il gaudente Babbo Natale in un vecchio triste e ansioso occorre recuperare la dimensione sentimentale, serena e gioiosa del donare.

Micaela Merlino

 

 

 

 

 

 

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