Viterbo STORIA
Storia tratta dal mio libro: Mauro Galeotti: "L'illustrissima Città di Viterbo", Viterbo, 2002 aggiornato sul web

 

Rarissima fotografia della Macchina di santa Rosa di Rodolfo Salcini (1952-1958) lungo il Corso Italia, a destra è la Chiesa di sant'Egidio, foto Burla Viterbo (Archivio Mauro Galeotti)

La storia di santa Rosa e la Macchina

Santa Rosa nacque a Viterbo, secondo alcuni studiosi, il 15 Maggio 1233 da Giovanni e Caterina, agricoltori, e morì, secondo la tradizione, il 6 Marzo 1251.

Sin dalla tenera età operò miracoli come: il risuscitamento della zia morta, la trasformazione del pane in rose e la brocca rotta, poi risanata. Nemica di Federico II, il quale voleva sottomettere Viterbo all’Impero, riuscì a farlo desistere dall’assedio della Città, grazie alla volontà di resistere trasmessa ai suoi concittadini.

Su ordine del podestà Mainetto Bovoli, fiorentino, luogotenente dell’imperatore Federico II, fu esiliata il 4 Dicembre 1250, per il continuo esercizio di apostolato, proibito ai laici da papa Gregorio IX sin dal 1234. Trovò rifugio a Soriano nel Cimino, dove il 5 Dicembre 1250 profetizzò la morte di Federico II († 13 Dicembre 1250). Nel Dicembre 1250 Rosa si trasferì a Vitorchiano e restituì la vista a Indelicata e convertì Coria, un’eretica bavarese, alla quale aveva predetto che avrebbe affrontato volontariamente il rogo, senza che ne fosse offesa e così fu.

Ritornata a Viterbo, sembra nel Gennaio 1251, chiese alle monache di san Damiano di essere accolta tra loro, ma netto fu il rifiuto della superiora, alla quale predisse, che se non l’avessero accolta da viva, lo avrebbero fatto da morta.

La scusa della negazione fu che non vi era più posto nel monastero, ma in realtà Rosa, nel conflitto tra cattolici ed eretici, era considerata da molti una ribelle verso l’imperatore ed i nemici della Chiesa, occorreva quindi usare la massima prudenza.

Rosa morì a poco più di diciassette anni e fu seppellita, nella terra senza cassa, sotto il pavimento, a sinistra della Chiesa di santa Maria in Poggio, essendo quella la parrocchia nella quale era compresa la sua abitazione.

Nel 1258 papa Alessandro IV, residente a Viterbo, dopo aver ricevuto in sogno più volte il desiderio che Rosa aveva di entrare nella Chiesa di santa Maria, presso il monastero delle monache di san Damiano, il 4 Settembre, avendola disseppellita e trovata incorrotta dopo sette anni dalla sepoltura, la condusse trionfalmente, con un corteo di quattro cardinali e numerosi fedeli, dalla Chiesa di santa Maria in Poggio a quella di santa Maria. 

Questo evento straordinario e miracoloso fu l’origine del culto della Santa e del trasporto della Macchina di santa Rosa, avvenimento di folclore religioso spettacolare ed unico al mondo, che si svolge la sera del 3 Settembre di ogni anno, alle ore 21.

Fu venerata da gente povera, da nobili, da imperatori e da pontefici, i quali lasciavano al monastero elemosine e doni, tra questi numerose erano le offerte dei ceri, che venivano accesi attorno all’urna. 

Forse proprio uno di questi, nel 1357, cadendo, incendiò la cappella e l’urna, facendo correre il pericolo di carbonizzare la Santa. Miracolosamente riuscì a salvarsi, per non privare Viterbo né della sua protezione spirituale, né della presenza del suo santo corpo.

 

Canonizzazione di santa Rosa 

Per quanto riguarda la canonizzazione di santa Rosa trovo che grazie alle suppliche del vescovo Scambio (de’ Scambi) Aliotti, eletto il 15 Giugno 1245, del Clero, del Consiglio e del popolo viterbese, papa Innocenzo IV, con Bolla Sic in Sanctis Suis mirabilis del 25 Novembre 1252, ordinò al priore Rolandino dei frati Domenicani di santa Maria in Gradi e all’arciprete di san Sisto, Samuele, di cercare testimonianze legittime e veritiere circa la vita ed i miracoli della vergine viterbese Rosa.

Papa Alessandro IV concesse al Clero e al popolo viterbese di festeggiare santa Rosa ogni 4 Settembre, giorno della famosa traslazione dalla Chiesa di santa Maria in Poggio.

Anche papa Eugenio IV (1431 - 1447) si interessò, nel 1443, alla canonizzazione di Rosa tanto che firmò il Breve per l’introduzione della causa, ma non riuscì ad arrivare ad alcuna conclusione anche dopo le istanze avanzate dal Comune nel 1446.

Il papa Niccolò V, con sua Bolla del 3 Aprile 1449, chiama Rosa santa e stabilisce l’indulgenza per la Festa della Purificazione, della Visitazione di santa Chiara e di santa Rosa.

Con Breve del 16 Giugno 1456 papa Callisto III, che aveva ricevuto, come visto, una grazia da santa Rosa, ordinò che venisse riaperta la causa ed espletato il processo relativo a Rosa. Furono incaricati i cardinali Bessarione, Domenico Pantagale, conosciuto col nome di Capranica, e Colonna, i quali deputarono in loro vece i vescovi di Siracusa, di Arezzo e di Sutri, che riversarono l’incarico su Giovanni Cecchino dei Caranzoni vescovo di Viterbo e il vescovo di Orte.

L’inchiesta iniziò il 6 Marzo 1457 e il processo si tenne dal 26 Marzo al 16 Giugno di quell’anno e si chiuse il 4 Luglio 1457, ben duecentosessantatre furono le persone interrogate testimoni dei più svariati miracoli.

La canonizzazione non seguì a tale processo poiché, forse, fu ritenuta superflua dal papa, o chissà per quale altro motivo. Ancora altre suppliche furono avanzate invano a papa Pio II nel 1460, che ne discusse nel concistoro del Dicembre di quell’anno. 

Nel 1476 il Comune fece in modo che se ne interessasse papa Sisto IV, poi nel 1509 fu sollecitato anche papa Giulio II, i successivi pontefici ritennero chiusa la causa.

Comunque nel Martirologio Romano del 1583, a cui collaborò Cesare Baronio, il 4 Settembre è menzionata Viterbii, Beatae Rosae virginis. Fu quindi un altro miracolo di santa Rosa quello di essere accolta tra i santi per approvazione divina, senza l’autorizzazione terrena, dopo i consueti processi.

 

Visitatori al cospetto di santa Rosa

Molti sono i pontefici e gli uomini illustri che vennero a venerare e far visita a santa Rosa, tra loro ricordo, nel Duecento:

il 4 Settembre 1258, Alessandro IV papa.

 

Nel Trecento:

il 2 Maggio 1312, Enrico VII; nel 1320, san Rocco confessore, che si recava a Roma.

 

Nel Quattrocento:

dal 6 Agosto 1405 all’11 Marzo successivo, papa Innocenzo VII; dal 18 al 26 Settembre 1420, papa Martino V; l’8 Maggio 1433, l’imperatore Sigismondo con millecinquecento nobili tra i quali diversi Ungheresi; il 16 (altri il 23) Settembre 1433, papa Eugenio IV con cinque cardinali tra i quali il Bessarione; nel Luglio del 1439, san Giovanni da Capistrano; nel 1446, Eugenio IV; nel 1449 (altri nell’Estate 1450), papa Niccolò V; il 26 Marzo 1459, papa Pio II, lo stesso nel Settembre - Ottobre 1460 e dal 7 Maggio 1462; nel 1452 e il 11 Gennaio 1469, l’imperatore Federico III con la consorte Eleonora; il 13 Giugno 1473, la principessa Eleonora, figlia del re Fernando di Napoli, in occasione del passaggio da Viterbo per andare sposa ad Ercole d’Este, marchese di Ferrara e duca di Modena.

Alla fine del 1479 e inizi 1480, il duca Federico d’Urbino ed il duca di Calabria, ivi Federico ricevette in dono dal papa lo stocco e il cappello ducale; nell’Ottobre 1481, papa Sisto IV; il 28 Ottobre e il 6 Dicembre 1493, papa Alessandro VI con 18 cardinali; nel 1494, il re di Francia, Carlo VIII.

 

Nel Cinquecento:

il 27 Settembre 1509, papa Giulio II con ammissione alle monache al bacio del piede; varie volte papa Leone X (1513 - 1521); nel Giugno 1528, papa Clemente VII; papa Paolo III più volte tra il 1535 ed il 1547; nel Giugno 1553, papa Giulio III; il 15 Settembre 1578, papa Gregorio XIII; il 25 Aprile 1597, papa Clemente VIII.

 

Nel Settecento:

nel 1700, il granduca di Toscana Cosimo III (1639 - 1723); il 18 Maggio 1724, il re d’Inghilterra Giacomo III e la moglie Maria Clementina Sobiescki; il 10 Novembre 1727, papa Benedetto XIII; il 6 Novembre 1727 Violante Beatrice di Baviera, principessa di Toscana, che avendo dormito nel convento, a ricordo, sopra alla porta della sua camera, fu posta la seguente epigrafe:

Violantes Beatrix ex Bavariae ducibus / Ferdinandi olim magni Hetruriae principis / uxor / cum e Florentia Viterbium venerit / mansiones hasce suo illustravit hospitio / moniales omnes clementia / pietate humilitate aliisque / principe muliere dignis virtutibus / singulari per plures dies beneficio / cumulavit / anno Domini MDCCXXVII. 

Il 22 Febbraio 1798, venne papa Pio VI, come da iscrizione nel parlatorio. Per l’occasione fu anche stampata una lastra in rame riproducente il papa che solleva la mano sinistra della Santa e la bacia, il corpo di Rosa è collocato al contrario di come si vede solitamente, ossia con la testa verso destra, la stampa è stata delineata da Luigi Scotti e incisa da Pietro Bonato a Roma. Le suore furono ammesse al bacio del piede.


Nell’Ottocento:

il 22 e 23 Febbraio 1802 l’arciduchessa Marianna d’Austria; il 18 e 21 Novembre 1803 Carlo Emanuele IV re di Sardegna, a cui fu donata una statuetta, in cera, di santa Rosa; il 3 Novembre 1804, papa Pio VII di passaggio per andare ad incoronare Napoleone imperatore, poi venne ancora il 23 Marzo e il 5 e 6 Giugno 1815; il 15 Maggio 1812, il re di Spagna Carlo IV con l’infante Maria Luisa, regina del Portogallo e col principe Carlo Lodovico.

Il 2 Aprile 1819, l’imperatore d’Austria Francesco I, la consorte Carlotta Augusta di Baviera e la figlia principessa Maria Carolina, giunti a Viterbo il giorno precedente; il 21 Dicembre 1824, scrive Pio Semeria:

«la Regina di Torino moglie del defunto Vittorio Amedeo, che si era abdicato dal trono, con due sue figlie».

Il 3 e 4 Ottobre 1841, papa Gregorio XVI; il 4 Settembre 1857, papa Pio IX, come da iscrizione nel parlatorio; nel 1857 e 1862, Morlot, l’arcivescovo di Parigi.

 

Nel Novecento:

il 27 Maggio 1984, papa Giovanni Paolo II e i presidenti della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, il 13 Dicembre 1994, e Carlo Azeglio Ciampi, il 25 Febbraio 2002.

 

Le più antiche memorie scritte su santa Rosa

Sulla vita di santa Rosa i documenti più antichi sono suddivisi in Vita I, Vita II e Vita III.

La Vita I di anonimo, quasi sicuramente contemporaneo a santa Rosa, probabilmente si può individuare in Pietro detto Capotosto, come ho già scritto: Vita S. Rosae Viterbiensis, è un frammento pergamenaceo della seconda metà del XIII secolo, non completo, conservato nell’archivio del monastero.

E’ qui la narrazione assai semplice degli avvenimenti della vita di santa Rosa. Sul retro della pergamena è tracciata, a penna, una immagine di santa Rosa col volto beato, i capelli lunghi, vestita con una tunica, nella quale sono evidenziati i seni, sostenente nella mano destra una palma e nell’altra un libro.

La datazione della raffigurazione non è certa, ma potrebbe risalire tra la fine del XIV secolo e gli inizi del seguente.

