Viterbo STORIA “Casino”, sinonimo di confusione, disastro, imbroglio, abbondanza

 

Via del Bordelletto, oggi Via dei Magazzini

Casino? Non ci riferiamo a quello che succede ogni giorno nella nostra città, ma alle due “case chiuse” che operavano in una Viterbo bigotta e conformista fino al 1958 quando la legge Merlin le abolì.

“Casino”, sinonimo di confusione, disastro, imbroglio, abbondanza. La parola è oggi nel linguaggio comune, specialmente tra i più giovani, pronunciata con disinvoltura e leggerezza. Non è escluso che presto entrerà ufficialmente nei vocabolari della lingua italiana.

E pensare che fino a qualche decennio fa “casino” era una parolaccia, da non pronunciare e chi lo faceva passava per rozzo e ignorante. Perché? Perché voleva dire sesso proibito, case di piacere (chiuse o di tolleranza),  lupanari, bordelli, postriboli, “signorine” e maitresse,  termini, tutti, evocati nell’indimenticabile film di Mario Bolognini (1959) “Arrangiatevi” con Totò e Peppino De Filippo uscito all’indomani di qual fatidico 1958, quando la legge Merlin fece chiudere in Italia i bordelli di Stato.

Sfogliando una vecchia rivista Tuscia del 1991 (preziosa miniera di informazioni e curiosità  edita dall’allora Ept) leggo un delizioso articolo di Tina Biaggi – una delle prime donne giornaliste della nostra provincia -  dal titolo intrigante  “Quando Viterbo tollerava” . In effetti la “città dei papi” tollerava due “case” una in via Cacciamele (vicolo “affluente” di via Mazzini), ed una in via Valle Piatta, quella che da Via Ascenzi accanto alla chiesetta della Salute, sfocia a valle Faul presso la chiesa della Maddalena.

La seconda aveva una categoria superiore rispetto all’altra, dovuta ad un arredamento più raffinato e soprattutto alla “qualità” delle signorine. Di conseguenza si pagava di più, con tariffe che superavano le comuni 200 lire post guerra, a prestazione. Ecco le colorite declinazioni: “sveltina, normale. mezz’ora, un’ora”.

Dicevamo dell’arredamento. Era piuttosto pacchiano, con divani consunti, raffigurazioni eccitanti dipinti anche sui muri, un banco accettazione dove agiva la maitresse (di solito “fuori servizio” per l’età), il tariffario delle prestazioni con prezzi rapportati al tempo di “consumo”, una radiolina che diffondeva musiche soft. Fuori dell’ingresso era piazzato un logoro vespasiano per la minzione preparatoria.

In quanto alle signorine, che cambiavano ogni quindicina, si facevano largo servette, sartine, commesse, orfane, contadine, figlie di famiglie numerose provenienti, tutte, dai ceti sociali più bassi. Sapevano essere bonarie e materne nei confronti degli sbarbatelli alla prima prova Abbigliamento da avanspettacolo fatto di veli, reggicalze nere, vesti con ampi spacchi.e tacchi a spillo.

Ricordo che fuori della porta di accesso, sulla strada, in alcuni momenti della giornata s’adunava una folla di minorenni (per entrare occorrevano 21 anni) che sospiravano tra schiamazzi e risate il raggiungimento della maggiore età. Spesso ci pensava la polizia a diradare lo sciame con minacce di arresti.

E i clienti? Soprattutto militari e giovani desiderosi delle prime esperienze amorose. Per disinibirsi dicevano “la mia fidanzata non me la dà e allora vengo qua”. Ma anche attempatelli di ogni ceto alla ricerca di quelle emozioni che le povere mogli non erano più in grado di garantire. In questo caso si aggiravano per via Cacciamele e via Valle Piatta con maggiore circospezione e cautela per non essere visti e riconosciuti.

Oggi quelle “case” sono da tempo tornate alla normalità e ben pochi hanno memoria della loro destinazione che, considerati i tempi in cui viviamo, ci fa solo melanconia e tenerezza.

Vincenzo Ceniti

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