Viterbo Via della Pace nel 1890 circa sul fondo Palazzo Michelucci distrutto dai bombardamenti del 1944 (Archivio Mauro Galeotti)

Umberto Laurenti

Sono nato a Carbognano e vivo da cinquanta anni a Roma, ma mi sento soprattutto viterbese, perché i miei primi diciannove anni, quelli che pare siano i più belli, li ho vissuti a Viterbo in via della Pace.

Ad essere sincero, non mi sono mai chiesto, allora, perché la via si chiamasse così: è vero che alla fine della via c’era e c’è la chiesa di S. Maria della Pace, ma chiusa da un secolo ed adibita a magazzino-deposito dei pezzi della Macchina di S. Rosa, non ha mai suscitato il mio interesse e del resto la prosecuzione di via della Pace si chiamava e si chiama via della Verità, e vicinissima c’è via della Quiete! Una zona tranquilla, insomma, perché farsi tante domande?

Ma a voi lettori, è giusto dare una spiegazione a questo punto. Niente a che vedere con la Casa della Pace in piazza delle Erbe, così chiamata in ricordo della pace finalmente raggiunta dopo secoli di lotte tra famiglie e fazioni guelfe e ghibelline, nel Medioevo e primo rinascimento; molto più modestamente, la chiesa fu eretta a metà del ‘600 e così chiamata per festeggiare la pace ritrovata tra due fratelli dopo anni di liti.

Ma, come dicevo, non mi posi  la domanda, abitando là; anche perché, soprattutto nei primi anni, da bambino, avevo già tanto da guardare ed esplorare, in una casa che si raggiungeva con 90 ripidi scalini, ma che aveva una bellissima terrazza con vista su tutta la città, e che inglobava, proprio sull’angolo con via Saffi, una delle più belle torri medievali della città, appartenuta alla famiglia dei Gatti, come tutto quel quartiere.

 

1925 circa Via Saffi e Torre di san Giacomo (Archivio Mauro Galeotti)

 

Nell’altro angolo tra via Saffi e via della Pace, difronte la torre, un laboratorio di falegname di cui parlerò tra poco: in un locale a quanto pare destinato a non passare inosservato, visto che prima del falegname aveva ospitato un altro artigiano, Luigi Sensi, il cui figlio Socrate dopo essersi fatte le ossa lì dentro, si era lanciato in una avventura commerciale di successo che fece conoscere negli anni ’50 e seguenti ai viterbesi, i primi supermercati: Fulsen, Cifam, Okay, ed i cui nipoti sono ancora ben presenti nella realtà economica viterbese attraverso le loro Terme dei Papi; quando io abitavo in via della Pace, a rappresentare la famiglia, proprio difronte il portone di casa mia, era rimasta Vera Sensi con il suo negozietto di frutta. 

A dispetto del nome, via della Pace non era affatto una strada tranquilla, un po’ perché proprio sotto casa mia c’era la storica Trattoria Spacca, un po’ perché 10 metri più avanti, sulla sinistra, c’era Palazzo Ruspoli con il comando dei Carabinieri, in passato sede del Collegio vescovile, e relativo continuo andirivieni di auto e moto; difronte la caserma, quindi subito dopo il mio portone c’era l’autorimessa dei carabinieri, ricavata al piano terra di un palazzetto distrutto dai bombardamenti della seconda guerra mondiale e ricostruito nei primi anni ’60, sotto i miei occhi incuriositi dal lavoro di un cantiere; a seguire un bel balcone ad angolo di un palazzetto quattrocentesco, nel frattempo frazionato  e diventato abitazione popolare.

Superato l’incrocio con via dell’Orologio vecchio, si arriva in piazza Luigi Concetti, famoso medico cattedratico viterbese, con la chiesa di S.Maria della Pace, fiancheggiata da palazzo Macchi sulla sinistra e le scuole elementari “rosse” sulla destra, e proseguendo eccoci alla porta della Verità, dopo aver lasciato sulla sinistra il nuovo Liceo Scientifico Ruffini e poi il giardino e le finestre dell’Istituto Magistrale e del mio Liceo Classico Buratti.