La Vita II sempre di anonimo, Vita Santae Rosae Viterbiensis, che si fa risalire agli inizi del XV secolo, tra il 1406 ed il 1418, ove sono riferiti tra l’altro i miracoli della verginella viterbese, viene considerata la vita ufficiale della Santa. Fu pubblicata dagli eredi dell’editore Antonio Blado, nel 1568, con il titolo:

Vita, Miracula et Missa propria S. Rosae ordinis fratum minorum.

La Vita III, anche questa di anonimo, Vita, Miracula et Missa propria Santae Rosae ordinis fratrum minorum cuius almum corpus conditum est in alma civitate Viterbii, che sembra potersi riferire tra gli anni 1510 e 1520, si trova in originale nel British Museum di Londra, riedita poi, come ho già scritto, nel 1568, di cui una copia è nella Biblioteca comunale degli Ardenti.

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La Macchina di santa Rosa

La Macchina di santa Rosa è una torre realizzata, fino a qualche decennio fa, con carta pesta montata su un telaio di legno. Oggi quel sistema è stato abbandonato e sostituito con materiali vari, come resina, plastica e fibra di vetro, sostenuti da una intelaiatura di tubi in acciaio.

E’ trasportata la sera del 3 Settembre di ogni anno, con inizio alle ore 21, da Porta Romana al sagrato della Chiesa di santa Rosa.

Un tempo effettuava le fermate in Piazza del Plebiscito e in Piazza santa Rosa dipinta, l’attuale Piazza Verdi; da qualche anno le soste sono aumentate per consentire alla popolazione, che assiste al trasporto, di ammirare con più lasso di tempo la Macchina.

Infatti, le fermate sono in Piazza Fontana Grande, in Piazza del Plebiscito, in Piazza delle Erbe, avanti alla Chiesa di santa Maria del Suffragio al Corso Italia.

Dopo un rallentamento, all’altezza dell’imbocco di Via Mazzini, per l’aggiunta delle spallette laterali, segue la fermata in Piazza Verdi per poi, di corsa, raggiungere l’arrivo al Largo Facchini di santa Rosa.

Quando la Macchina giunge in Piazza del Plebiscito effettua un giro attorno a se stessa, è la girata, per consentire la visione di ogni suo lato agli amministratori comunali e agli ospiti che si trovano nei Palazzi dei priori, del podestà e della prefettura.

Oggi la girata viene dedicata dai facchini ogni anno ad una persona che abbia particolari meriti o ad un avvenimento importante.

E’ illuminata da centinaia di luci sia elettriche che a fiammella viva e ogni cinque anni, ad eccezione di eventuali deroghe, viene modificata completamente. 

Può raggiungere l’altezza di trenta metri ed un peso di cinquanta quintali circa. E’ trasportata a spalla da cento, centoventi, uomini che sono detti Facchini di santa Rosa.

Questi indossano un caratteristico vestito di color bianco formato da: fazzoletto legato alla corsara, camicia a maniche lunghe arrotolate sino al gomito, calzettoni, pantaloni alla zuava, fascia stretta alla vita di color rosso e scarponi alti di cuoio nero, con stringhe.

Prima dell’ultimo conflitto mondiale l’attuale fascia rossa era a righe di vario colore, come si può vedere dalle foto d’epoca che ho pubblicato in altri volumi.

Si è ammessi al ruolo di facchino solo se si supera una prova di forza. Questa consiste nel sostenere sulle spalle una cassetta del peso di centosessanta chili e di portarla, senza interruzioni, per almeno settanta metri.

La formazione del gruppo che compone i facchini si divide in vari specifici incarichi.

Eccoli.

 

Capofacchino

Il capofacchino, è eletto da tutti i facchini che scelgono il loro rappresentante tra coloro che abbiano effettuato almeno venti trasporti. Indossa camicia color bianco, fascia alla vita rossa, pantaloni neri e fascia a tracolla colorata di giallo e di blu.

Il capofacchino ha il compito di dare i comandi ai facchini per la buona riuscita del trasporto. I comandi sono dati al momento dell’inizio del trasporto, «Prima fila ciuffi, sotto!», «Seconda fila ciuffi, sotto!», così fino all’ultima, la settima. 

Ogni facchino ha il suo posto numerato. 

Appena raggiunta la postazione il comando successivo è «Sotto col ciuffo e fermi!», ossia i facchini si mettono in posizione sotto alle travi e si preparano a sollevare la Macchina.

Segue il «Sollevate e fermi!», con questo comando si dà inizio alla mossa, tutti i ciuffi sollevano contemporaneamente la Macchina e la tengono sulle spalle in attesa del comando «Facchini di santa Rosa, avanti!» e inizia il trasporto.

Guide anteriori e posteriori

Le guide anteriori e posteriori sono quattro una per ogni angolo della base, hanno il compito determinante, assieme al capofacchino, di guidare i facchini, ciuffi e spallette, dei quali i più, per la maggior parte del percorso, camminano senza alcuna visuale. 

Le guide evitano che la Macchina tocchi i cornicioni dei tetti, o le pareti delle case, inoltre danno l’ok ad ogni fermata dopo aver controllato che i cavalletti, su cui poggia la Macchina, siano in perfetta posizione. Le guide fanno forza per guidare la Macchina su speciali anelli montati alle estremità delle travi esterne e si riconoscono perché sono vestiti come il Capofacchino.

 

Ciuffo

Altra carica dei facchini è il ciuffo, quella più ambita, infatti è colui che non lascia mai la Macchina per tutto il trasporto. I ciuffi sono sessantatre uomini divisi in sette file.

Il nome deriva dal cuscino con cappuccio e legacci che vengono incrociati in bocca, trattenuti dai denti. 

Il ciuffo è in cuoio imbottito che il facchino indossa sulle spalle, dove poggia la trave della base della Macchina, al momento del trasporto.

Ogni facchino ha riportato sul ciuffo stesso il numero della sua postazione.

 

Spalletta fissa

Il facchino spalletta fissa, sedici uomini in tutto, trova posto nelle file esterne di destra o di sinistra della base della Macchina ed ha con sé un cuscinetto in cuoio con un legaccio, che tiene sulla spalla ove poggia la trave. Effettua tutto il trasporto. 

In alcuni punti molto stretti del percorso, come all’uscita di Via Roma in Piazza delle Erbe, è costretto a infilare la testa verso l’interno della Macchina per non restare schiacciato tra le pareti delle case e la trave della Macchina stessa.

 

Spalletta aggiuntiva

La spalletta aggiuntiva occupa il posto accanto alle spallette fisse e la trave, che poggia sulla spalla, è estraibile dalla base della Macchina. Entra in azione nei tratti di strada ampi. Gli uomini impegnati in questo ruolo sono diciotto.

Stanghette anteriori e posteriori

Le stanghette anteriori e posteriori sono i dodici facchini che effettuano tutto il percorso e portano la Macchina sulla spalla poggiandovi le travi che fuoriescono dalla base sia anteriormente che posteriormente.

 

Leve 

Le leve, venti facchini in tutto, entrano in azione solo nell’ultimo tratto in salita che va da Piazza Verdi al sagrato di santa Rosa. 

Si tratta di vere e proprie leve che grazie a speciali gabbie vengono infilate, appunto, a leva nella parte terminale delle travi posteriori. 

Questo consente la rottura della tratta nel movimento, in salita e di corsa, della Macchina che pende, ovviamente, all’indietro.

 

Corde 

Le corde sono in azione solo nel tratto finale in salita. Sono venti facchini che tirano la Macchina con delle grosse funi attaccate ad anelli posti sulle travi esterne, nella parte anteriore della base della Macchina stessa.

 

Cavalletti 

Gli addetti ai cavalletti sono otto uomini che portano a spalla, due per ogni cavalletto, delle strutture di legno verniciate di bianco, pesanti oltre cento chili, su cui viene appoggiata la Macchina ad ogni fermata e nella sosta finale.

 

Riserve

Le riserve sono sette facchini che sostituiscono l’infortunato e normalmente sono di nuova nomina. Durante il trasporto portano i pali delle leve.

 

Addetti al trasporto

A completamento della formazione dei facchini sono ventisei addetti al trasporto, si tratta di persone che svolgono vari lavori.

Infine sono due medici e cinque infermieri.

 

Accollata

Spesso si sente il termine accollata, con ciò si intende il momento in cui un gruppo di facchini, vicini tra loro, sono caricati di maggior peso di quello che è la loro dose normale. Ad esempio se i facchini che sostengono la Macchina nella parte anteriore, al momento del sollevate e fermi, alzano il peso leggermente prima del comando, il peso della Macchina logicamente va a gravare sui facchini che stanno nella parte posteriore. Questi dovranno a loro volta affrontare l’accollata, con un non indifferente sforzo per riportare la Macchina nella posizione verticale.

Giovanni Panzadoro così descrive nel 1832 questa evenienza:

«niuno avrebbe l’audacia di gravarsi le spalle per un lungo tratto di via di 350 libre di peso per ciascuno, il quale ogni tanto del doppio, e più gli si aumenta nella dondolazione frequente, il di cui squilibrio se la mezza canna oltrepassa, irreparabile rende la rovina di essa mole, come qualche volta è accaduto».

 

Sodalizio dei Facchini di santa Rosa 

Dall’Aprile 1978 i facchini sono uniti in un sodalizio denominato appunto Sodalizio dei Facchini di santa Rosa, regolato da uno statuto e avente per fine l’unità dei facchini stessi e la fraternità d’intenti al fine di realizzare nel migliore dei modi il trasporto della Macchina di santa Rosa.

 

Rituale

Nel giorno del trasporto i facchini svolgono un rituale dettato da antiche tradizioni, infatti fanno tutti insieme ed in formazione la visita ad alcune chiese della città che un tempo erano solo tre, santa Rosa, la santissima Trinità e santa Giacinta. Oggi il giro delle chiese inizia dalla ex Chiesa di san Giovanni Battista degli Almadiani, dove i facchini assistono ai discorsi delle autorità e del capofacchino. Poi vanno in Piazza del Plebiscito nella Chiesa di sant’Angelo, da qui raggiungono la Chiesa di santa Giacinta, onorano il corpo della Santa e ricevono una speciale foglia con una spina, che li proteggerà durante il trasporto.

Arrivano a santa Maria Nuova, successivamente depongono una corona al Sacrario, ai Caduti di tutte le guerre; si recano al Monumento al Facchino, in Piazza della Repubblica, ciò avviene dal 2000, quindi alla Chiesa della ss. Trinità e alla Basilica di san Francesco, inserita nel giro dal 1995. 

A santa Rosa rendono omaggio al corpo della santa. Da qui raggiungono il bosco del Convento dei Cappuccini, dove si intrattengono con i familiari e tutti insieme fanno uno spuntino, in serata vanno a santa Maria in Poggio, alla Crocetta, ed infine a san Sisto dove li attende la Macchina. 

I più vogliono che il trasporto della Macchina di santa Rosa prenda origine dalla traslazione del corpo di santa Rosa da santa Maria in Poggio al Monastero di san Damiano, avvenuto il 4 Settembre 1258 ad opera di papa Alessandro IV accompagnato da quattro cardinali.

Si narra che il pontefice recatosi nel luogo della sepoltura della verginella viterbese, non riuscisse a individuare il punto preciso dove era quel corpo riposto nella terra, allora d’un tratto dal pavimento spuntò una rosa. Era lì il luogo dove iniziare lo scavo per disseppellire Rosa.

 

Tradizione

Il 15 Maggio 1512 con una decisione del Consiglio comunale venne ufficialmente consacrata la festa in onore di santa Rosa, da celebrarsi ogni anno il 4 Settembre, istituendo anche una processione.

In seguito, per maggior rispetto e per consentire una più assidua partecipazione dei fedeli alla festa, i conservatori del popolo, per il giorno 3 Settembre 1600, ordinarono ai cittadini di non aprire le botteghe e di non eseguire lavori, poiché quel giorno doveva essere dedicato alla visita del corpo di santa Rosa.

Fino a quel momento non viene mai citata la Macchina, infatti, è menzionata per la prima volta, afferma Augusto Gargana, nel 1624.

E’ certo comunque che nel 1654 è indicato il nome macchina, come era in uso, per distinguere il baldacchino con montata sopra un’immagine, in questo caso quella di santa Rosa e si sa pure che il Comune contribuì, alla riuscita della festa, con l’esborso di sei scudi.

Ma un triste avvenimento offuscò la manifestazione, infatti si è a conoscenza che per la pestilenza furono sospese le feste fino al 1663, che vennero riprese solamente l’anno successivo.

