Viterbo STORIA Ieri ho preso burla di me stesso dicendo che era ora che rompessero Fontana Grande, era una provocazione a Michelini e compagni, ora ti narro la storia della fontana più particolare di Viterbo e d'Italia
di Mauro Galeotti


Viterbo Fontana Grande nel 1880 c. (Archivio Mauro Galeotti)

Piazza Fontana Grande, fu spianata con i lavori iniziati nel 1579 e terminati nel 1581, periodo in cui fu anche pavimentata la piazza con mattoni. Ricorda Luca Ceccotti che alcuni degli «enormi selci di durissima lava, o basalto», che formavano l’antica Via Cassia, furono collocati nella pavimentazione di questa piazza.

Nella parte a monte si innalza la magnifica Fontana Grande o del Sepàle.

Alcuni storici affermano che una fonte dal nome Sepalis esisteva già dal lontano 1192, infatti, la notizia è riportata da un documento del Liber censuum, Libro dei Censi, compilato dal cardinale Cencio, camerario della Chiesa Romana. Francesco d’Andrea la colloca al 1206, «fu facta la fontana del Separi», ma forse fu solo restaurata perché, come visto, nel 1192 appariva già in un censo corrisposto alla Camera apostolica.

Eretta di nuovo, nel 1212, col peculio del Comune, fu eseguita dai mastri Bertoldo Giovanni e Pietro di Giovanni, probabilmente marmorai romani, appartenenti alla famosa scuola dei Cosmati. «Magister Bertholdus Iohannes et Petrus Io. me fecit in anno MCCIIdecimo», così Giovanni Baffioni riferisce l’iscrizione sul secondo ciglio della tazza inferiore.

Luca Ceccotti la trascrive così, nonostante la scarsa lettura a causa delle erosioni del tempo e dell’acqua:
† Magister Ber(tolcdus) I(oannis) et Petrus Io(hannis) me fecit in anno MCCIID(ecimo).

Secondo Attilio Carosi l’iscrizione è troppo breve per coprire le quattro facciate dell’ottagono e, poi, non corrisponderebbe al testo che si intravede ancora.

L’importanza della fonte si rileva anche nello Statuto di Viterbo del 1251, scoperto dal canonico don Luca Ceccotti, sezione IV, Maleficia:
«decretiamo che se alcuno desse la stura alla fonte del Sepale, o all’abbeveratoio senza il permesso del balivo, sia punito con l’ammenda di soldi 10 e che alla stessa pena soggiaccia chi abbeveri cavalli o altri animali alla stessa fonte». 

Inoltre i balivi erano tenuti a far spurgare ogni mese le fonti e gli abbeveratoi pubblici, ma quello di Fontana Grande, doveva essere svolto ogni quindici giorni, causa l’uso frequente della fonte.

Importanti restauri e rifacimenti vennero effettuati nel 1279 quando la fontana fu trasformata all'incirca com’è tuttora. Ne prese cura il romano Orso Orsini, podestà di Viterbo fin dal 1277, e Arturo di Pietro di Raniero Geizone, signore di Monte Cocozzone nel territorio di Blera, capitano del popolo, come si desume dalla seguente iscrizione posta intorno all’orlo della grande vasca quadrilobata:
† Mille ducentenis c(um) LXX nove(n)is / a(n)nis Natal(is) Chr(ist)i fo(n)s iste Sepal(is) / mi(ri)fice f(a)c(t)us e(st) i(n) meli(us)q(ue) redact(us) / t(empo)re p(r)ude(n)tis clari d(omi)niq(ue) pote(n)tis / Ursi regna(n)tis Vit(er)bi p(rae)d(omi)nantis / A(r)turi(us) g(ratiis) g(entis) capitaneus Urbis / clara stirpe natus Petri d(e) Mo(n)te Beat(us) / regnabat dignus cu(n)ctis in honore benignus.

