Viterbo STORIA La piazza delle Erbe era uno dei luoghi deputati alle attività di mercato
di Vincenzo Ceniti, console del TCI per Viterbo

Viterbo, Piazza Fontana Grande col mercato alla fine dell'800
al centro si intravede la Chiesa di san Domenico.

(foto Lorenzo Tedeschi dalla sua abitazione, archivio Mauro Galeotti)

Nella Viterbo medioevale i terreni circostanti la cinta muraria erano destinati a vaste coltivazioni: non solo vitigni, oliveti, grano e ortaggi, ma anche canapa e lino di qualità.

Il carovita degli ortaggi ha favorito negli ultimi anni anche a Viterbo il recupero di un’attività orticola che vede impegnati “novelli” contadini alle prese con piccoli appezzamenti per la coltivazione di pomodori, insalate, melanzane, fave, patate…  se non addirittura di vigne e oliveti.  
I precedenti, sul piano dei ricordi personali, risalgono agli anni della seconda guerra mondiale con gli “Orti di guerra” ricavati e disciplinati a ridosso delle abitazioni in cortili e spiazzi sottratti ad occasionali e sparuti parcheggi.  

Ma se andiamo indietro nel tempo, ad esempio nel Medioevo, ci rendiamo conto che i nostri antenati viterbesi facevano di quella orticola un’attività prevalente che serviva al sostentamento delle famiglie.  

Molti abitanti della civitas medievale uscivano al mattino dalle porte delle mura per accudire ai campi esterni o ad altri lavori agricoli e farne ritorno al tramonto.

A ridosso della cinta muraria si estendevano gli orti, le vigne, gli oliveti e le coltivazioni di lino e canapa. Gli appezzamenti orticoli erano tuttavia presenti anche all’interno delle mura negli spazi tra i vari raggruppamenti abitativi. Senza considerare l’hortus conclusus di abbazie e monasteri dove i monaci ortolani producevano ortaggi e frutta per le necessità della comunità. Nelle stagioni favorevoli la produzione orticola, sia esterna che interna alla città, era in sovrabbondanza rispetto alla quotidiana sussistenza e, quindi, destinata alla commercializzazione.

La piazza delle Erbe era uno dei luoghi deputati alle attività di mercato. In aree più distanti dalle mura si distendevano i campi di seminativo a grano, miglio o segale chiazzati qua e là da alberi di olivo la cui diffusione tuttavia non era intensa come oggi. Dai paesi limitrofi, gravitanti nella giurisdizione di Viterbo (nel versante dei monti Cimini), venivano abbondanti quantitativi di castagne usate per la produzione di farina, provvidenziale alimento in alternativa alle scorte di granaglie.

Gli orti erano prevalentemente concentrati negli spazi esterni tra porta Romana e porta del Carmine, ben dotati di acqua per i numerosi torrenti  che scendevano dai Cimini: Sonza (Urcionio), Mazzetta, Pila, Elce ecc. I vigneti rappresentavano una delle colture più pregiate ed i vini, in una civiltà povera di bevande alternative, avevano un largo commercio. Le statistiche del tempo parlano di  un consumo pro-capite di un litro al giorno. Si deve però considerare che la gradazione alcolica era piuttosto bassa: la bevanda serviva quindi più a dissetare che a produrre “calore”.

Secondo alcuni documenti dell’epoca, le vigne erano per lo più localizzate in contrada le Farine. Gli statuti del 1251 prevedevano pene severe (mutuate dagli ordinamenti germanici) per chi danneggiava i vigneti. Si arrivava anche all’amputazione di ambo le mani.

Nella piana termale, ad ovest della città, si registrava invece una fiorente coltivazione di lino e canapa.

A primavera i campi erano inondati dei fiori azzurri degli steli del lino (come annota Pio II nei suoi Commentari) che garantivano al paesaggio una rara gradevolezza. Nel periodo del raccolto (luglio-agosto) si scorgevano nella zona lunghe teorie di donne (le cosiddette “pettatrici”) che agli ordini del “pisciarolo” mettevano a macerare le piante nelle vasche intorno alle sorgenti del Bulicame e del Bagnaccio.

Spettava, poi agli “scotolatori” (la scotola era un coltellaccio di grandi dimensioni) il delicato compito di separare il fusto dall’anima fibrosa delle piante. Il lavoro di questi abilissimi artigiani era talmente prezioso ed utile (a loro Viterbo ha addirittura dedicato una piazza nel quartiere storico di Pianoscarano) che le autorità del tempo autorizzavano la lavorazione notturna anche all’interno della città, normalmente vietata per evitare gli incendi.

Il lino di Viterbo era di altissima qualità, al pari di quello pregiatissimo di Napoli, ed alimentava un commercio molto redditizio. Venivano da ogni parte d’Italia per acquistarne cospicui quantitativi. La coltivazione della canapa è stata attiva a Viterbo fino agli anni Cinquanta-Sessanta del secolo scorso prima di essere soppiantata da prodotti sintetici. La presenza delle “pettatrici” deve aver incuriosito anche Dante che ne parla nel XIV Canto dell’Inferno.

Vincenzo Ceniti

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