Per alcuni storici il 1664 potrebbe essere l’anno di inizio del trasporto della mole luminosa, ma Giorgio Falcioni scrive che «invece doveva trattarsi di una manifestazione che poteva vantare una certa tradizione già nel 1654».

La Macchina del 1686 fu trasportata il 27 Ottobre, uno dei primi casi in cui il trasporto tradizionale del 3 Settembre non fu rispettato, forse per motivi di cattivo tempo. Ne dette annuncio il Deputato della Festa, Sebastiano Gregorio Fani, che secondo Noris Angeli fu anche il progettista.

Il Museo civico di Viterbo conserva, tra l’altro, una bella e preziosa serie di disegni raffiguranti la Macchina. Il più antico risale al 1690 ed è opera di mastro Giovan Vincenzo Calmes, mentre Signore della Festa era il nobiluomo Giuseppe Franceschini. 

Signore della Festa era designato un nobile il quale contribuiva alle spese con cinquanta scudi d’obbligo, poi per distinguersi poteva impegnare altre somme, al fine di raggiungere gli obiettivi da lui prefissati, per la migliore riuscita della festa stessa.

La Santa è posta alla sommità della Macchina, cosa che si verificherà in seguito assai raramente, infatti la trovo nel 1861, nel 1899, nel 1967 con il Volo d’angeli, nel 1979 con la Spirale di fede, nel 1986 con Armonia celeste e nel 1991 con Sinfonia d’archi.

Sulla destra del predetto disegno, eseguito ad acquerello e a tempera, è la scritta a penna:

La presente parte di / disegno è quella è sta / bilita per la Macchina / di S. Rosa che doverà fare M(ast)ro Gio(van) Vincenzo / Calmes secondo l’obligo / da lui fatto. / [firmato] Giuseppe Franceschini. 

Più in basso a matita, da altra mano, è segnato l’anno 169[0].

Leggo nei ricordi di Filippo Giannoni:

«Lun(edì) A dì 3 di 7mbre 1696. Con belisima machina tengola con Ang(e)li sopra naturale et con diversi Angeli con la S. Rosa i mezo sopranatorale con cupola ben depinta fata da Sig. Angielo Toselli Priore di S. Martino con lumi e torcie n(umero) 110 e Candele».

 

Settecento

In ordine di tempo è poi il disegno di Giulio Nini, del 1700, che sul retro reca l’impegno del medesimo a costruire la Macchina. Questo è quanto leggo dalla scheda conservata nel Museo civico:

[…] Giulio Nini […] promette, s’impegna e s’obbliga a costruire la Macchina per la processione di S.Rosa come da disegno da lui redatto […]; a matita qualcuno ha scritto l’anno 1700.

Successivamente, il 19 Marzo 1701, venne stabilito che la Macchina fosse costruita su un telaio in modo che potesse essere riutilizzato per più anni. Incaricato della realizzazione fu lo scultore Domenico Durante o Duranti, il quale, nel 1704, risulta costruttore della Macchina della quale, però, non esiste più il disegno.

Anche nel 1706 è affidato il trasporto della Macchina al Durante, secondo quanto leggo dal manoscritto delle Chiese di Viterbo di Giuseppe Signorelli. E’ del 1707 il disegno di Angelo Japelli eseguito ancora visibilmente secondo la classica forma del baldacchino.

Nel Consiglio generale del 4 Giugno 1707 fu esaminato il reclamo dell’intagliatore Giovanni Bolier in merito al disegno della Macchina, richiestogli dalle autorità comunali, del quale non ne fu tenuto conto. Il Bolier chiese un rimborso di dieci scudi, per le spese di realizzazione del bozzetto.

Nel foglio, ove è stato realizzato il disegno della Macchina di santa Rosa di Japelli, è scritto a penna, in alto a sinistra: 1707.

Sul medesimo disegno, a sinistra e a destra dell’architrave posto nella parte alta della struttura della Macchina, è scritto: un an(gel)o. Mentre in basso a sinistra è: Io Angelo Japelli / mi obligo di fare / la Machina conforme / stà nella poliza.

Il 27 Giugno 1717 fu stabilito che la Macchina venisse coperta da una struttura rigida, da erigere a fianco della Chiesa di san Sisto, entro la quale fosse possibile costruirla, per eluderla dagli occhi dei cittadini e per proteggerla dalle intemperie. L’idea fu avanzata dal Signore della Festa Pietro Antisari, il quale partecipò egli stesso alla spesa di scudi venti per tale realizzazione.

Leggo sulle Riforme in merito:

«essendo necessario di fare un riparo o tetto alla Porta di S. Sisto ad effetto che data la stravaganza delli tempi non resti deturpata e ruinata la Machina di S. Rosa ch’ è solito farsi ogn’anno, e bisognando per tal causa spendere scudi 20».

E’ assai interessante quanto ci tramanda padre Feliciano Bussi, nel manoscritto del 1737 sugli Uomini illustri, sul trasporto della Macchina di santa Rosa di quegli anni:

«Vi intervengono eziandio tutti i Chierici della Città, ed anche i Seminaristi, e dopo i detti Chierici tutti i Religiosi Minori Conventuali, ancor essi con candele accese nelle mani vi andava eziandio il Capitolo della Cattedrale, e forse non sono ancora diciotto anni, che ha cessato di andarvi, venendo per ultimo una gran Machina portata da quantità di facchini sopra le spalle rappresentante un qualche fatto prodigioso della Santa, la qual Machina oltre l’essere per ogni sua parte illuminata con copiosissime torcie, e candele di cera e di tale e tanta altezza, che quasi oltrepassa tutti i tetti delle case. Presso la medesima va il Governatore della Provincia cogli Conservatori della Città con tutta la loro corte: quello vestito in abito prelatizio, e quelli co’ loro soliti rubboni neri».

La mattina seguente, 4 Settembre, durante la messa, i conservatori indossavano i rubboni d’oro, il giorno seguente «nelle ore più calde, si fa correre ali asini il primo palio, il quale suol’essere di stoffa; correndosi poi nelle ore più fresche altri due palj di velluto, cioè uno dai barberi, e l’altro dei ronzini, venendo perciò bravissimi cavalli da diverse parti, e particolarmente anche da Roma», la giornata terminava con il canto dei vesperi e lo sparo dei fuochi artificiali «circa le due della notte» in Piazza della Rocca.

«Il giorno appresso, e propriamente la mattina (ma questo non sempre) vi è il gioco della lotta, oppure della scherma, facendosi per ordinario tali giochi nel cortile del Palaggio del Pubblico con un premio proporzionale al vincitore; et il dopo pranzo (oppure anche alle volte nella stessa mattina) corresi il quarto palio parimente di velluto da ogni sorta di cavalli, ond’è che un tal palio dicesi della Truppa.

Nell’altro giorno poi, ch’è appunto l’ultimo della festa, nella Piazza del Comune, ridotta in un gran Teatro chiuso per ogni parte, si lasciano a suon di trombe due bufale sciolte, e senza cani, contra le quali si avventano moltissimi animosi giovani con grossi bastoni in mano, ansiosi (se loro piace) di ammazzarle a colpi di bastonate, benché per altro sovente succeda, che taluno di essi resti da tali bestie non solo storpiato, ma anche occiso.

Per tale descritta festa si deputa ogn’anno dal Pubblico un Nobile della città, a cui per le spese vengono somministrati circa dugento scudi, i quali perché senza dubbio non posson bastare, il detto Nobile al di più supplisce di proprio. 

Anticamente però nulla dalla Città si contribuiva a’ tali Deputati, ma bensì ciascuno dovea fare la festa a tutte sue spese, nella quale poiché solea procedersi con qualche sorta di gara, e si spendeano molte migliaja di scudi, quindi è che alcune cose ne restavano non poco risentite. In alcuni anni, secondo il genio de’ Deputati, oltre le predette carriere, suole farsi anche la Giostra, e questa parimente con premio a quello, che vince».

Del 1756 è la Macchina ideata da Carlo Tacchini, giunta fino a noi grazie ad una stampa da lastra di rame di proprietà di Attilio Carosi. Nel 1758 la Macchina cadde alla mossa, venne comunque rimessa in piedi per poter riprendere il cammino.

Del 1764, secondo tutti gli studiosi, è il disegno della Macchina di Giovanni Dossi (?), che deve essere corretto in Dotti, come leggo sul disegno firmato dallo stesso, conservato nel Museo civico.

Giovanni Dotti, infatti, era pittore doratore, nel 1727 dipinse nella Chiesa di san Rocco il paliotto dell’Altare di san Girolamo e nel 1728 eseguì la doratura di una cornice di un quadro per la Cattedrale.

Anche l’anno non è esatto, leggo, infatti, con certezza, sul medesimo progetto redatto a matita: 1714. L’errata lettura, 1764, è dovuta ad una goccia di inchiostro, caduta accidentalmente sul numero quattro e che si estende verso il sette.

In basso a sinistra è scritto a penna:

Io Gio(v)anni Dotti m(ano) p(ropri)a 1714.

Ritorna nel 1766 Carlo Tacchini con una Macchina il cui disegno è stato eseguito anche a stampa, da matrice di rame. Nel 1776 la Macchina cade alla partenza da Piazza del Plebiscito.

Giovanni Battista Faure, nella sua opera sul Decreto di re Desiderio, ci svela una modesta ma singolare notizia in merito allo stemma di Viterbo, «io stesso in quest’anno 1777 nella machina di S. Rosa ho veduto nell’Arma [del Comune di Viterbo] il Leone con la Palma senza il F.A.V.L.».

Il governatore Angelo Altieri e i conservatori della Città ordinarono, per il 3 Settembre 1782, il solito sgombero delle strade ove passava la Macchina, la chiusura delle botteghe, l’abbassamento delle tettoie sulle porte ed inoltre:

«levare corde stese attraverso le dette strade, cordini, fili di ferro, pertiche, rastrelli, frasche da Bettole, o qualunque altra cosa, che possa esser d’impedimento al transito libbero della suddetta Macchina e finalmente ordiniamo che giunta la medesima su la Piazza della Chiesa di S. Rosa nissuno ardisca salirvi sopra, spogliarla di cartoni, Pitture, figure, ornati, ed altro, ò in qualunque maniera strapparla, e lacerarla, sotto le pene in caso di disubedienza, comminate nella Rubrica 18 del libro quarto dello Statuto e altre anche maggiori a nostro arbitrio da incorersi irremissibilmente».

Un disegno della Macchina del 1783 in acquerello e china, conservato al Museo, è opera di anonimo.

Giorgio Falcioni, riferisce però che Domenico Sansoni ha attribuito il disegno ad Adamo Giusti.

In quell’anno Angelo Altieri, governatore, il 3 Settembre, comunica che «seguirà questa sera circa le ore due della notte la solita Processione con il trasporto della Macchina di detta Santa. 

Il giorno seguente poi 4 del corrente dopo le ore venti si farà la solita carriera della Lotta de Cavalli per strada nuova [Via Cavour] verso S. Sisto, e circa le ore 23 Corsa de Barberi dentro la Città, la sera poi verso le ore due della notte sulla piazza della Rocca si incendierà la Macchina del Fuoco Artifiziale. 

Venerdì poi 5 si farà altra Corsa di Cavalli in Truppa per la Strada della Quercia, e sabato susseguente altra corsa parimente di Cavalli in Truppa dentro la Città. 

Quindi Domenica 7 del mese suddetto circa le ore due della notte sulla Piazza detta del Commune si farà un Girellone di fuoco Artifiziale, con che resterà compita la Festa».

I due documenti sopra riferiti sono conservati nella Biblioteca comunale degli Ardenti assieme ad altri simili, di anni successivi.

Nel 1786 venne ricostruita la tettoia che copriva la Macchina perché era assai rovinata e non dava più il riparo necessario. Infatti, nella seduta del Consiglio generale, tenuta il 22 Luglio di quell’anno, tra l’altro si disse:

«il luogo da situarsi la Machina di essa Santa, si trova quasi diruto» è necessario quindi «il sollecito ristabilimento di esso sito».

Ma il trasporto di quell’anno è memore della caduta della Macchina avvenuta all’inizio della salita di santa Rosa, dove in quel tempo era il termine del trasporto.

L’anno seguente a chiusura della festa venne organizzata la giostra della bufala in Piazza del Comune «doppo le ore 20».