Francesco Cristofori e Giovanni Baffioni al posto di g(ratiis) g(entis), leggono tribus huius.
Tradotta: Nell'anno 1279 della Natività di Cristo questa fonte del Sepale fu mirabilmente portata a termine ed in meglio restaurata al tempo del saggio, illustre e potente Orso, signore della dominatrice Viterbo. Arturo, ben accetto capitano di questa Città, nato dalla chiara progenie di Pietro del Monte, felicemente reggeva il governo, degno di merito per tutti, benigno nell'esercizio del potere.

Sulla base ottagonale sostenente la vasca quadrilobata, incisa alternatamente solo su quattro lati, è quest’altra iscrizione col nome del restauratore e costruttore Valeriano:
† H(oc) op(us) Urbanus co(n)struxit Vallerian(us) / [Tunc] P(a)P(a) Nicolaus regnabat i(n) orbe beatus.

Tradotta: Quest'opera costruì il viterbese Valeriano, sotto il prospero pontificato di papa Niccolò III, Orsini (1277 - 1280).

Scrive Pier Giovan Paolo Sacchi, nei ricordi della sua famiglia:
«A dì 6 di febraro 1337 menai donna mia moglie, e dalla fonte del Sipali fino a casa nostra furono fatte pompe, balli e giuochi di sorte».

Gli anni passarono e di conseguenza il tempo e l’uomo deteriorarono talmente la bella fontana che nell’Aprile del 1424, si vide necessario un impellente restauro «servando quactro teste de liuni da zictare tucta lacqua» per una spesa di trentasei ducati.
Autore fu mastro Benedetto da Perugia, divenuto poi abitante e cittadino viterbese, ove morì nel 1430. 

L’iscrizione sulla fonte, secondo Pinzi, riferisce:
Magr. Benedictus olim de Perusio, nunc habitator et civis Viterbii me fecit Anno MCCCCXXII.

Infatti, Pinzi sostiene che il restauro fu eseguito nel 1422. Ma non è esatto.
Questa terza iscrizione che non esiste più, è così riferita in vari scritti:
«Magister Benedictus Perusinus me fecit, anno MCCCCXXIIII».

L’anno è quindi il 1424.

Le Riforme, nel III codice, riferiscono circa la questione sorta per il restauro della fontana e la somma stanziata, di duecentocinquantaquattro ducati e nove bolognini, consegnata allo speziale Battista Nardi, ciò «prova che i lavori furono radicali, tanto che nell'epigrafe si scrive “Benedictus me fecit”. Forse fu rifatta la scalinata, la vasca inferiore ed il fusto e sulle fistole delle cannelle inferiori, di metallo, furono incisi gli stemmi Gatti e Orsini», questo secondo Attilio Carosi, nel suo libro sulle epigrafi viterbesi.

Il restauro, infatti, consistette nel rifare il gran tronco della colonna sostenente le due tazze superiori, scolpendovi «quattro teste de leoni da gictare tutta l’acqua, e rifacendo tutta la vasca [a forma di croce] inferiore».

Partecipò alla spesa anche il papa Martino V. Le fistole in piombo sono del secolo XV, in esse si vedono impressi gli stemmi della famiglia guelfa dei Gatti, degli Orsini e del Comune di Viterbo. Per pura curiosità riferisco una memoria del cronista Niccolò della Tuccia, quando ricorda che per la Festa del Corpus Domini del 1462, fu realizzata in Piazza del Comune «una fontana piccolina come la fonte del Sepali, che gittava vino».

Il 24 Settembre 1640 dai conservatori fu concesso, ai frati del Convento di santa Maria delle Fortezze, un’oncia d’acqua dalla conduttura della fontana, altra concessione fu fatta il 16 Settembre 1699.

In un manifesto, datato 28 Aprile 1689, dal governatore e dai conservatori venne ordinato ai Mastri di Strada, ossia coloro che dovevano curare lo stato delle strade «dentro e fuori della Città di Viterbo», di «rivedere gli Acquedotti, e partitori della fonte del Sipale, e provedere, che siano rimessi nel modo che erano prima, e trovando, che siano state allargate le cratelle, le facciano quanto prima rimettere et accomodare, e bisognando le faccino rinovare, accioche non si possano più allargare, et esseguire con ogni diligenza tutto quello che spetta all’ufficio loro».

