Antonio  Cignini

Il prossimo 1° febbraio 2021 sarà l’anniversario della prima presentazione del mio studio "Chiesa bramantesca e cenobio delle Fortezze in Viterbo", ed. Dialoghi di Alter ego, 2019.

È stata ospitata dalla associazione culturale RinascimentiAmo Gallery di Viterbo ai cui animatori Simonetta Valtieri, Enzo e Ginevra Bentivoglio va la mia riconoscenza. Sull’omonimo sito Web sono presenti sia la locandina sia alcune foto dell’evento: http://www.rinascimentiamo.it/1_febbraio_2020.htm

Lacitta_eu ne aveva dato notizia il 30 gennaio 2020, con il titolo “VIDEO e invito alla presentazione del libro di Antonio Cignini: Chiesa bramantesca e cenobio delle Fortezze in Viterbo”, riportando anche due miei filmati-trailer: nel primo la voce narrante legge la lusinghiera quanto convinta recensione del volume scritta da Romualdo Luzi inserita via via in sovrimpressione nelle sequenze; nel secondo, didascalie affiancate o sovrimpresse alle immagini riepilogano alcuni punti salienti svolti nel saggio:

http://lacitta.eu/libri/50172-video-e-invito-alla-presentazione-del-libro-di-antonio-cignini-...

Nelle settimane e mesi successivi, ho deciso sia di non voler pubblicare miei articoli in merito su testate online o cartacee sia di sollecitarli dagli illustri intervenuti. Li avrei ovviamente graditi se l’iniziativa fosse partita da loro. Per contro avevo già deciso – sin dall’inizio della distribuzione del libro fresco di stampa – di far conoscere il mio studio tramite post e commenti su alcuni canali social, che, dopo anni di diffidenza e di pregiudizi, sono stati da me sottoscritti per l’occasione. Ho scommesso sulla possibilità di utilizzare la rete come strumento di diffusione e persino di creazione di ricchezze culturali. 

Un’eco implicita e indiretta della mia prima presentazione ho considerato un articolo pubblicato sul Corriere di Viterbo del 15 febbraio 2020, “La storia di un gioiello perduto - Le vicende della bramantesca Santa Maria delle Fortezze ricostruite nel volume di Antonio Cignini (AlterEgo edizioni)”, curato da Antonio Quattranni per la sezione “Libri”.

Il giorno dopo, su Face bookhttps://tinyurl.com/y22o3jqo

scrivevo queste osservazioni correttive: “Che l'architetto, nel senso di "creatore/disegnatore" del progetto, sia stato Battista di Giuliano da Cortona parrebbe affermarlo - ritengo erroneamente - Cesare Pinzi in una nota en passant del suo saggio "Gli ospizi medioevali e l’Ospedal-Grande di Viterbo", Viterbo,1893. - Altrettanto inesatto è stato il considerarne _il_ "costruttore" Ambrogio di Bartolomeo da Milano. In realtà i due erano i capimastri delle due squadre che dovevano edificare il tempio, quella lombarda e quella toscana, Tra i due era stata formata una società edilizia della quale Ambrogio era il "primus inter pares": a lui infatti i "santési" cioè i delegati del Comune pagavano i compensi, da dividere al 50% cadauno, per i lavori fatti. Questi venivano portati avanti con ritmi diversi e conseguenti puntualità o ritardi rispetto al dovuto e pattuito. Puntuale Battista, ritardatario il milanese, il quale rischiò addirittura di vedersi ipotecata la casa se... Il resto e come va a finire lo può sapere chi legge il libro utile e dilettevole di Antonio Cignini…

 

Foto RinascimentiAmo

 

Non so se della mia prima presentazione esista qualche registrazione audio-video totale o parziale. A distanza di un anno, provo a ricostruirne cenni minimali, anche se inevitabilmente approssimativi e imprecisi, al fine di riprendere qualche filo del mio discorso organico affidato alle 292 pagine di testo affiancato da un nutrito apparato iconografico del mio lavoro.