Dal 1790 al 1792 si trova autore della Macchina tale L. Romani. Purtroppo, però, al suo primo trasporto la mole cadde in terra alla mossa e furono tali i danni, che non fu più possibile raddrizzarla.

Ancora un disegno di ignoto distingue la Macchina del 1794, eseguito ad acquerello ed inchiostro; a destra dello stesso è la scritta a penna:

«Alzate le / colonne / un altra / testa / per renderl[a] / più svelta».

Falcioni dice che è attribuito a Adamo Giusti.

Tommaso Giusti è l’autore di quella costruita nel 1797.

Con notificazione divulgata con manifesto del 13 Fruttifero (30 Agosto), anno VI repubblicano, 1798, il pubblico era avvisato che il 17 Fruttifero «oltre il solito Vespro in scelta musica, alle ore 2 della notte seguirà il solito trasporto della Machina di essa Santa».

Il giorno seguente, alla mattina, nella Chiesa di santa Rosa venne tenuta la messa cantata e «il dopo pranzo alle ore 20 italiane la lotta dei Cavalli; alle ore 22 la Corsa dei Barberi in Città; e la sera alle due della notte s’incendierà alla Piazza della Rocca la Machina artificiale; nel giorno appresso 19 detto vi sarà la mattina alle ore 15 altra Corsa di Barberi in Città; e nel dopo pranzo la Corsa del Saracino alla Rocca, che si fà dagli Officiali della Guardia Nazionale.

Il giorno 20 in fine vi sarà nella mattina altra corsa dei Barberi in Città parimenti, ed il giorno dopo pranzo la Giostra della Bufola nella Piazza della Municipalità detta del Commune».

Sempre nel 1798, quando il Comune concorreva alle spese con centoottanta scudi, venne pubblicato, a mezzo manifesto, l’elenco dei Devoti Cittadini, e veri Patriotti, che offrono Doni gratuiti per Solennizare la Festa della Gloriosa Nostra Concittadina S. Rosa. L’elenco fu fatto in tre note, ossia in tre elenchi, tanto numerose furono le offerte, e «per appagare il giusto desiderio del Popolo si notifica, che tutto il denaro si erogherà alla maggior pompa della Festa».

Il trasporto del 1799 fu rinviato al 27 Ottobre a causa della morte di papa Pio VI.

 

Ottocento

Di ignoto è il modello del 1800, il cui disegno ad acquerello e inchiostro è conservato nel Museo. Un manifesto del 22 Luglio 1800 elenca i Deputati per la Questua, questi avevano il compito di raccogliere offerte per finanziare la Festa di santa Rosa. Venivano nominati due questuanti per parrocchia e altri Per la Questua alle Are de’ Grani, ed altri Commestibili, Per la Questua colle Borse in Città.

Erano anche eletti alla Direzione, ed Essecuzione della Festa due rappresentanti ciascuno, per i nobili, per i cittadini, per i mercanti, per gli artisti e per i contadini.

Possiedo un invito del 1800 destinato ai facchini del seguente tenore:

«D’Ordine degl’Illustrissimi, ed Eccellentissimi Signori Conservatori di Viterbo. Domani [spazio in bianco per il giorno] dello spirante Agosto alle ore [spazio per l’ora] in punto vi troverete nel Palazzo Conservatoriale per la divisione delle file, onde trasportare la sera dei 3 del prossimo Settembre la Macchina della Gloriosa Concittadina S. ROSA, altrimenti & c.

Dato in Viterbo dalla Can. Conservatoriale questo dì [spazio per il giorno].

G. Stefani Can. Conservatoriale». 

Invece ecco il testo per l’invito alla processione:

«V.S. è pregata ad intervenire alla Processione della Gloriosa Nostra Protettrice S. Rosa per la sera del dì 3 Settembre alle ore due in punto. I Deputati».

L’autore della Macchina dell’anno seguente, 1801, non è noto, ma è giunto a noi il disegno sempre in acquerello e china, ora al Museo. Comunque Domenico Sansoni scrive, sul giornale La Rocca del 3 Settembre 1924, che l’ideatore è l’architetto Tommaso Giusti.

In quel trasporto del 3 Settembre, morirono ventidue persone. Giovanni Panzadoro, nel 1832, scrive che ne morirono trentatre, a causa di una caduta in terra di una donna, tale Sensi di Grotte santo Stefano, che era stata derubata da alcuni borsaioli e che provocò, in Piazza Fontana Grande, gravi momenti di panico agli spettatori per le grida della donna stessa. 

Fu travolta, in quell’occasione funesta, anche la processione che accompagnava il trasporto, tanto che morirono quattro canonici: Bartolomeo e Vincenzo Orioli, Pier Felice Zelli Jacobuzzi e Giovanni Mariani. La Macchina restò, per fortuna, salda sulle spalle dei facchini avanti al Palazzo Fani per almeno mezz’ora, perché quest’ultimi attendevano lo sgombero della via.

Di diversa opinione è Francesco Cristofori che sul suo giornale Viterbo, del 17 Dicembre 1905, scrive:

«quando in Via Conti (ora Garibaldi) si sbrigliarono alcuni cavalli della cavalleria Pontificia, cagionando un panico terribile, in cui trovarono la morte xi [11] persone. I facchini dovettero per lungo tempo sostenere sulle loro spalle la macchina, ma essa aveva subito dei danni, in modo che ben presto s’incendiò e, giunta in Piazza Vittorio Emanuele, fu dovuta abbandonare».

Infatti, come riferito dal Cristofori, ripreso il percorso la Macchina andò a fuoco in Piazza delle Erbe e fu lì abbandonata alle fiamme.

L’anno seguente per disposizione papale fu ridotta l’altezza della Macchina e fu trasportata di giorno per evitare il pericolo dell’illuminazione coi moccolotti di cera, causa troppo spesso d’incendi.

Padre Pio Semeria (1767 - 1845) nelle Memorie redatte intorno al 1825, scrive:

«nel 1801 nella sera del dì 3 di settembre, la calca della gente vicino alla Chiesa di S. Domenico [era all’imbocco dell’attuale Via Tommaso Carletti da Via Garibaldi] era tale, che non potendosi, al venire della Macchina, ritirare, i facchini, che la portavano, furono costretti di urtare, atterrare, e passare sopra quelli che cadevano, in tale circostanza restarono morti uomini e donne, e canonici, non pochi, e non pochi feriti. La macchina poi, giunta alla piazza dell’Erbe, andò a fuoco; e tutti quelli, che erano concorsi, ritornarono alle loro case pieni di spavento».

Con manifesto del 13 Agosto 1802 il delegato apostolico, Paride Giuseppe Giustiniani, comunicò che la segreteria di Stato, su disposizione del pontefice, vietava lo svolgimento della Festa di santa Rosa:

«La Machina sopra cui si trasportava in passato la Statua della Santa si riduca a quell’adequata costruzzione che esclude umanamente ogni pericolo di ruina; Tutti li Spettatori attribuivano ad un prodigio se l’antica Machina non traboccava, e non si rovinava; E’ precetto divino il non tentare il Signore».

Il trasporto fu comunque sospeso fino al 1810 e, secondo alcuni storici, si proibì da allora che la processione si effettuasse lo stesso giorno del trasporto della Macchina. In realtà il corteo religioso restò unito con il trasporto almeno fino al 1834.

Fu anche deciso, per maggiore sicurezza, che la Macchina effettuasse una sosta su specifici cavalletti in Piazza Fontana Grande.

Scrive ancora Francesco Cristofori sul giornale di cui sopra:

«non si volle più che essa fosse preceduta da quella imponente processione, a cui prendevano parte anche le nobili dame della città. E vi rimase solo un piccolo numero di frati minori Conventuali; poi nel mdccclxx del decorso secolo fu tolto ogni apparato religioso».

La ricorrenza in onore di santa Rosa senza Macchina era comunque punitiva per una tradizione così importante e sentita da tutta la città; da un manifesto del 22 Agosto 1803 leggo lo svolgimento della festa.

Il 3 Settembre alle ore 22 veniva effettuata la processione che dalla Cattedrale di san Lorenzo raggiungeva la Chiesa di santa Rosa, «in cui si portarà l’Immagine nella Machina [si tratta ovviamente del puro e semplice baldacchino] a tale effetto destinata; ed alle ore 23 si cantaranno i primi Vesperi con scelta Musica, e la sera alle ore 2 si incendierà un Girello Artificiale nella piazza della Communità».

Il giorno 4, dopo la messa cantata ed un concerto di violoncello tenuto dal maestro Enrico Cornet, vennero sparati alcuni colpi di mortaio.

Nel pomeriggio venne effettuata la corsa dei cavalli a pieno, col premio di un palio di raso verde, seguita da una corsa di cavalli Barberi, col premio di un palio di lama d’argento. A notte inoltrata veniva incendiata la Macchina Artificiale di ricercato disegno, ed abbondante di Fuochi.

Il 5, nella mattinata, fu tenuto un incontro poetico nella Chiesa di santa Rosa, organizzato dagli accademici dell’Accademia degli Ardenti e nel pomeriggio fu realizzata una corsa dei cavalli barberi col premio di un palio di lama d’oro. Il successivo 6 Settembre «vi sarà la Caccia delle Bufole molto brave alla Giostra».

Ma il sangue che scorre nelle vene dei Viterbesi non è acqua e tanto fecero e tanto pressarono, che il tradizionale trasporto della Macchina fu ripreso.

Così, con manifesto del 16 Gennaio 1810, il maire, Spreca, avvisò i Viterbesi che «La Festa dell’inclita nostra protettrice, e Concittadina S. Rosa è ripristinata in quest’anno alla primiera Magnificenza. 

L’antica Macchina quel sorprendente ornamento, oggetto dell’ammirazione devota dei Nazionali, e dell’Estero, Trofeo visibile delle sue glorie torna a rallegrare in quest’Anno le nostre Contrade. 

Erano troppo vivi, e toccanti i vostri desiderj, perchè non fossero da noi presentati ed avvalorati dal Vice Prefetto Sig. Giulio Zelli Pazzaglia, e quindi esauditi dall’ottimo Sig. Tournon Prefetto di questo Dipartimento». In quel periodo la giostra delle bufale si teneva in un anfiteatro, appositamente costruito, fuori Porta della Verità.

Il disegno del 1810, al Museo, presenta una Macchina assai diversa da quella che fino allora era un vero e proprio baldacchino, più o meno ampio, infatti, al barocco subentrò il neoclassico con linee più sobrie e ordinate.

L’architetto Giuseppe Simelli è l’autore della Macchina del 1812, ai piedi di una stampa riproducente la mole, incisa su lastra di rame da Giuseppe Mochetti, è scritto:

Prospetto geometrico della Mole Trionfale eretta in onore di S. Rosa di Viterbo, e portata processionalmente / per la stessa Città l’anno 1812 la sera dei 3 Settembre Vigilia della Festa di detta Santa / Al nobil uomo / il sig.r Pier Giovanni Pocci membro del corpo l egislativo / Giuseppe Simelli architetto D.D.D.

Sul fronte della base della Macchina era la scritta:

A S. Rosa di Viterbo / la Patria riconoscente / eresse l’anno MDCCCXII.

Con manifesto del 25 Settembre 1813 i deputati alla Festa di santa Rosa, Pietro Liberati e Carlo Polidori, pubblicarono le entrate e le uscite per la manifestazione. Risulta dai conti che le entrate superarono le uscite di trentotto scudi e cinquanta baiocchi, c’è da dedurre che gli amministratori di allora erano molto più abili di quelli attuali.

La Macchina risulta costare in quell’anno duecentosessantacinque scudi e settanta baiocchi, i fuochi d’artificio centoottanta scudi, le corse quarantotto scudi e 61,5 baiocchi.

Tra le entrate la quota maggiore era del Comune con centocinquanta scudi, poi veniva l’Arte Agraria con cento scudi ed i nobili con sessantadue scudi e 51,5 baiocchi. Sborsavano scudi anche le arti, i titolari delle carrozze, il clero ed importante era la Questua delle Borse che procurava cinquantotto scudi e 47,5 baiocchi. Chi aveva contribuito meno di tutti erano i sellai con due scudi e trenta baiocchi.

Il pittore viterbese Domenico Costa (1786 - 1856) fu il costruttore della Macchina trasportata dal 1814 al 1815. Il primo trasporto non poté essere effettuato il 3 Settembre per l’assenza del delegato apostolico, il 4 seguente fu rinviato per la pioggia ed il vento, il 5 sembrava tutto in ordine, ma alla mossa, per un comando errato, la Macchina cadde indietro, uccise due facchini e distrusse la tettoia che la custodiva.