In una nota del 1784, a firma dell’architetto Domenico Lucchi, risulta che Fontana Grande alimentava la «Fontana pubblica di Piazza dell’Erbe, Fontana del Cortile del Palazzo Conservatoriale, Fontana della Piazza del Mercato vecchio detta del Gesù, Fontana della pubblica Strada detta Muccichello».

Ultimi cambiamenti, su disegno dell’architetto Francesco Lucchi, furono eseguiti nel 1827 nella parte inferiore del tronco, grazie all’opera dello scalpellino Giuliano Tortolini che, in data 5 Settembre 1827, fu pagato con cinquantasei scudi.

Come si vede dalla stampa in rame della fontana, inserita nella Istoria della Città di Viterbo di Feliciano Bussi (1679 - 1741), furono sostituite alla coppia di busti e alla coppia di leoni esistenti, altrettante piramidi con inciso nella mezza sfera il motto anniano: F A V L. Le quattro lettere, in quel momento, per porle in risalto furono dipinte di nero.

A tal proposito, Luca Ceccotti scrive che il cambiamento avvenne dieci anni prima, nel 1817, ciò secondo quanto gli avevano riferito i nostri vecchi, quando fu rifatta la colonna centrale ed i «quattro busti o gatti rampanti, verisimilmente, come il Nobile Sig. Liberato Liberati, ricordava di aver l’Orioli già asserito essere in origine».

Forse i vecchi non gli avevano riferito bene, perché anche padre Pio Semeria (1767 - 1845), nelle Memorie, riporta:
«Nell’anno 1827 fu quasi intieramente scomposta la fontana grande, per accomodarla: il lavoro fu incominciato e terminato nei mesi di luglio e agosto», in tale occasione fu stilata una iscrizione riportata dal Semeria stesso.

In una relazione del 1836, dell’architetto Francesco Lucchi, risulta ancora che Fontana Grande alimentava le fontane: di piazza del Gesù, di Piazza delle Erbe, del cortile del Palazzo Apostolico, del Palazzo Chigi, della Canonica di sant’Angelo e del Palazzo Calabresi.

Poi, specifica meglio:
«Dalla tazza maggiore oltre l’acqua che immette ai quattro braccioli della stessa fontana, viene anche somministrata a due condotture, una che porta l’acqua alla fontana del Gesù, e l’altra allo spartitore detto dello Spirito Santo sulla Via del Melangolo. 

Il sopravanzo dopo l’uso pubblico della pila grande mediante fistole di metallo viene diviso fra le fontane di Sanmoccichello, il convento dei RR. PP. Carmelitani scalzi, la fontana del Palazzo comunitativo, il Palazzo Liberati che fa prima mostra al Palazzo Especo, ed il pubblico beveratojo: Il sopravanzo di questo spetta alla Casa della Sig.a Francesca Ramoni Manzanti in Via Macel maggiore. L’acqua che scola intorno la gradinata della fontana raddunata da canale di peperino è devoluta al Palazzo Polidori una volta Bruggiotti».

Il 28 Ottobre 1839 Giovanni Massarelli, fontaniere, ricevette il compenso per alcuni restauri eseguiti alla fonte, alle colonne che la circondavano e per la costruzione della nuova fontanella annessa alla fontana.

Vincenzo Zei, nel 1858, eseguì alcuni restauri alla fontana, rifece, tra l’altro, alcuni gradini, due colonne della recinzione, sostituì delle lastre di peperino attorno alla fontana, «Pulite al vivo le bocche delle teste dei leoni da cui partono i braccioli di bronzo e tornate a ristuccare con mastice di olio di lino per impedire la disperzione dell’acqua», «Trasporto dello sterro al fossato della Rocca con 12 viaggi di carretto a cavallo».

Alcune parti della vecchia fontana, un pinnacolo ed una colonna per la distribuzione dell’acqua, sono conservate nel Museo civico, un altro pinnacolo è su un pianerottolo lungo la scala che conduce ai piani superiori del Palazzo della Prefettura.

Circa il nome della fonte, Fons Sepalis è chiamata così sullo Statuto di Viterbo del 1237, nel ‘400 fu chiamata Gattesca e nelle Riforme n° 23 all’anno 1486, alla carta 161, è detta volgarmente del Soparo.