Il 30/01/2020, tramite e-mail, la RinascimentiAmo Gallery mi chiedeva se approvavo l’allegata scaletta per lo svolgimento dell’evento. Confesso di essere rimasto spiazzato dall’esclusione del mio filmato trailer “perché decisamente troppo lungo”, malgrado ne avessi ridotto la durata dagli iniziali 35 minuti a circa 25. In compenso sarebbe stato proiettato quello di una mia ulteriore brevissima sintesi “come conclusione (a mo' di "riepilogo") ”.

Ho accettato – con la riserva della flessibilità – di illustrare le diapositive assegnatemi, dopo quelle “introduttive” del prof. Bentivoglio. Nel suo chiaro e sintetico discorso – sul filo di una Slideshow di sei immagini storiche della chiesa, del rudere pervenuto, di personaggi coinvolti (Bramante, Borromini, san Francesco di Paola, il card. Alessandro Farnese jr), di disegni e grafici tratti da sue e altrui pubblicazioni – l’illustre stimato docente di Storia dell’Architettura ha esposto, tra l’altro, il senso, il contesto e i limiti dell’aggettivo “bramantesca” emergenti anche dal confronto con altre chiese della stessa “ditta Bramante” come quella romana dei S.s. Celso e Giuliano. Qui ad esempio – a differenza del tempio delle Fortezze progettato con pianta a croce greca inscritta in un cubo – emergono, come in S. Pietro, absidi esterne, elemento, quest’ultimo che spicca invece nel progetto seicentesco del Borromini, il quale “aggiunge esedre esterne al perimetro quadrato”. E tanto, tanto, tanto altro da competente eccezionale.

Compito assegnato al secondo relatore, l’autore: “Le slide 7-23 (prese dal libro) – cito ancora dalla sopra accennata e-mail del 30 gennaio – servono come testimonianza del ricco apparato fotografico presente nel suo libro e di conseguenza saranno di accompagnamento "visivo" al suo intervento”.

Ne parlerò più avanti.                             

Terzo relatore: “Il prof. Ricci forse potrebbe approfondire il discorso storico artistico degli affreschi delle cappelle (presenti nelle slide 15-23)” (ib.). In effetti questo eccellente e giustamente apprezzato storico dell’Arte dell’Università della Tuscia, ha offerto letture generali e particolarizzate degli affreschi pervenuti nella Cappella all’Angolo sud-ovest, con la competenza che lo qualifica e col suo linguaggio chiaro, preciso, specialistico, inserendole nei dovuti contesti della storia e della storia dell’arte. Nella mia memoria – oltre a nuove precisazioni sull’ Albero della vita di Pacino di Buonaguida di cui ho riportato qualcosa nel mio studio (pp. 238-240 e note) – resta indelebile una sua risposta, con mimica facciale piuttosto negazionista, a una mia osservazione sulla loro attribuzione alla scuola del Pastura asserita da Pietro Egidi: forti dubbi, su questa e sulle ipotesi attributive in genere. Non aggiungo altro che potrebbe solo appannare il vivo e professionale discorso di Fulvio Ricci.

Quarto relatore l’amico architetto Otello Colonna. Riprendo la mail citata: “Nella slide 25 vi è una proposta progettuale per la funzionalizzazione dell'edificio di Otello Colonna utile per la conseguente tutela e valorizzazione.” Anche questo intervento è stato magistralmente illustrato e argomentato da Otello, del quale ho esposto dettagliatamente, in numerosi passaggi del mio libro, le pregevoli e originali proposte, corredate da accurati, preziosi disegni da professionista, finalizzate a una una originale "restituzione bramantesca" del tempio delle Fortezze; la lunga e travagliata storia della sua costruzione dimostra infatti che è stato realizzato in modo non fedele al modello originario e variato nel tempo.