Ripresa in mano la situazione, fu caparbiamente trasportata, ma all’altezza del Palazzo Bussi a metà Corso Italia, forse, ritiene Giuseppe Signorelli, per la mancata distribuzione dei pesi, i facchini stremati non riuscirono più a tenerla in piedi, tanto che cadde; alcuni di loro rimasero uccisi e altri gravemente feriti. In quell’occasione fu comunque innalzato un aerostato ed illuminata la Torre di Piazza del Comune.

La spesa sostenuta dalla Comunità per la realizzazione della Macchina di santa Rosa fu di duecentosettanta scudi, mentre per tutto il resto delle manifestazioni, l’importo in scudi era di 890,57. 

Non è d’accordo con la tesi della caduta della Macchina al Palazzo Bussi, Giorgio Falcioni, il quale sostiene che tale fatto accadde sei anni dopo.

Comunque la notizia della caduta della Macchina avanti al Palazzo Bussi nel 1814 è riferita anche dalla Gazzetta di Viterbo del 1° Dicembre 1877 nell’articolo:

«Cose patrie […].

Anche il 1814 fu funestato dalla caduta della macchina di S. Rosa. Cadde avanti il palazzo Bussi, e vi morirono alcuni facchini. Mentre lentamente piegavasi e cadeva, la popolazione ebbe campo di allontanarsi senza pericolo».

Il successivo 7 Settembre la Macchina, che stava per essere allestita per il trasporto, venne smontata per ordini superiori. Che la Macchina nel 1814 cadde è certo; infatti, possiedo due ricevute che lo testimoniano. 

Leggo:

«Dalla Segreteria Conservatorile Viterbo 1 Ottobre 1814. Sig.r Santori si compiacerà dare a Caterina Sanna Moglie di Giuseppe Sanna Facchino danneggiato nella caduta della Machina, staro uno grano che gli sarà abonato nei conti della Festa. 

  1. [Lazzaro] Arcangioli Conservatore Provinciale».

Ancora in data 28 Settembre 1814, a firma del conservatore Lazzaro Arcangioli:

«Il Sig. Santori potrà far consegnare a Vincenzo Laurenti Facchino danneggiato nella caduta della macchina mezza una grano sconcio».

Il 17 Settembre 1814 la stessa quantità di grano fu data a Teresa moglie di Rosato Amantini «attualmente infermo per la caduta della macchina». Di quest’ultimo è conservata nella Biblioteca comunale degli Ardenti, la lettera inviata ai conservatori di Viterbo alla fine di Settembre 1814, con la quale riferisce:

«Eccellenze. Rosato Amantini detto Brinato osservatore umilissimo delle Eccellenze Loro con tutto ossequio espone essere uno degli infelici a cui la macchina di S. Rosa gravitò in modo sopra le di lui gambe che è stato circa un mese con dolori di spasimo, e con pericolo di cancrena con spesa incredibile di Chirurgi, e di speziaria: Chiede de’ residui delle Elemosine della Festa di santa rosa di essere almeno rifatto delle spese».

Ancora una lettera di quel periodo:

«Eccellenze. Vittoria vedova del fù Pietro Nicolini, e Giacinta di Prospero vedova del fù Gio: di Prospero la prima con tre figli, la seconda con quattro, e gravida di mesi otto osservatrici umilissime dell’Eccellenze Vostre devotamente rappresentono essere i loro mariti periti sotto la macchina di S. Rosa, e trovandosi nella classe de’ veri indigenti, e senza mezzi di poter sussistere, pregono che li residui delle questue ed altro addetti per la detta Festa si eroghino in sussidio di queste due desolatissime famiglie».

Il 6 Giugno 1815 venne realizzato un trasporto straordinario, il primo nella storia della Macchina di santa Rosa, per onorare la presenza di papa Pio VII, che era giunto in città proveniente da Genova.

Il papa assistette al trasporto dalla finestra del Palazzo dei priori che è in rettifilo con Via Cavour, in quell’occasione fu tolta la colonnina centrale della stessa finestra. Il pontefice, meravigliato ed entusiasmato, ammise i trentasei facchini al bacio del piede ed esclamò: Bellissima, rarissima!.

Scrive Giovanni Selli nel 1828:

«La sera poi [papa Pio VII] nel palazzo comunitativo si degnò di farsi spettatore della grandiosa macchina di S. Rosa disegnata dal sig. Domenico Costa. 

Questa macchina trionfale fu fermata incontro alla fenestra del S. Padre, e tutti i facchini furono ammessi al bagio del piede».

Nel 1816 è autore della Macchina Giacomo Zei, non si conosce però il disegno; nel 1818, il 3 Settembre, Benedetto Cappelletti, delegato apostolico, stilò un Regolamento per il buon ordine per la Festa di S. Rosa. 

Veniva tra l’altro ordinato «che la mattina delli 3 Settembre imminente Vigilia della Festa all’ora del mezzo giorno, o anche prima siano tutte le così dette mostre delle Botteghe e fermate le porte delle medesime che nello stare aperte potessero recare impedimento al passaggio della Macchina suddetta dalla Piazza di S. Sisto a Piazza del Commune, e da detta Piazza insino a S. Rosa dipinta inclusivamente allo spiazzato suddetto.

Nel movimento della Macchina medesima si osserverà il metodo seguente; alla mezz’ora della sera sarà sgombrato di Persone e non potrà da alcuno traversarsi il tratto di Strada che dalla Piazza di fontana grande và direttamente a S. Sisto, e chi dopo detta mezzora vorerà portarsi alle Case particolari che hanno Balconi per detta strada duvrà portarvisi per le altre strade indirette che vi communicano.

All’ora stessa della sera poi lo sbarro del Mortaro avviserà a tutte le Carrozze e Legni di qualunque sorte, che si ritirino da tutto il tratto di strada per cui và a passare la Macchina, e non potranno impostarsi ancorchè nude di Cavalli nemmeno per le strade, e vicoli che fanno testa o communicano colla detta strada, l’osservanza di quest’ordine obbliga li Proprietarj, e conduttori delle Carrozze stesse o vetture senza alcuna distinzione, e le vetture, o cambiature che potessero giungere alle Porte in detta ora, o durante il tempo della Processione passaranno fuori le mura della Città.

All’ora una il secondo avviso del Mortaro annunciarà l’imminente mossa della Processione, e della Macchina, ed all’istante il tratto di strada che da Piazza S. Sisto và a quella del Commune luogo di fermata di detta Macchina, dovrà ne siti meno spaziosi sgombrarsi del tutto, e vuotarsi affatto di gente, la quale potrà restare nelle Piazze, dentro il barricato di esse, sul passaggio della Processione, o nelle Botteghe nelle quali piacerà ai Padroni di ricevere.

Un terzo e consimile avviso si darà allorchè la Macchina si muove dalla Piazza del Commune per fermarla a quella di S. Rosa dipinta, perchè la Gente lasci libero, senza che alcuno possa fermarsi che il tratto di strada, dal cantone della Piazza del Commune và sino all’altra Piazza dell’erbe e possa regolarsi come nella prima mossa, ed arrivata poi la Macchina alla Chiesa della SANTA, luogo di posata un quarto sparo avviserà, che le Carrozze possono rimettersi in corso. In tutte le levate, e posate della Macchina nessuno ardirà di alzar voce, e dar segni, o indizj di mossa o posata essendo questo di sola attribuzione del Capo facchino che guida la Macchina stessa.

Chiunque finalmente ardirà d’infastidire, urtare fare ombra, spavento alli Cavalli, e Barberi in carriera sarà punito col carcere a nostro arbitrio, e tenuto inoltre alli danni che potessero avvenire, e preso in fraganti sarà immediatamente arrestato; come verrà severamente punito chiunque nella Giostra, o nell’incendio de’ Fuochi artificiali si farà autore e complice d’inquietezze, e disordini nelle giostre che si daranno nel solito anfiteatro a Prato Giardino, saranno esattamente osservate le regole solite pratticarsi in simili spettacoli».

Nel 1817, 1818 e 1819 con manifesti pubblicati verso la fine di Agosto si avvisava il pubblico che, oltre al passaggio della Macchina, si sarebbe effettuata la lotta dei cavalli col fantino, la corsa dei cavalli barberi e l’incendio del fuoco artificiale in Piazza della Rocca. Oltre a ciò si sarebbero tenuti: la giostra di bufale e di tori «nel nuovo Anfiteatro fuori di Porta Fiorentina a Prato Giardino», il suono della banda e lo sparo dei mortari. 

Infine «Nel Teatro del Genio agiranno in tal circostanza due diverse Compagnie di Musica, e Prosa».

 

Angelo Papini

Della Macchina del 1820 è conservato al Museo civico il bozzetto a tempera, acquerello e china, autore è Angelo Papini. Questo suo trasporto, il primo di una lunga serie, ebbe un tragico epilogo, infatti la Macchina cadde avanti alla Chiesa di sant’Egidio. Per fortuna nessuno venne ferito assai gravemente, solo Paolo Nanni restò storpio per la rottura di una coscia. Egli venne accusato di aver abbandonato la sua postazione, ma una volta chiarito il comportamento del facchino, il Comune gli concesse un sussidio, per più anni, di diciotto scudi.

Leggo dalle Memorie di padre Pio Semeria:

«Nella sera del dì 3 di settembre [1820] la Macchina di S. Rosa, più alta del consueto [infatti, Virgilio Papini, nel 1948, dichiara sul giornale Il Messaggero, che fu elevata da sei a sedici metri], urtò più volte nelle gronde dei tetti, e finalmente [sic!] cadde vicino alla Chiesa di S. Egidio».

Scrive Francesco Cristofori, sul suo giornale Viterbo del 17 Dicembre 1905, in merito ad una singolare invenzione del Papini, si trattava delle zampe della Macchina regolabili nell’altezza, grazie ad un sistema a vite:

«Però da quell’anno [1820] in poi, grazie ai piedi levatoi, inventati da Angelo Papini, ogni pericolo di caduta fu scongiurato. E così nessuna disgrazia si ebbe più a deplorare, ed il buon popolo viterbese poté, con la massima tranquillità d’animo acclamare ogni anno il passaggio trionfale della cosa di cui va più orgoglioso: la macchina di S. Rosa».

E’ questo il periodo in cui la Macchina venne modificata all’incirca ogni anno, autore è sempre Angelo Papini. I suoi progetti a tempera, china e acquerello sono conservati al Museo e si riferiscono agli anni 1821 e 1824. L’anno precedente non fu possibile trasportare la Macchina per la morte di papa Pio VII, avvenuta il 20 Agosto 1823.

Altri disegni di Papini sono degli anni 1825, 1826, 1827, in quest’ultimo appaiono raffigurati per la prima volta anche i facchini che sostengono la mole trionfale.

In quegli anni la Macchina costava: duecentosettanta scudi nel 1823, trecento nel 1826 ed era illuminata da centoventi torce e centotrenta candelotti, che nel 1828 aumentarono a trecentocinquanta ceri. In basso al disegno della Macchina di santa Rosa del 1826 è scritto a penna:

Prospetto geometrico della gran Mole trionfale di S. Rosa di Viterbo / per l’anno 1826 - Al merito di S. E. il sig(no)r Gonfaloniere, ed Ill(ustrissi)mi signori anziani della Città / Angelo Papini inv. off. dedic[ò].

Il prospetto della medesima Macchina fu anche realizzato a stampa con lastra di rame, nella parte bassa è la scritta:

Angelo Papini inventò / Prospetto geometrico / della gran mole trionfale di S. Rosa di Viterbo / A S. E. il sig. Giulio Zelli Pazzaglia / Cav(alier)e dell’Ordine di S. Stefano, P. e M. della Legione d’Onore, / e di altri Ordini, Ciambellano di S. A. I. e R. il Gran Duca / di Toscana &c. &c. &c. delle belle Arti amatore e proteggitore / Domenico Corsi in segno di vera stima e servitù D.D.D.

Al centro della dedica è lo stemma Zelli Pazzaglia.

Renzo Biaggi possiede una stampa di questa Macchina dedicata da Cesare Dolci a Pio IX (1846 - 1878), leggo:

Prospetto geometrico / della gran mole trionfale di S.ª Rosa di Viterbo / Don Cesare Dolci Suddito fedele della Santità di Nostro Sig.re Pio Nono felicemente Regnante dedica e si è / arbitrato in atto d’ossequio e venerazione.