Il nome Fontana Grande si trova alla fine del XV secolo, ne fa fede il protocollo notarile di Tommaso d’Andrea sotto la data 11 Maggio 1483, ove è ricordata una casa ubicata in Contrada Fonte grande. Anche nei Ricordi dei priori, di Marzo ed Aprile del 1488, trovo, «una bulletta per la Fontana Grande».

Solo il 28 Giugno 1565, comunque, tale nome compare ufficialmente in un elenco delle fonti della città.


Responsabili delle fontane

Il 28 Giugno 1565, dal Consiglio comunale furono decise alcune disposizioni; infatti, vennero, eletti i responsabili delle fonti della città nelle seguenti persone:

Lucantonio di Bel Passo, per la fonte di santa Maria in Poggio;
mastro Tomasso orefice, per la fonte di san Giovanni;
Giovanni di Pellegrino, per la fonte del Bottaone [Bottalone];
Orazio di Gioia, per la Fontana Grande;
Rinaldo della Maddalena, per la fonte di san Leonardo;
maestro Giovannangelo di mastro Lazzaro, per la fonte di san Pietro dell’Olmo;
Cecco di Leonardo, per la fonte di sant’Erasmo a Porta san Pietro;
mastro Domenico Croco, per la fonte presso il Monastero della Duchessa;
Domenico di Casata, per la fonte di san Pellegrino;
Antonio di Monaldo, per la fonte di san Salvatore;
mastro Dario Petrocchi, per la fonte di san Tommaso;
mastro Francesco Tignosini, per la fonte di san Lorenzo;
Bastiano di Santi, per la fonte di Pianoscarano;
Luca di Chirichera, per la fonte di Capo Grosso;
Giovanbenedetto delle Balestre, per la fonte della Mazzetta;
mastro Angelo Farolfi, per la fonte di san Silvestro;
mastro Domenico Fringuelli, o Franguelli, per la fonte di santo Stefano;
i deputati per la Cappella di ser Nuto, per la fonte di san Faustino;
Livio Brigidi, per la fonte di san Niccolò delle Vascelle.


Era fatto obbligo ai soprascritti di «mantener le fonti ben nette e ben acconce, talmente che sempre buttino acqua abbondantemente e fare assettare le fonti et i condotti secondo che sarà bisogno».

Era, poi, obbligatorio imporre una imposta a tutti coloro che si avvalevano dell’acqua delle fontane. 
Chi lavava «bruttura alcuna», gli erbaggi, i vestiti nelle fonti o le sturasse, veniva punito con due giulij a persona e per ogni volta che commetteva l’infrazione.

La pena poteva essere aumentata, secondo la gravità del danno.


Fontana Grande è formata da una vasca a croce greca da cui si leva una colonna che sorregge due coppe sovrapposte quadrilobate, quella sottostante è più grande dell’altra, quest’ultima lascia ricadere l’acqua nella coppa inferiore grazie a quattro testine di leone.

Tutto lo slancio architettonico della fontana termina con un pinnacolo caratterizzato da un doppio ordine di foglie di acanto dalla cui sommità esce uno zampillo d’acqua.

Fino agli inizi del secolo XX sulla coppa grande erano inseriti quattro cannelli curvati verso l’interno che gettavano acqua. Furono poi tolti ed oggi, a malapena, al loro posto si vedono deboli getti d’acqua.

Il tutto è reso più elevato da una serie di quattro alti gradini e da un incasso per la raccolta delle eventuali acque uscite per scolo, che circondano la fontana.

Sulla colonna sono scolpite quattro grandi teste di leone dalle bocche delle quali escono cannelli, a sezione quadra sorretti a metà, per rompere la tratta, da una colonnina che a sua volta porta una piramide con la sigla FAVL in una semisfera.

I lunghi cannelli metallici terminano con un muso di animale da cui esce l’acqua, sembrano essere musi di leoni e lupi, ed hanno altre quattro uscite d’acqua laterali caratterizzate sempre da musi di animali, per lo più leoni. Sui cannelli sono incise varie decorazioni, tra cui lo stemma di Viterbo e gli emblemi delle famiglie Gatti e Orsini.

