Viterbo STORIA Il Gran Caffè Schenardi, di buon lignaggio quattrocentesco, era l’insostituibile punto di riferimento per le idee
Vincenzo Ceniti, Console Viterbo del Touring Club

Il Gran Caffè Schenardi negli anni '70

In attesa che il Gran Caffè venga riaperto, ricordiamo gli appuntamenti nello storico locale di Viterbo degli anni Cinquanta-Sessanta quando era animato dagli “Amici del Sabato sera” guidati dal gestore Renzo Javarone.

Il Gran Caffè Schenardi di Viterbo, di buon lignaggio quattrocentesco, era l’insostituibile punto di riferimento, non solo per la circolazione delle notizie, ma anche per le idee che vi covavano, tanto che la pagina locale del Messaggero gli intitolava una rubrica (“Davanti a Schenardi”) dove erano riunite informazioni utili, come farmacie di turno, spettacoli, forni aperti, confetti, lutti, culle ecc. 

Qualche ricordo, ancora duro a morire, mi riporta alla fine degli anni Cinquanta del secolo scorso, quando dietro al banco della cassa sedeva un personaggio eclettico, amato e non amato, come Renzo Javarone che gestiva il Caffè insieme al fratello Celestino. E quando dietro al banco “operativo”, tra vapori di caffè, liquori , tazzine e bicchieri si muoveva,  con professionalità e cortesia il simpatico Arduino, uno dei barman ufficiali, svelto in tutto, specialmente nel  preparare i  cocktail. 

In quegli anni si andava da Schenardi per le quattro chiacchiere serali, per l’aperitivo, per giocare a biliardo, per vedere da vicino le soubrette che scendevano al Teatro Unione nelle acclamate riviste dell’epoca (ricordo la storica “Davanti a lui tre-Nava tutta Roma”), per curiosare tra la squadra archeologica del re Gustavo VI Adolfo di Svezia impegnato insieme alla nipote Cristina, l’ammiraglio Wetter e uno stuolo di ricercatori negli scavi a San Giovenale e Acquarossa, o per stringere la mano all’”Americano”, ovverosia  Alberto Sordi protagonista  nel 1960 de “Il vigile”, in gran parte girato a Viterbo con comparse locali fra cui il sottoscritto (paga di 4.500 lire a giornata).

Ricordo che Alberto Sordi ci venne a trovare al Palazzaccio dove stavamo provando, sotto la regia di Alberto Corinti del Gad Le Maschere, “L’albergo del Buon Riposo”. Oltre al sottoscritto c’erano Paola Ceniti, Paola Leoncini, Orlando Araceli, Franco Mattioli, Flora Errera, Rino Galli, Giancarlo Iacovelli, Luciano Ilari e molti altri.

Ricordo anche le feste della matricola, presiedute  dal “Magnifico Palletta” di Gradoli (fuori corso a vita), che spesso si concludevano con un aperitivo da Schenardi a spese del neo-patentato. Allora si andava all’università con picchi di colori diversi a seconda del tipo di facoltà. Rosso per Medicina, nero per Architettura, ciclamino per Economia e Commercio e così via.

Le  malcapitate matricole venivano sottoposte alla gogna di un rituale di iniziazione burlescamente, quanto cinicamente ordito dai “senatori” per il rilascio dell’agognato “Papiro”, provvidenziale lasciapassare negli atenei romani per evitare guai maggiori. Il Gran Caffè era tutto questo ed altro. 

Nel 1960 accadde qualcosa di nuovo, grazie alla mente vulcanica di Renzo Javarone allora quarantenne (per gli amici il “gojo”), che si inventò la fiaccola etrusca da unire a quella ufficiale per la XVII Olimpiade di Roma dell’agosto-settembre di quell’anno. 

Ma andiamo con ordine.

Javarone era una miniera di idee - tutte scodellate nel solo intento di promuovere la sua Viterbo -  che in quegli anni mal si conciliavano con la compassata e prudente politica locale guidata dal sindaco Domenico Smargiassi (aveva le sue con l’irrequieto consigliere Annibale Salcini), dal presidente della Provincia Ferdinando Micara (alla guida anche della Camera di Commercio), dal Prefetto Alberto Novello, dal presidente dell’Ept Giuseppe Benigni e da altri i cui nomi ora mi sfuggono.