Angelo Papini inventò.

A differenza di altre simili stampe, qui la mole è proposta tra due ale di fabbricati e con alcuni fedeli in preghiera.

Ancora disegni del Papini si hanno nel 1828, nel 1829 e nel 1830 in cui viene presentato il primo progetto della Macchina realizzato a colori.

Il modello della Macchina del 1828, a differenza di quanto asserisce Francesco Cristofori, sembrerebbe quello in cui la Macchina stessa si presentò con quattro viti, una per ogni angolo, per essere appoggiata in terra in caso di pericolo.

L’anonimo estensore de’ La Rosa strenna viterbese per l’anno 1875, riferisce, parlando di Angelo Papini:

«Questi nel 1828 concepì un disegno di stile detto ugualmente gotico, che sembrò meglio adattarsi a questa mole svelta ed acuta e prestarsi meglio alla moltiplicità degli ornati più che nol fosse qualunque altro ordine. Conteneva 100 colonne di varie dimensioni, 24 piramidi, 30 statue, 350 lumi di cera».

Leggo quanto scrive Giovanni Selli sul suo libro su santa Rosa, edito nel 1828, in cui viene specificato che la Macchina, prima di entrare in Piazza delle Erbe, deve essere ruotata dai facchini per entrarvi di fianco:

«Dopo un breve intervallo di tempo [dei facchini in Piazza del Comune] il capo di quei gagliardi li dispone di bel nuovo per continuare il mirabile trasporto, e alla invocazione della Santa proseguono coraggiosamente il divisato cammino. Ma oimè, che l’angustia della strada detta la calzolaria [Via Roma] non permette al trionfale convoglio il passarvi di fronte. 

Laonde i vigorosi atleti [i facchini] giunti a quel punto sono obbligati a voltarsi di fianco, e così camminare con maggiore incomodo per lo spazio di alcune canne: bello è il vedere quella torre ambulante, che si gira e si rivolta come sopra di un perno per adattarsi alla ristrettezza della via.

Giunti finalmente sulla piazza delle erbe ripigliano nuovamente l’ordine e il primitivo procedimento con universale ammirazione, sinchè trapassata tutta la via della svolta giungono a S. Rosa dipinta ove il sorprendente colosso si posa per la seconda volta. Colassù è il tempio: si vede già il luogo della prefissa meta; ma la salita è ardua: i facchini sono stanchi dalla pregressa fatica. Santa Rosa infonde nei loro petti di bronzo una forza straordinaria, ed incollatasi nuovamente la pesantissima mole in pochissimi istanti la trasportano sulla piazza del suo sagro tempio. Ivi la collocano sopra i cavalletti dirimpetto alla porta maggiore del monastero.

Gli applausi, gli evviva,, le acclamazioni, le lagrime di tenerezza, che versa l’immenso popolo non si possono descrivere con parole. Bisogna trovarsi presente al sorprendente spettacolo per poterne formare idea giusta ed adeguata». 

Poi descrive la caratteristiche tecniche della Macchina:

«è alta palmi architettonici 70, e larga palmi 21. Queste dimensioni sono fisse ed inalterabili, a causa delle strade per cui deve passare. 

Tutto il materiale è di legno ben solido con fermezze e catene di ferro. L’esterna superficie è formata di tela o di cotone vagamente dorato e dipinto. Il peso totale della medesima è di libbre otto mila; sostiene inoltre 700 libbre di cera.

Il disegno e le pitture sono variabili in tutti gli anni; ma le parti propriamente costituenti possono ridursi a quelle, che ora descrivo. Sopra un solido basamento, che forma l’infima parte della gran mole si erge un maschio cinto alle volte da un ordine di colonne o di pilastri, ovvero da varie statue di rilievo di gigantesca grandezza, situate in diversa attitudine secondo l’idea dell’artista inventore. Segue un cornicione di diverso ordine di architettura, e sopra quello s’innalza un tempietto ove si osserva la gloriosissima Santa, rappresentante qualche punto più cospicuo delle sue mirabili gesta.

Gli ornamenti e il finale del tempietto sono i più vaghi e i più sorprendenti. Già da molti anni il disegno e l’esecuzione della macchina è commesso al sig. Angelo Papini pittore viterbese di molta abilità. Falegname macchinista è Luigi Morini, incaricato del trasporto come capo dei facchini è Vincenzo Gerbi».

E’ del 1829 una stampa della raccolta di Renzo Biaggi, che riproduce la Macchina, dedicata da Angelo Papini al governatore Benedetto Capelletti.

Altri disegni in Museo di Angelo Papini sono degli anni 1831, 1832, 1833, due del 1836, uno del 1837 quando la Macchina è rinviata per l’epidemia di colera che aveva colpito la Capitale e anche la nostra città, questo modello sarà ripetuto fino al 1839. In basso al disegno della Macchina di santa Rosa del 1831 è scritto a penna:

Prospetto geometrico della Machina di S. Rosa di Viterbo per l’anno 1831 Angelo Papini.

Nel disegno ad acquerello e tempera, del 1832, è scritto a penna:

Trasporto della Macchina di S. Rosa di Viterbo veduta nel punto della Piazza di Fontana Grande. / A S.E. il sig. conte Tommaso Fani Ciotti commendatore dell’ordine di S. Gregorio Magno, cav(alier)e dell’Ordine de’ S. S. Maurizio / e Lazzaro, gentiluomo di Camera, onorario di [S.A. i]l Re di Sardegna, gonfaloniere della Città di Viterbo / [Angel]o Papini inventore O.D.D. / 1832.

Al centro della scritta è lo stemma Fani Ciotti.

In un manifesto del 14 Agosto 1834 il gonfaloniere Domenico Polidori pubblicò il programma per la Festa di santa Rosa e di san Crescenziano martire, «nell’anniversario della traslazione dei loro Sacri Corpi».

Oltre il passaggio della Macchina erano previsti, le corse di cavalli, l’incendio della Macchina a scheletro in Piazza della Rocca, e «l’8 Settembre al mezzo giorno il suono festivo dei sacri bronzi annunzierà l’apertura della Festa di S. Crescenziano Martire. Alle 5 pomeridiane nella Ven. Chiesa della Visitazione, ove si venera il di lui Sacro Corpo si canteranno i solenni primi Vesperi in Musica».

Nello stesso anno fu proposto di rifare la tettoia, che copriva la Macchina, perché assai deteriorata e pericolante.

Una stampa incisa da Emmanuele Perniè della Macchina realizzata nel 1835, che fa parte della raccolta di Renzo Biaggi, è dedicata al cardinale Paolo Polidori del quale è riprodotto lo stemma.

Un’altra del 1839 invece e dedicata al delegato apostolico Giacomo Antonelli.

Giuseppe Marocco, nel 1837, scrive:

«Nel lato interno della porta romana si vede il locale ove si custodisce la macchina con cui si porta in processione s. Rosa di Viterbo».

In basso al disegno della Macchina di santa Rosa del 1837 è scritto a penna:

Prospetto della grandiosa mole trionfale di S. Rosa costruita per il trasporto dell’anno [1837]. / A sua Eccel(lenz)a Re(verendissi)ma m(onsign)or Giacomo Antonelli / delegato apostolico di Viterbo / Angelo Papini di Viterbo inventore ed esecutore / O. D. D.

Stefano Camilli, nel 1840, descrive così la Macchina:

«La ricorrenza poi di tale traslazione [quella del corpo di santa Rosa] si solennizza nel giorno 4 Settembre di cadaun anno con musiche sacre, e marziali, con processione, fuochi artificiali, corse, ed altri spettacoli pubblici fra i quali è sorprendentissimo la costruzione di una “Machina” di mole trionfale sempre di nuova forma, e disegno, che in altezza sorpassa le più alte abitazioni, e decorata de’ più fulgidi ornati, e copiose faci vien trasportata a dosso d’uomini sul tratto di circa un miglio in mezzo all’affluenza di copiosissimo popolo della Città, della Provincia, e d’esteri paesi».

Nel disegno della Macchina del 1841, alta quattordici metri e mezzo, sono raffigurati anche il capo facchino e le guide, è questo il modello che il 3 Ottobre fu trasportato in onore di papa Gregorio XVI, che ammirò la Macchina da un palco apposta allestito, in rettifilo con l’attuale Via Cavour. 

Le prime file dei facchini, che hanno raggiunto il numero di quarantacinque, giunti con la Macchina in Piazza del Comune, su ordine di Angelo Papini, piegarono un po’ le gambe per far fare un inchino alla mole davanti al papa, il quale rimase stupito assieme ai presenti.

Per l’occasione, come ho riferito, il Comune coniò una medaglia con l’effige del papa ed il suo nome intorno e dalla parte opposta la scritta:

Sanctissimi / principis adventu / S.P.Q. Viterbiensis / A. MDCCCXLI.

Il calco in acciaio della medaglia trovo notizia che venne conservato al Museo civico.

In basso al disegno della Macchina di santa Rosa del 1841 è scritto a penna:

Prospetto della torreggiante mole solita costruirsi in ogni anno di nuovo disegno […] S. Rosa di Viterbo. Il trasporto solenne accade i 3 Settembre vigilia della […] mons. Girolamo de’ marchesi D’Andrea delegato apostolico di Viterbo / Angelo Papini inventore ed esecutore O. D. D 1841.

Al centro della scritta è lo stemma D’Andrea.

Altri disegni, opera di Angelo Papini, giunti fino a noi, sono degli anni 1842, 1843, 1844, 1845, quando la Macchina, per i lavori di costruzione della Chiesa di santa Rosa, venne portata fino a Piazza della Rocca.

Nel disegno a tempera acquerello oro ed inchiostro del 1843 è scritto a penna:

Veduta del trasporto solenne della Macchina di S. Rosa, dal punto, che dalla Piazza / del Commune muove, verso quella delle Erbe. Per l’anno 1843 / Angelo Papini inventò e costrusse.

Nel disegno del 1844 con lo stemma Pocci, è scritto:

A sua eccellenza il conte Cesare Pocci / gonfaloni[ere] della Città di Viterbo / Angelo Papini inventore ed esecutore O.D.D. / 1844. 

Papini disegnò anche il progetto del 1846; in quell’anno la mole venne fermata a Piazza della Vittoria, all’epoca Piazza dell’Oca, e realizzò anche quelli degli anni 1847, 1848 e 1849. 

Nella metà del secolo XIX la Festa di S. Rosa vergine si svolgeva nei giorni 3, 4, 5 e 6 Settembre. Ad esempio, con manifesto del 3 Agosto 1845, veniva comunicato dal gonfaloniere Cesare Pocci il seguente programma: il primo giorno, al suono della campana della Torre del Comune e al rombo delle artiglierie, si dava inizio alle solennità con i primi Vesperi celebrati nella Chiesa di san Lorenzo, ove si teneva anche un concerto, poi alle «ore 8 pomeridiane l’Autorità Municipale, la Truppa Civica egli altri Corpi di guarnigione decoreranno il trasporto della trionfale Macchina di S. Rosa».

Il giorno successivo, alle ore 9, le autorità governative, municipali e i vari corpi militari, sempre a san Lorenzo, assistevano alla messa pontificale con musica. 

Alle ore 3 pomeridiane in Via Cavour, l’allora Strada Nova, veniva effettuata la corsa dei cavalli con fantino, poi alle 5 di nuovo si cantavano i Vesperi con musica e alle 6 era prevista ancora una corsa di cavalli Barberi, che da Porta Fiorentina giungeva a Piazza del Comune.

Alle 8 di sera venivano poi sparati i fuochi artificiali in Piazza della Rocca caratterizzati, quell’anno, da «una magnifica prospettiva rappresentante una Badia del medio evo».

Il giorno 5, alle ore 11, dall’Accademia degli Ardenti nella Sala regia del Palazzo dei priori, ove risiedeva, venivano celebrate le gesta di santa Rosa e alle ore 6 pomeridiane si svolgeva un’altra corsa di cavalli Barberi lungo il viale che conduce alla Quercia.

Il giorno 6, infine, alle 4 e mezza del pomeriggio avveniva l’estrazione della Tombola in Piazza del Comune, con incendio del fuoco d’artificio alle 8 sulla piazza stessa, non mancavano inoltre gli appuntamenti operistici.