 

Via Garibaldi e Chiesa di san Sisto bombardate nel 1944 (Archivio Mauro Galeotti Foto f.lli Sorrini)

 

A quell’epoca, metà anni ’50, l’unico modo per uscire di casa ed esplorare il mondo iniziando dai propri coetanei, era andare in parrocchia, e così anch’io a 7 anni iniziai a frequentare la parrocchia di San Giacomo, su piazza Fontana Grande-inizio di via Saffi, cento metri da casa mia: sale per riunioni, tavolo da ping pong e bigliardini, il cortile era piccolo per poterci giocare, ma a pochi metri di distanza c’erano terreni liberati delle macerie dei bombardamenti, ma ancora vuoti e quindi ottimi per giochi di squadra; ogni scusa era buona per scappare in parrocchia, una mezz’ora di catechismo o come chierichetto era sempre meglio che stare a casa da solo, perché la TV arrivò nei primi anni ’60 ma per vederla occorreva il permesso dei grandi!.

La parrocchia di S. Giacomo aveva una sua storia, poiché quella era la zona dove nel medioevo viveva la famiglia Gatti, la più importante della città, aveva incorporato anche la parrocchia di S. Martino quando la chiesa omonima era stata demolita a metà ‘500, e dalla fine della seconda guerra mondiale, per 20 anni a seguito del bombardamento della chiesa di S. Sisto, ne aveva inglobato il suo territorio parrocchiale, raggiungendo quindi dimensioni non trascurabili.

 

La Chiesa di S. Giacomo (Foto Mauro Galeotti)

 

La Chiesa di S. Giacomo non si segnalava per bellezza architettonica o presenza di opere d’arte bensì per la vivacità ed intensità partecipativa della sua comunità parrocchiale, nonché per il ricorso che il parroco don Gregorio faceva, anche nelle funzioni religiose, alla musica ed agli allora innovativi mezzi audiovisivi.

Non ci misi molto ad accorgermi che in quella numerosa comunità una posizione autorevole era rivestita da un uomo apparentemente modesto, Ettore Guidobaldi, da tutti chiamato Etterino, un falegname con laboratorio all’angolo tra via Saffi e via della Pace.

Mi ci vollero alcuni anni per capire che Etterino non era semplicemente un bravo falegname ed un bravo organista, era un riferimento politico rilevante, consigliere comunale della città, ispiratore della “corrente” interna alla D.C. che si ricollegava idealmente alla esperienza del primo Partito Popolare sturziano tra le due guerre mondiali, di cui lui aveva fatto parte insieme ad altri personaggi che nella D.C. degli anni 60/70 venivano considerati moderati o anche di destra, quali il signorino, il commendator Ferdinando Micara, ma con i quali lui intratteneva cordiali rapporti altrimenti inspiegabili; trovava anche spiegazione un particolare che da bambino curioso avevo sempre notato e cioè i frequenti conciliaboli che nella falegnameria avvenivano tra Etterino ed altri signori in giacca e cravatta: erano le riunioni carbonare di un gruppo politico molto compatto e deciso, al punto che quando a metà anni ’60 la maggioranza ultraconservatrice della D.C. viterbese non confermò le candidature dei consiglieri uscenti Guidobaldi, Cusi e Centolani, il gruppo decise di appoggiare la lista civica di Annibale Salcini, un commerciante con negozio di vestiti usati in via Cavour, il quale così, con sorpresa generale, ottenne un gran successo elettorale.

Di quegli anni trascorsi tra via della Pace e S. Giacomo conservo un ricordo molto positivo, poiché l’ambiente che frequentavo mi dette una formazione complementare a quella scolastica, mi offrì la possibilità di giocare e socializzare ed anche di crescere e vivere senza pregiudizi in una comunità,  dove erano presenti tutti i ceti sociali, tutte le professioni, tutte le fasce di età.

Arrivato ai 15 anni, frequentavo il V ginnasio, anche se a malincuore decisi che la parrocchia mi andava stretta e presi a frequentare il Centro Studentesco al Palazzaccio, passando lì tutto il mio tempo libero, tra biliardo, ping pong, molti amici anch’essi provenienti dalla stessa mia parrocchia che distava solo duecento metri, e soprattutto dedicandomi alla mia prima passione giornalistica durata 5 anni, fino al 1968: Il Sottobanco. Poi il cambio: la mia famiglia lasciò la casa di via della Pace ed io lasciai Viterbo per l’università. Ma via della Pace la sento ancora come la mia via.