Il parapetto è ornato a specchiature rettangolari. Probabilmente in origine l’acqua fuoriusciva direttamente dalle bocche dei leoni scolpiti sul fusto della fontana.

Gotica negli ornamenti, nello slancio costruttivo e nella cuspide terminale, ma romanica nella struttura. All’occhio che l’ammira crea un senso di robustezza ed esilità rare a trovarsi così armoniche tra loro.

Interessante è il fatto che l’acqua, che alimenta la fonte, proviene ancora oggi, come nel Duecento, da un acquedotto romano, esistente al di là del Convento di santa Maria Gradi.

L’acquedotto è scavato sottoterra per una lunghezza di 5950 passi, quasi sei miglia romane, circa nove chilometri, e per la larghezza di dieci piedi. 

Fu costruito, in quel luogo, dal console Mummio Nigro Valerio Vegeto, nei primi anni della seconda metà del I secolo d. C., per condurre le acque alla sua Villa Calvisiana, posta sull’antica Cassia alla stazione delle Acque Passeriane, Acquae Passeris, tra il Bagnaccio e Montejugo, a circa cinque chilometri da Viterbo.

Lo attesta un’iscrizione romana rinvenuta, il 18 Gennaio 1640, da Bernardino Carelli e da Pier Francesco Bussi, presso la Chiesa di santa Maria in Gradi, ove è la sorgente.

Nelle Riforme comunali è così riferito in merito:
«Vedendosi che l’acqua della fonte del Sipali, detta volgarmente la fonte grande, con tanto artificio e spesa fabricata, era da certi anni in qua’ assai mancata, e non trovandosi memoria alcuna dell’origine, e della botte principale di quella per potere vedere il difetto, ma havendosi solamente notizia delli condotti di detta acqua, dalla fonte al Citerno vicino al portone del Convento di Gradi, senza sapersi più dove, gli Ill.mi Signori Conservatori con l’opera e con la diligenza delli medesimi Ill.mi Signori Colonnello Bernardino Carelli e Pier Francesco Bussi, a tale effetto deputati, seguitando il corso del condotto tutto di pietra, lo fecero tastare dieci passi lontano dal Citerno per linea diretta luogo e vicino il muro dell’horto di detto convento, nel quale si vede in una pietra intagliata una Croce e vedendosi che il condotto voltava a mano dritta verso l’oliveto vicino livellario delle Monache di S. Domenico posseduto hoggi da Orlando Mariani [Cristofori legge Morioni], che sta incontro a’ detto horto del Convento, e confinante con la stradella mediante la porta e muro suo, si fecero tre tasti dentro al medesimo oliveto; e nella parte di quello verso la montagna, una piccha sotto terra, e più, si scoprì un massiccio di muro antico, et essendo stato rotto si ritruovò un gran bottino fatto di muro con pietre sovraposte a’ padiglione alto palmi […] largo palmi […] e lungo palmi ottantacinque, nel quale si vide l’acqua corrente entrare in un condotto, che fu riconosciuto essere quello appunto quello che andava alla fonte predetta del Sipale; et ivi essere la botte principale di detta acqua con l’origine sua.

Perche nel medesimo bottino a’ mano destra si videro cinque altri bottini della medesima fattura, altezza, larghezza e lunghezza che conducevano l’acqua, nascente tra quelle pietre, alla botte o bottino principale; eccetto i due primi che si trovarono asciutti sebbene si conobbe che l’acqua vi era di fresco caminata. 
E’ stato fatto il tutto con molto artificio e spesa; e nel primo bottino delli cinque predetti si trovarono nella parte destra due pietre grandi incastrate con lettere antiche in forma di epitaffi, assai rose, e consumate dal tempo e dall’humidità; e con grande fatica si poterono leggere le parole sottoscritte; cioè nella prima pietra dalla parte di sopra verso il fine del bottino si leggevano in principio, e seguitavano le seguenti parole. Mummius Niger Valerius Vichius Consules Civitatis Viterbii Aquam Collis Quintiani... Ann. D. CCCC. LI».