Affascinanti come primo colpo d’occhio, ma troppo tecnici sono –  per le mie limitate scarse assenti competenze di architetto, di geometra e di ingegnere che non sono – i progetti e i disegni riguardanti la valorizzazione degli spazi rimasti, in crescente degrado e abbandono, di chiesa e convento. Stessa consapevolezza dei miei limiti davanti ai progetti e disegni del prof. Bentivoglio e della prof. Simonetta Valtieri, i quali – sulla questione Fortezze e su altri monumenti viterbesi in attesa di recuperi, restauri e dovute valorizzazioni – hanno discusso animatamente a lungo, con accalorata determinazione, concretezza e, mi è parso, anche con fiducia e moderato ottimismo, ben consoni del resto alle finalità dell’associazione culturale che animano e dirigono non a caso denominata “RinascimentiAmo”.

Che dire della relazione del secondo relatore, l’autore del libro? Dovevo iniziare il mio intervento dalla diapositiva n° 7, riportante la copertina del volume, la pagina zero, la prima. Ho invece invitato l’uditorio a saltare all’ultima e dintorni, e precisamente alla conclusione. Giocando sull’etimo di concludere / chiudere, ho ribadito che “Quest’opera non è conclusa, ma aperta. Aperta a qualsiasi sviluppo, integrazione, revisione, critica…confronto, ripresa di indagini a qualsiasi livello”. Previsione avverata. Nell’autunno del 2020, appena tre o quattro mesi dopo la pubblicazione, mi sono infatti trovato davanti alla necessità di una revisione e correzione di alcune pagine dell’ultimo paragrafo del Cap.1, là dove metto a fuoco la veduta di Viterbo a volo d’uccello – ivi inclusa la chiesa delle Fortezze –presente nella famosa pala di S. Francesco alla Rocca di autore ignoto.

Ho sùbito dichiarato di “volermi togliere questo sassolino dalla scarpa”. Analizzando questo inestimabile dipinto su tavola, sufficientemente conservato e leggibile malgrado screpolature e abrasioni, possiamo focalizzare immediatamente le due figure inginocchiate in primo piano simmetricamente posizionate e configurate: a sinistra un santo con abito francescano con in mano un ramo quadrifiorito di gigli, a destra una figura femminile con veste rossa e manto azzurro, entrambi con gli occhi rivolti in alto imploranti benedizioni e grazie dal Cielo dipinto sull’arco della pala, dove un Cristo terribile e determinato, attorniato da angeli oranti sulle nubi, è pronto a scagliare una freccia afferrata dalla sua mano destra alzata e poi un’altra che stringe con la sinistra. Sullo sfondo, nello spazio mediano, sono schierati cavalli e cavalieri e altri armati, mentre nello spazio più lontano, verso l’orizzonte, una striscia di mare è popolata da un folto schieramento di navi.

Rappresenta la vittoriosa battaglia di Lepanto del 1571 contro i Turchi? E questa tavola, dipinta l’anno dopo, è un ex voto su committenza di un cappuccino, fra’ Marco da Viterbo, reduce da Lepanto, indenne malgrado la tonaca forata da varie pallottole, dopo un voto a santa Rosa e a sant’Antonio da Padova? Questa è stata la vulgata, tramandata e persistente, nata da questo breve passaggio di “Memorie francescane” (1928) del Signorelli: "Narrasi che nel 1571 un Fra Marco da Viterbo Cappuccino che era cappellano nell’armata navale pontificia, la quale prese parte alla battaglia di Lepanto, miracolosamente uscì illeso dalla terribile mischia in cui si trovò avvolto. E forse la tavola… rappresenta i diversi fatti d’arme a cui egli fu presente" (pp. 56-57)

Il narrasi e il forse sono stati eliminati dagli storici successivi e l’interpretazione “battaglia di Lepanto”, con l’aggiunta dell’elemento ex voto, si è imposta come se fosse una certezza acquisita. E anche il Cignini l’ha accolta e riportata in questa sua ricerca sulle Fortezze, finché, nell’autunno del 2020, ha dovuto abbandonarla dopo aver ascoltato una conferenza dello studioso Luca Della Rocca, il quale ha annunciato un suo saggio, ermeneuticamente rivoluzionario sulla Pala di S. Francesco, di prossima pubblicazione, dove espone, argomenta, documenta implacabilmente una drastica e netta negazione e rovesciamento della versione comunemente accettata, squalificandola come “leggenda metropolitana”. Il dipinto, secondo Luca Della Rocca, non rappresenta nessuna battaglia, né di terra né navale e tanto meno quella di Lepanto.