In altri anni, ad esempio nel 1829, tra le varie attrazioni veniva illuminata la città, si procedeva all’incendio del «fuoco d’artificio lavorato, e diretto da celebre fuochista romano, e disposto sopra una macchina di nuovo disegno, ed invenzione». Veniva effettuata, inoltre, in Piazza del Comune la giostra delle bufale e dei tori; in seguito, tra la fine dell’800 e inizi del ‘900, si teneva fuori Porta Fiorentina. Il gioco dei giostratori consisteva nell’atterrare la vaccina o il bufalo con la sola forza delle braccia afferrandogli le corna.

Scrive Carlo Antonio Morini sul suo Straccifojo:

«Addì 22 settembre 1853 nella piazza della Commune a Viterbo vi fu la giostra di bufele vaccine e due torette giostrate da due ragazzi. Cominciorno la giostra alle due e mezzo doppo mezzogiorno. 

A ore tre e mezzo cadde un palco accanto al cantone del Guverno infino alle colonne con molte gente sopre. Gran quantità de gente rovinate e due con rotte le osse ma non morte.

Alle ore 4 doppo ameridiane nella stessa piazza vi fu il gioco della tommola col premio napolioni ducentocinquanta e poi ricominciò la giostra e terminò alle ore 6 di sera. Così fenì il divertimento».

La giostra delle bufale e delle vaccine fu soppressa nel 1849 perché, scrive Andrea Pila, Commissario pontificio straordinario, «gl’individui soltanto irreflessivi, e di non molta educazione ornati, possono trovar piacere, e diletto nel vedere uomini senza considerazione esporsi ai più gravi pericoli per lottare con bestie indomite».

Nel 1850 morì Angelo Papini e venne riproposta la Macchina del 1840 che fu guidata dalla moglie Rosa la quale venne coadiuvata dai figlioli.

E’ la prima volta che una donna si pone alla guida della Macchina.

Rosa Papini nel 1851 presentò il modello della Macchina di santa Rosa disegnato dal figlio Raffaele, che venne approvato dal Comune. Nel 1852 fu riproposto dalla donna il modello della Macchina, disegnato dal marito, sfilato nel 1825. 

Nel 1853 ripropose il modello del 1830 e nel 1854 quello del 1842.

 

Vincenzo Bordoni

Nel 1855 subentrò un altro costruttore, lo scultore Vincenzo Bordoni, il quale aveva studiato all’Accademia di Belle Arti di Roma, questi realizzò sette Macchine, in sette anni successivi, fino al 1861. Il trasporto del 1855 fu rinviato al 4 Settembre per il cadere della pioggia, costò al Comune quattrocento scudi.

Non dovette correre una buona relazione tra i costruttori, infatti Bordoni fu in discussione con la famiglia Papini, perché quest’ultima si rifiutò di dargli lo zoccolo e gli utensili necessari per la costruzione della Macchina.

Nel progetto del 1856 è la scritta: Vincenzo Bordoni inventò e disegnò / nel 1856.

Il 3 Settembre 1857 la Macchina di Bordoni, alta tredici metri e quaranta centimetri, fu trasportata alla presenza di papa Pio IX che poté ammirarla dalla prima finestra a destra del primo piano del Palazzo dei priori, alla quale fu tolta la colonnina centrale per consentire al pontefice una migliore visione della manifestazione.

La Macchina, grazie ai facchini delle prime file che piegarono le gambe, si inclinò in avanti a mò di inchino ed il papa fu talmente entusiasta che ammise i cinquantatre facchini ed il costruttore al bacio del piede.

Così leggo sulla Memoria per la venuta di papa Pio IX:

«Questa gigantesca mole disegno e lavoro del Sig. Vincenzo Bordoni portata a spalla da cinquantatrè uomini, di stile gotico tedesco sopra una base quadrata di 18 palmi, si innalzava fino a 60: sullo zoccolo ornato a mosaico sorgea il piedestallo, nella faccia anteriore due Fame alate sostenevano lo stemma del Sommo Pontefice in bassorilievo trasparente a colori e in oro, e nelle faccie laterali erano le seguenti iscrizioni del sullodato Professor Ceccotti Prega!

Di stolti voti impor non osi - argomento la terra a sua preghiera - il pastore e l’ovil che agli operosi - suoi giorni amò rammenta in quella sfera ---- Di amor sull’ali in Dio levata e fisa - ode fragor di turbo e di procelle - prega! E già la nemica ira è conquisa - pastor sereno è il ciel pasci le agnelle.

Sulle faccie de’ pidistallini sono a bassorilievo gli emblemi del Comune di Viterbo, ed avanti a questi sullo zoccolo quattro statue figuranti le virtù Cardinali». 

Più avanti la medesima memoria riferisce, dopo varie visite al pontefice, quella avvenuta il 4 Settembre:

«Per ultimo fu ricevuto il Sig. Giovanni Augusto Mercati meccanico Viterbese, il quale offerse alla vista del S. Padre una graziosa macchinetta di S. Rosa, sulla quale egli ha lavorato 15 anni. 

Questa machinetta tutto suo disegno e lavoro ha 63 centim. di altezza, la base quadrata ha centim. 15,6 di larghezza, ed i facchini centim. 5,7 di altezza.

E’ composta tutta di legno a colore naturale, di stile gotico, minutamente ed elegantemente intagliata. 

Posta all’aspetto del S. Padre, e toccata dal fabbricatore una molla, si mossero a passo i facchini sostenenti la macchina, e questa voltavasi, e giravasi a piacere del suo autore, tantochè S.S. tenendosene soddisfatta gli diresse parole di rallegramento e d’incoraggiamento e regalollo di preziosa medaglia d’oro».

Nel 1858 nel disegno riproducente la Macchina è la scritta:

1858 Vincenzo Bordoni inv(entore) ed esecutore.

Tutti i progetti delle Macchine di santa Rosa realizzati da Vincenzo Bordoni sono conservati al Museo civico.

Gaetano Spadini

Un nuovo nome tra i costruttori appare nel 1862 è Gaetano Spadini che vinse sul pittore Pier Felice Papini; aveva formato la sua arte studiando a Roma. Tra Spadini ed il Comune si stilò un contratto ove vennero definite le modalità del trasporto, luci e fermate. Il compenso era di quattrocento scudi da versare in quattro rate. Intanto, però, in quell’anno, per una violenta bufera di pioggia, non fu possibile trasportare la Macchina il 3 Settembre, l’avvenimento fu spostato al 7 seguente.

Una stampa, della raccolta di Renzo Biaggi, riproduce la Macchina con la scritta:

Grandiosa mole, trasportata trionfalmente in onore di S. Rosa V[ergine] Viterbese nell’anno 1862 / disegnata ed eseguita da Gaetano Spadini.

Esistono al Museo civico i disegni delle Macchine degli anni 1862, 1863, 1864, 1865, quest’ultimo modello fu riproposto nel 1866. Vi è anche il disegno del 1869, ripetuto nel 1870, e quello del 1871 che venne trasportato anche l’anno successivo.

Il passaggio della Macchina del 1867 non fu eseguito il 3 Settembre a causa dei moti garibaldini, infatti si decise di farla trasportare il 17 Novembre, ma per il cattivo tempo, il giorno fu spostato al 21.

Scrive Carlo Antonio Morini sul suo Straccifojo:

«Addì 3 settembre 1867 domenica a sera a una ora di notte vi doveva essere la traslazione della Machena di Santa Rosa nostra concittadina di Viterbo. Non andiede quella sera come sopra per càvose de gattivo tempo. 

Il … adera una bella giornata. 

Il machinista, [ossia il costruttore della Macchina di santa Rosa] Gaetano Spadine metteva in ordine tutta la Machena per la sera. Il machinista Spadine ebbe ordine, che si dice era venuto da Roma, che si sospendesse la traslazione della Machena. 

Il detto giorno alle ore 10 e mezzo avante meridiane incominciorno a leva’ l’armatura de la Machena. 

Dopo poco mezz’ora andava a spasso a cavallo il generale francese e compagnia e vidde la Machena scoperta e li piacche molto, dicendo a Spadine il generale: mandarla. La mattina del giorno appresso Gaetano Spadine ebbe l’ordine del Guverno di mettere tutto quello che aveva tirato e la Machena andiede».

Il 20 Gennaio 1872 il pittore Pier Felice Papini inviò una lettera di protesta al Comune, nella quale contestava l’aggiudicazione a Gaetano Spadini della costruzione della Macchina di ben dieci anni prima, il 4 Febbraio 1862, e suggerì di far valutare il disegno suo e di Spadini ad «un nuovo giudizio artistico da affidarsi in Roma a persone competenti e coscenziose, non per essere preferito alla esecuzione, come la S.V. si esprime, ma solo per un atto di giustizia reclamato dal mio onore offeso.

Non basta di avermi recato un danno nell’interesse anche mi vogliono ricoprire di un’onta che solo la loro spudoratezza poteva scagliarmi a quel confronto».

Il pittore chiese anche agli amministratori comunali di dimettersi «e gli assicuriamo che farebbero cosa grata a tutti gli onesti cittadini, all’intera popolazione ed al Governo, ridonando in tal modo la pace a tutti i partiti» e concluse «In quanto a me farò quello che mi parrà e piacerà in proposito alla vertenza di cui sopra, senza il permesso de’ superiori, già s’intende».

Nel 1873 venne portata ancora la Macchina ideata da Gaetano Spadini, il quale ebbe per collaboratore il figlio Giovan Battista, poi il Comune decise il 30 Settembre, forse anche per la pepata lettera di Pier Felice Papini, di effettuare un concorso al quale parteciparono Gaetano e Giovan Battista Spadini, con cinque modelli di Macchine, e Pier Felice e Paolo Papini che ne presentarono quattro.

Ma questa volta fu la famiglia Spadini che non si sentì tutelata dai membri che componevano la commissione che doveva scegliere la nuova Macchina, perché riteneva alcuni suoi componenti sospetti di parzialità. Infatti, Pier Felice Papini era considerato un patriota e Gaetano Spadini, più vicino al papa, visto che era stato l’ultimo costruttore sotto tale dominio.

Fatto sta che i timori degli Spadini divennero realtà e il modello scelto per la nuova Macchina fu uno di quelli realizzati dai Papini.

 

Ritorno dei Papini

Quindi col 1874 ritornò la famiglia Papini, per almeno sei anni, con Paolo Papini (Viterbo 1840 - 1897) e il padre di lui Pier Felice (Viterbo 1811 - 1876), poi dal 1876 proseguì solo Paolo. La spesa prevista fu di seimila lire ogni triennio, visto che la Macchina doveva essere modificata dopo tre anni.

Giorgio Falcioni scrive di un incontro, avvenuto nel Caffè Schenardi, dopo la scelta dei Papini a costruttori della Macchina, tra Giovan Battista Spadini e Paolo Papini i quali, dopo uno scontro verbale, passarono ai bastoni dandosele di santa ragione, ognuno certo delle proprie opinioni.

Nel 1874 si era creato un problema in merito al pagamento del compenso dei facchini da parte delle monache di santa Rosa, infatti queste, negli anni precedenti, si erano impegnate a dare un compenso di cinquantatre lire ai portatori della Macchina, se quest’ultima fosse stata condotta fino alla Chiesa di santa Rosa. 

Ma con la soppressione dei beni ecclesiastici le monache non avevano più disponibilità di danaro e allora la cosa fu discussa in Consiglio comunale.

Si raggiunse l’intesa che il Comune doveva pagare la somma ai facchini col patto però che la girata della Macchina su se stessa, che prima avveniva in Piazza santa Rosa dipinta, da allora in poi fosse effettuata in Piazza del Comune.

La Macchina del 1874, secondo quanto riferisce l’anonimo estensore de’ La Rosa, strenna del 1875, pesava «Chilogrammi 3666; la sola base quadrata, o zoccolo, pesa Chilogrammi 1333. La sua altezza giunge circa ai 16 metri. L’interno di essa è di travi e assi di legno validamente connessi che dalla base ascendono fino alla cima; l’estrinseco poi e tutto ciò che forma la decorazione non è che tela e carta conformate ad ogni specie di figure, fregi, rilievi ecc. […].

La costruzione della Macchina porta seco un continuo lavorio di circa 8 mesi, e il Municipio vi spende Lire 2800».

In effetti però non sempre la spesa per la realizzazione della Macchina fu a carico del Comune, infatti nel Settecento alle spese vi si avvicendavano i nobili della città. Addirittura ai primi di quel secolo il Municipio aveva stabilito una multa di cinquanta scudi per il nobile che, eletto Signore della Festa di santa Rosa, si fosse rifiutato di assumerne l’incarico.