Oggi quell’epigrafe è nel corridoio del chiostro del Museo civico, è assai danneggiata perché era posta sulla controfacciata della Chiesa di santa Maria della Verità che fu abbattuta dai bombardamenti aerei del 1944.

L’iscrizione riferisce secondo il Corpus Inscriptionum Latinarum e altri lettori:
Mummius Niger / Valerius Vegetus consular(is) / aquam suam Vegetianam qui [trovo anche, «quae» o «que»] / nascitur in fundo Antoniano / maiore P. Tulli [Orioli e Semeria leggono «Julii»] Varronis cum eo loco / in quo is fons est emancipatus duxi(t) / per millia passuum VDCCCCL in vil / lam suam Calvisianam, quae est / ad Aquas Passerianas suas, compara / tis et emancipatis sibi locis itineri / busque eius aquae a possessoribus / sui cuiusque fundi, per quae aqua / s(upra) s(cripta) ducta est, per latitudinem structu / ris pedes decem, fistulis per latitudi / nem pedes sex, per fundos Antonian(um) / maiorem ed Antonianum minor(em) / P. Tulli Varronis et Baebianum et / Philinianum Avilei Commodi / et Petronianum P. Tulli Varronis / et Volsonianum Herenni Polybi / et Fundanianum Caetenni Proculi / et Cuttolonianum Corneli Latini / et Serrarum inferiorem Quintini / Verecundi et Capitonianum Pistrani / Celsi et per crepidinem sinisterior(em) / viae publicae Ferentiens(is) et Scirpi / anum Pistraniae Lepidae et per viam / Cassiam in villam Calvisianam suam / item per vias limitesque publicos / ex permissu S(enatus) c(onsulto).

E’ così tradotta sulla Gazzetta di Viterbo del 12 Agosto 1876:
«Mummio Negro [trovo anche «Nigro»] Valerio Vegeto uomo consolare [o «governatore provinciale»] l’acqua sua Vegeziana, che nasce nel fondo Antoniano maggiore di Publio Tullio Varrone, avendola acquistata in piena e libera proprietà fin dal punto della scaturigine, ha condotto pel tratto di 5950 passi nella sua villa Calvisiana, la quale è presso le sue Acque Passeriane, avendo comprato ed affrancato i luoghi e le strade pel passaggio della detta acqua dai possessori dei singoli fondi, attraverso i quali l’acqua stessa è stata condotta, mediante un manufatto della larghezza di dieci piedi, con un vano intero di sei piedi, per i fondi Antoniano maggiore ed Antoniano minore di Publio Tullio Varrone, e Bebbiano [o «Bebiano»] e Feliniano di Avillo [o «Filiniano di Avileo»] Commodo, e Petroniano di Publio Tullio Varrone, e Volsoniano di Erennio Polibio, e Fundaniano [o «Fondaniano»] di Cetennio Proculo, e Cuttoloniano [o «Cottoloniano»] di Cornelio Laziale [o «Latino»], e Serrano inferiore di Quintinio Verecondo, e Capitoniano di Pistranio [o «Pistrano»] Celso, e per il margine sinistro della pubblica via Ferentana, e per il fondo Scirpiano di Pistrania Lepida, e per la via Cassia nella sua villa Calvisiana, non che per le vie ed altri luoghi pubblici, avendone ottenuto il permesso mediante un decreto del Senato».

Le leggere modifiche di interpretazione, nelle parentesi quadre, sono dovute ad Augusto Gargana nell’articolo uscito sul Bollettino municipale, in cui riferisce tra l’altro:
«Della iscrizione un secondo esemplare, in cattive condizioni di conservazione, fu lasciato, al tempo della scoperta, nel bottino principale; ed un terzo, frammentario, fu rinvenuto nel 1934, durante i lavori di apertura di Via Littoria, nei pressi della Chiesa di S. Maria della Salute».
Un foglio scritto da Francesco Orioli, che possiedo nella mia raccolta, riferisce in merito all’iscrizione: «Io sceso a cercarla nella (e)state del 1824 insieme con Pio Semeria, Luigi Anselmi e Stefano Camilli, la trovai tutt’ora murata nell’antico suo posto sotto una vigna presso il Convento di S. Maria ad Gradus, e dopo tre giorni di continuate communi ispezioni, così potei finalmente copiarla con qualche speranza d’esser stato fedelissimo trascrittore», e riporta l’epigrafe assai fedelmente.