La veduta retrostante i due personaggi – quello femminile sarebbe la Madonna e non santa Rosa – è una vasta panoramica ripresa dalle alture di Tolfa con siti geografici e caseggiati riconoscibili. Sulla tavola è presente, inequivocabile, la data identificante: 1544. La scena rappresentata può essere sintetizzata con questa citazione da “Viterbo nella storia della Chiesa” del Signorelli (vol. II,II, Libro VII, p. 158): "Il 30 giugno [1543] una terrificante notizia pervenne in Viterbo: Ariadeno Barbarossa, famoso capitano musulmano, scortato dal ministro di Francia Paulin, dopo aver rasentato le coste dell'Italia meridionale, da Terracina era pervenuto il giorno innanzi, con la flotta composta di 250 navi, alla foce del Tevere ad Ostia, e lo si diceva avviato alla volta di Civitavecchia e Corneto. Il Vice Legato chiamava immediatamente a raccolta i cittadini più validi ed animosi, infervorandoli a recarsi colà ed opporsi allo sbarco dei turchi «per il trionfo della Sede Apostolica, e la difesa di loro medesimi, delle famiglie e della città»”. Auguri Luca e buona fortuna!

Alla mia presentazione di “Chiesa bramantesca e cenobio delle Fortezze…” ho fatto pubblica ammenda su, e solo su, questo punto. Conservo per contro intatto quasi tutto il resto del lungo paragrafo terminale del Cap.1, comprese le letture estetiche e ideologiche  dei particolari del complesso dipinto della pala, inclusa la mia descrizione poetica delle due figure inginocchiate in primo piano, in particolare quella femminile. Questa:”La scena narra un eloquente muto dialogo gestuale: gli occhi al cielo di Antonio e la sua mano sinistra – volta verso il sottostante panorama di una Vetus urbs turrita, con vistose fontane, cinta di mura merlate, con la loggia della Rocca, indiscutibilmente Viterbo – esprimono un’invocazione a Dio affinché guardi benigno la città indicata. Questa preghiera è fatta propria dalla Santa Fanciulla viterbese che, in posizione simmetrica, ne duplica l’atteggiamento invocante degli occhi e della mano sinistra rivolti verso l’alto.

L’esaudimento della preghiera dal Paradiso è visualizzabile nel movimento rotatorio del manto di Rosa che inizia il suo avvolgimento protettivo e materno dell’intera città di cui è figlia e sulla quale è protesa la sua mano destra, che appare in atto di far scendere giù un’invisibile infiorata di grazie e benedizioni”. Solo che – se ha inconfutabilmente ragione Luca Della Rocca – a santa Rosa si deve sostituire la Madonna; ma resta intatto il valore estetico, religioso, affettivo del linguaggio gestuale. La mia correzione è pertanto questa: il “… movimento rotatorio del manto di Maria che inizia il suo avvolgimento protettivo e materno dell’intera città di cui è Madre e sulla quale è protesa la sua mano destra,… appare in atto di far scendere giù un’invisibile infiorata di grazie e benedizioni”.