Fu gioco facile per Javarone pensare alla fiaccola etrusca. Aveva il re di Svezia a portata di mano e si faceva forte della notizia che nelle campagne di Orebro era stato occasionalmente rinvenuto un bronzo etrusco (oggi al museo Mediterraneum di Stoccolma) a testimonianza dell’espansione commerciale dell’antico popolo dell’Etruria nei Paesi del nord Europa. Esportavano vasellame in Scandinavia e da lì gli etruschi importavano l’ambra.

Tutto questo convinse Javarone e gli “Amici del sabato sera”, da lui stesso costituiti, ad organizzare il viaggio di una fiaccola etrusca da Tarquinia a Roma con il coinvolgimento di alcuni centri etruschi dell’Etruria. 

Ne aveva parlato con l’amico Orio Vergani (quello del “Campanile che cammina”) che si manifestò entusiasta dell’idea. Javarone mise d’accordo il diavolo con l’acqua santa, i democristiani con i comunisti, i creduli con gli increduli, i viterbesi con i non viterbesi, e riuscì nel suo intento.

Il singolare trofeo, che non aveva un valore sportivo ma che simboleggiava la civiltà pre-romana nel nome  dell’Etruria,. partì dall’Ara della Regina di Tarquinia (sindaco Bruno Blasi) alla volta di Roma il 16 agosto 1960 dove arrivò per accendere il fuoco della fiaccola olimpica sul Campidoglio. In precedenza, dal 16 al 30 luglio, il trofeo attraversò una  quindicina di comuni etruschi dell’Etruria meridionale tra cui Tuscania, Barbarano Romano, Blera, Sutri, Viterbo, Civita Castellana, Bracciano, Civitavecchia e Cerveteri. La fiaccola viaggiava su una jeep militare e in prossimità dei centri abitati veniva portata dagli atleti del posto.

A Viterbo la fiaccola giunse il 22 luglio 1960. Venne consegnata al primo dei tedofori in piazza Fontana Grande. Percorse tutto il centro cittadino fino all’inizio di via Francesco Baracca; qui fu riposta sulla jeep e di nuovo consegnata al tedoforo a poche centinaia di metri dal Teatro di Ferento dove fece il suo ingresso trionfale intorno alle 21,30.

Sugli spalti (1300 persone) sedevano le massima autorità del posto e come ospite d’onore l’ambasciatore statunitense a Roma J. D Zellerbach, in precedenza personalmente contattato da Javarone. Tra i giornalisti c’erano gli inviati dei principali quotidiani nazionali (Corriere delle Sera in testa) e del New York Times. Seguì uno spettacolo di “Balletti etruschi di Villa Giulia”. Dopo la cerimonia di Ferento, a notte fonda, la fiaccola tornò a Viterbo, dove accese un tripode a piazza del Plebiscito che arderà fino all’alba, per poi proseguire la mattina seguente alla volta di Civita Castellana.

La presenza dell’ambasciatore Zellerbach fu l’occasione per stringere rapporti tra la confederazione etrusca e quella statunitense che crearono le premesse per un gemellaggio auspicato dallo stesso Javarone. L’iniziativa non ebbe però gli esiti sperati.     

Curiosità.

A cerimonia terminata la “fiaccola” venne portata a Losanna dove si dovrebbe trovare tuttora. Il presidente del Comitato di Viterbo era Ferruccio Gatta. 

Il presidente del Comitato d’onore della fiaccola era Giulio Andreotti. Le attività promozionali e di stampa vennero svolte dall’Ente Provinciale per il Turismo di Viterbo col presidente Giuseppe Benigni e il direttore Michele Ceniti (mio padre). Le mani nerbute che impugnavano la fiaccola nel manifesto ufficiale appartenevano all’impiegato dell’Ept, Fausto Cavalloro. 

Vincenzo Ceniti
Console Viterbo del Touring Club