Poi continua:
«Poco lungi dal primo sasso [ove è incisa l’iscrizione di cui sopra, che l’Orioli riporta completamente] è un secondo uguale contenente la stessa epigrafe, o almeno analoga ma notabilmente più danneggiata dal tempo giacché vi si legge solamente: ... sis et Scirpi ... straniae Lepidae - et per viam Cassiam in villam suam - Calvisianam item per vias limit ... - que publicos ex permissu».

Verso il 1825 Pio Semeria, nelle sue Memorie, dopo aver trascritto l’epigrafe, scrive:
«[La lapide si trova] Nel bottino dell’acqua della Fontana Grande. Le lapidi sono due; ma una è copia dell’altra. Questa iscrizione fu letta nell’Ottobre dell’anno 1824 dal Sig. Luigi Anselmi e dal raccoglitore di queste memorie, e compitamente anche dal Sig. Orioli, che sopraggiunse, quando l’iscrizione si leggeva già quasi intieramente».

Fontana Grande fu tanto celebrata che, senza dubbio alcuno, valse a Viterbo la fama di città dalle belle fontane; il gaio popolo toscano la ricorda negli stornelli di amore con queste parole:

«E sete la più bella mentovata
più che non è di Maggio rosa o fiore
più che non è d’Orvieto la facciata
o di Viterbo la fonte maggiore».

Eugenio Sarzana scrisse (1783) che la fontana «è piacevole maraviglia a tutti i Passeggieri».

Una copia della fontana, in dimensioni ridotte uno a quattro, ma considerevoli, fu scolpita su peperino per la Mostra etnografica tenuta a Roma nel 1911. Una foto di quell’anno fissa l’immagine della fontana presso Castel sant’Angelo.

Ne furono esecutori i fratelli viterbesi Ermanno e Giovanni Pizzichetti, scalpellini ornatori, diretti da Alfredo Maggini, mentre la pietra necessaria per la realizzazione, fu cavata da Luigi Anselmi alle Pietrare.

Maggini, già nel 1925, aveva la sede in Via Garibaldi n° 10 ed il laboratorio fuori Porta Romana. Così pubblicizzava la sua attività:  Laboratorio marmi e pietre con potenti macchinari elettrici, premiato con medaglia d’oro alla Mostra di Roma.

Gli esecutori della fontana ricevettero un premio, poi la fonte fu venduta a poche lire ad un notaio ebreo che la collocò nella sua villa ai Parioli. Il notaio, in seguito, riuscì a venderla al Ministero della Pubblica Istruzione che poco dopo la donò a Rodi, dove è tuttora davanti al Porto di Mandraki, ove si innalza la Cattedrale di san Giovanni dei Cavalieri.

In un articolo Giorgio Falcioni riferisce che a scolpire la «piccola» Fontana Grande fu lo stesso Alfredo Maggini coadiuvato da Ilario Antonioli e da Giuseppe Guerra, quest’ultimi, forse, sbozzatori.

In un recente acquisto che ho fatto, si vede in una stampa della metà dell'800, che la fontana ha gli stemmi dei Gatti scolpiti attorno alla vasca grande superiore, oggi quegli stemmi non ci sono più, sono però rimasti a testimonianza gli incavi che li contenevano, forse erano di metallo.

Vicino alla fontana è una fontanella, come ho già scritto, eretta nel 1839, ricavata su una colonnina in peperino che getta acqua in una vasca svasata con bordo arrotondato.

Fontana Grande, fino al 1921, era circondata da una serie di colonnine unite da barre di ferro che avevano lo scopo di proteggerla. Queste furono sostituite con degli «scansaruote di riparo».

Mauro Galeotti
dal mio libro "L'illustrissima Città di Viterbo", Viterbo 2002

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