Il tempo residuo rimastomi, l’ho dedicato alla rassegna degli storici affermanti o neganti la paternità bramantesca di S. Maria delle Fortezze. Sì il notaio e storico Domenico Bianchi le cui parole sapevo e ho recitato a memoria. Nel suo manoscritto, Istorie di Viterbo, 1611, conservato nella Biblioteca Comunale, si legge: “E’ molto artificiosa (artistica ndr) S. Maria delle Fortezze de RP. (Reverendi Padri ndr) Minimi, il cui diuoto Tempio fu fatto secondo il Modello di Bramante chiamato in quei tempi Padre, e suscitatore dell'Architettura; ma non finito ancora”. Lo segue verso metà sec. XVIII Feliciano Bussi: «… la medesima [Chiesa delle Fortezze] è architettura del celebre Bramante». Altro sì, verso metà Ottocento, anche in un’opera postuma di Camillo Trasmondo Frangipane: “La ereditaria splendidezza dei Farnesi avea fatto fabbricare una Chiesa dedicata al taumaturgo san Francesco di Paola con disegno del celeberrimo Bramante Lazzari, la quale per la sveltezza del disegno e per l’eleganza delle forme è tuttora oggetto di ammirazione”.

Spicca invece tra i negazionisti Cesare Pinzi, il quale si prefigge di contestare, anzi “sbugiardare” la diffusa convinzione di voler attribuire il tempio delle Fortezze a Donato Bramante oppure al Vignola. La sua polemica è diretta tanto a illustri storici viterbesi del passato quanto ai suoi contemporanei che avevano la mania di inventare antenati illustri e altre fandonie per ogni monumento cittadino. A questo punto dalla regia mi hanno fatto cenno che era il momento della relazione del prof. Fulvio Ricci, al quale ho ceduto volentieri la parola.

La prolungata animata discussione del prof. Bentivoglio e della prof. Simonetta Valtieri, sulla proposta di Otello Colonna riguardo alle Fortezze e sui recuperi, restauri e dovute valorizzazioni di altri monumenti storici viterbesi a rischio abbandono e degrado, è stata interrotta da una mano alzata dal pubblico, che giudicava interessante ma non facilmente accessibile tale dibattito molto tecnico, e chiedeva di rivolgere domande all’autore. Giusto. “Quali interessi e motivazioni ti hanno spinto a ricerche sulle Fortezze?”

Risposta. Tra i tanti, un lontano ricordo di bambino molto piccolo, portato a Viterbo, in treno, dal babbo, dalla stazione di Vetralla. Usciti dai binari e dai marciapiedi della stazione di Porta Romana, tenuto per la manina, il babbo mi ha fatto passare, attraversata la Cassia, per una strada che saliva verso Porta Romana per entrare dentro la città. Sulla sinistra ho visto tutto un nerume, un nerume – sbircio il prof. Bentivoglio che annuisce  un nerume sui muri tutti in rovina. “Babbo, perché è tutto nero come un camino?”

Non ricordo la risposta, ma non è difficile immaginarla per chi sa dei bombardamenti del 1944. E poi c’è tutto il mio interesse per il Rinascimento, per Michelangelo, di cui alle Fortezze c’è una copia della Sibilla Delphica della Sistina, nell’Esedra del Presepe, ad angolo con l’Esedra dell’Annunziata, dove spiccano due stemmi dei Colonna forse della stessa grande Vittoria Colonna che da Viterbo scambiava lettere e poesie con Michelangelo. Sento alla mia destra il prof. Fulvio Ricci che dice sommessamente ma distintamente :”L’immensa Vittoria Colonna!”. E altre motivazioni – proseguo  come le corde con nodi e serpentine tra le Sibille e il misterioso scudo araldico abraso, corde chi mi hanno fatto pensare a parentele con i “nodi vinciani” del Castello Sforzesco di Milano. Parentele ipotizzate, ma che ho poi escluso nel mio quarto capitolo… Può bastare. Dalla regia si annuncia la fine. “No – mi impongo – in scaletta c’è il mio breve filmato”. Che viene proiettato in religioso silenzio e la cui FINE viene salutata con un applauso seguito da rinfresco, strette di mani, abbracci dei miei parenti e amici, autografi e dediche su alcune copie del libro acquistate dai presenti. È ormai quasi buio.