Ancora l’anonimo riferisce:

«avanti il palazzo dei Signori Conti Fani - Ciotti, i facchini fanno girare meravigliosamente la macchina intorno a se stessa; e ciò per una costumanza che si pratica fin dal 1835 (?), quando il fu Conte Comm. Tommaso Fani - Ciotti fu eletto a Gonfaloniere della Città».

Pier Felice Papini nel 1876 passò, come si suol dire, a miglior vita e proseguì la tradizione il figlio Paolo.

Nel 1877 la Macchina, nel tratto tra le Chiese di santa Maria del Suffragio e di sant’Egidio, toccò una gronda e la fece cadere; nel 1878, invece, il trasporto per il forte vento, venne effettuato il 5 Settembre.

L’anno successivo venne bandito il concorso per la realizzazione della Macchina e si presentò solamente Paolo Papini con tre progetti. La commissione, composta dal pittore Pietro Vanni, dagli ingegneri Enrico Calandrelli e Giuseppe Badia, ne scelse uno raccomandando di realizzare l’opera alleggerendo il peso e di prestare particolare attenzione alle dimensioni della base per evitare urti lungo il percorso.

Al Museo civico sono conservati i disegni della Macchina di santa Rosa eseguiti da Paolo Papini relativi agli anni 1874; 1876; 1883; 1886, questo modello fu ripetuto nel 1887 e nel 1888; 1889, trasportato anche nel 1890 e nel 1891; 1892, il modello venne riproposto nel 1893 e nel 1894; 1895, a quest’ultimo modello collaborò anche il figlio Virgilio ed è stata questa la prima Macchina che venne illuminata anche con luci elettriche.

Nel 1884 il trasporto non venne effettuato per lo scoppio di una epidemia di colera e la sera del 3 Settembre 1885 la Macchina, ferma davanti alla Chiesa di santa Rosa, venne danneggiata seriamente da una pioggia dirompente. Fu questa l’occasione per Paolo Papini di avanzare la proposta al Comune di rinnovare la Macchina, anche in occasione del nuovo collegamento ferroviario con la Capitale, che avrebbe portato numerosi visitatori a Viterbo.

La Macchina fu rinnovata e la retribuzione di cinquanta lire ai facchini, venne corrisposta dal Comune anziché dal costruttore.

Scrive nel 1889 Giuseppe Ferdinando Egidi, che ai suoi tempi la Macchina era alta sedici metri e che «pesa da 1400 Chilogrammi ed è portata a spalle da 40 persone chiamate facchini - è uno spettacolo meraviglioso: la sera a un’ora dopo l’Ave-Maria la macchina, decorata artisticamente e illuminata a profusione, discende come una torre mobile da piazza S. Sisto ove si costruisce […].

Mirabile è vedere l’effetto del primo muoversi della macchina, il giro su sè stessa che i facchini le fanno fare innanzi al Palazzo Fani-Ciotti, e soprattutto il rapidissimo salire di corsa su per la via erta e malagevole di S. Rosa».

Nel 1892 il Comune rinnovò per tre anni l’appalto al Papini, ma Enrico Spadini protestò e chiese che fosse bandito un concorso pubblico.

L’influenza dei Papini era però tale, che il Consiglio comunale, decise di non tener conto della pur giusta richiesta, facendo intendere che essendo ormai un secolo che i Papini costruivano la Macchina, era pertanto scontato che fossero loro stessi a proseguire la tradizione.

In quell’anno la Macchina era stata costruita superando di un metro e mezzo le precedenti e vi fu installata la luce al magnesio. Ma alcune perplessità vennero avanzate dal costruttore che fece, qualche giorno prima, una prova del trasporto e in verità dimostrò che l’effetto della luce delle candele veniva annientato da quella del magnesio. Fu così utilizzato il nuovo sistema solo per qualche sprazzo luminoso durante le soste.

Il 3 Settembre 1893 una pioggia scrosciante impedì il trasporto e fu davvero una fortuna, perché si venne a scoprire, solo successivamente, che certi anarchici erano intenzionati a lanciare bombe contro la Macchina, perché volevano fosse liberato dalla prigionia un loro compagno.

Nel 1894 si decise di rinnovare la Macchina che doveva essere trasportata per almeno cinque anni consecutivi, questo per contenere le spese di realizzazione, infatti il costo dal 1895 al 1899 doveva essere di 10.200 lire, di cui 3.400 lire da versare il primo anno ed il restante diviso in parti uguali, anno dopo anno. Vinse il concorso Paolo Papini il quale nominò quale eventuale sostituto, in caso di sua morte, il figlio Virgilio, come era stato disposto dall’appalto.

Mi piace ora riportare quanto scrive De Kerval della Macchina nella sua storia di santa Rosa stampata nel 1921, è una nota di colore non indifferente:

«Fin dalla vigilia la folla riempie le vie, assedia le vicinanze della chiesa consacrata alla Santa si spinge e si schiaccia intorno all’urna in cui riposa il suo corpo in mezzo ai fiori. La sera, dopo i primi Vespri, cantati, secondo l’uso italiano, da cori appartenenti alle principali cappelle di Roma, quando è scesa completamente la notte, si compie una cerimonia pittoresca e caratteristica.

Presso la Porta Romana, non lungi da S. Sisto, si innalza un immenso monumento di legno, scolpito e di cartone dipinto, vero capolavoro artistico in forma di torre, sormontato dalla statua della Santa. Centinaia di luci la illuminano disegnandone tutti i contorni: è la macchina trionfale di S. Rosa. Ad un dato segnale una sessantina d’uomini vigorosi e ben esercitati sollevano sulle loro spalle il pesante monumento e, così portato, esso s’avanza allora lentamente e maestosamente per le vie illuminate a giorno, preceduto dalla musica, scortato da una compagnia di soldati, seguito da una gran moltitudine compatta e entusiasta, in cui si confondono tutte le classi sociali. 

All’arrivo della macchina sulla piazza del Palazzo Comunale, il popolo scoppia da ogni parte in applausi, acclamando così, dopo sei secoli e mezzo, questa concittadina del XIII secolo, che né il tempo né le rivoluzioni gli han fatto dimenticare.

Dopo una breve fermata i portatori si rimettono in cammino, e attraverso le più importanti vie della città, il monumento vien portato fino sulla piazza contigua alla chiesa di S. Rosa, dove rimane esposto tutto il giorno dopo». 

E continua in nota:

«Nel 1895, la macchina di S. Rosa che noi abbiamo potuto ammirare aveva circa 17 metri d’altezza, 4 metri quadrati di base, era illuminata da 250 candele con globi di vetro e da 100 lampade elettriche. 

Veniva portata da sessantadue facchini. Oltre il gruppo della parte superiore (rappresentante S. Rosa e la fanciulla con la secchia rotta), il monumento era decorato da diverse statue d’angeli e di santi, oltre che da dipinti rappresentanti alcuni episodi della storia della Santa».

Nel trasporto di questo primo anno, l’illuminazione deluse i Viterbesi, a tal punto da ritornare ai vecchi sistemi, infatti, nel 1896 furono installati seicento lumi così suddivisi: quaranta torce a cera, cinquanta fiaccolotti, centocinquanta lumi a spirale, duecento candele e centosessanta lumi con campane colorate. 

Nel 1896 venne trasportata la Macchina dell’anno precedente e nel 1897, alla morte di Paolo Papini subentrò, come previsto, il figlio Virgilio che portò a termine il contratto col Comune che scadeva nel 1899. Sfortunato fu quest’ultimo trasporto, infatti, alla mossa cadde il cupolino che fu ripristinato alla meno peggio.

In Piazza del Comune però presero fuoco i capelli della statua di santa Rosa e con loro la statua stessa, l’incendio venne spento da Luigi Luzi, Piacentini e Papinio Papini. La Macchina riprese il cammino e raggiunse la meta.

 

Novecento

A Virgilio si deve il progetto della Macchina del 1900, conservato al Museo e datato 1899; Virgilio Papini fu il nuovo costruttore della Macchina del secolo appena iniziato fino alla sua morte avvenuta nel 1951.

L’appalto durò fino al 1904 e venne deciso in quel tempo che i facchini dovevano osservare un ritiro sin dalle ore 13 nella Chiesa di san Rocco, per un migliore controllo dei cibi che mangiano, al fine di evitare una eccessiva alimentazione.

Sul giornale umoristico Il Rava uscito a Viterbo il 10 Agosto 1901, leggo in merito alla Giostra delle vaccine:

«Avviso. Fuori porta Fiorentina si sta costruendo un bellissimo circo per le giostre delle vaccine che avranno luogo nella ricorrenza delle feste di S. Rosa. 

Parecchi tori hanno già avanzata istanza per essere giostrati».

Ai concorsi del 1905 e del 1910 partecipò solo Virgilio Papini, è da ricordare che nel 1907 il trasporto, a causa del maltempo, venne effettuato il 5 Settembre.

Scrive Francesco Cristofori sul suo giornale Viterbo, del 16 Dicembre 1905:

«Auguriamoci che si renda nazionale, anzichè municipale e serio e non già fantasmagorico e simil alla corsa degli asini, il concorso per la macchina di santa Rosa in futuro. Non essendo decoroso, nè equo il restringerlo a soli concittadini nostrani. Con patente di grettezza a’ municipali egoisti, patroni e mecenati sol de’ lor elettori fidati».

Questa Macchina era alta diciannove metri, pesava tre tonnellate ed era sorretta da sessantadue facchini. La base era di quattro metri e mezzo.

Nel 1914 venne ancora dato l’incarico del trasporto a Papini, il quale dovette provvedere al compenso di lire nove per i ciuffi e lire 1,50 per le spallette, ma lo scoppio della Prima guerra mondiale impedì lo svolgimento della manifestazione che riprese nel 1918.

Nel 1920 venne concesso al costruttore, per i lavori necessari alla realizzazione della Macchina, l’utilizzo della Chiesa di santa Maria della Pace e dal 1923 al 1936 l’annesso monastero per il ritiro dei facchini. Nel 1924 Virgilio Papini realizzò un nuovo modello di Macchina che per vari motivi venne trasportato, addirittura, fino al 1951.

Nel trasporto del 1926 morì un facchino, Nazzareno Bentivoglio, sembra perché schiacciato contro un muro in Piazza Fontana Grande o per un eccessivo sforzo. Nel 1938 inavvedutamente la Macchina batté avanti al Caffè Schenardi, contro un filo elettrico teso a cavallo del Corso Italia. Si mosse un po’ il cupolino, ma la marcia riprese senza ulteriori problemi. Dal 1940 al 1945 la Macchina non venne trasportata a causa degli eventi bellici.

Sul quindicinale Il Bulicame del 1° - 7 Luglio 1945 venne pubblicata una lettera a firma F. G. con la quale veniva auspicato il trasporto della Macchina nel seguente mese di Settembre. Si chiese che venisse riproposto il trasporto con l’ultima Macchina di Papini, ma tra i problemi da risolvere era l’armatura, infatti:

«L’Ufficio Tecnico Comunale assicura che l’armatura della macchina è andata perduta sotto le macerie del magazzino attiguo alla chiesa di S. Sisto dove veniva annualmente rimessa. Ma è possibile che sia completamente scomparsa?

Proprio quel locale è l’unico ad esser rimasto in piedi e viene proprio adesso demolito e sgombrato dalle macerie. Ma anche ammettendo che quella preesistente sia da considerarsi perduta, ci vogliono proprio 500.000 lire per farne una nuova?». 

In merito al trasporto leggo:

«L’unico tratto malagevole è la discesa di Via Garibaldi, ma pochi carretti di rena basterebbero a renderla transitabile anche con quel grande peso che è la macchina di S. Rosa. 

Ricordiamo anzi che quando esisteva ancora il pavimento di selci, questi venivano cosparsi per rendere più sicuro il tragitto proprio di rena. Il resto dell’itinerario è sgombro tranne alcuni pali d’una puntellatura a metà Corso che sorregge una parete d’edificio che di qui a settembre potrebbe essere benissimo o consolidata o demolita».

Ma, come scrivo appresso, la Macchina non passò. 

Nel 1946 riprese la tradizione, ma a causa dei detriti dei bombardamenti aerei, che colpirono tutta la zona di san Sisto, la partenza avvenne da Piazza Fontana Grande, avanti alla facciata della Chiesa dei santi Teresa e Giuseppe. La Macchina pesava quaranta quintali ed effettuava tre soste in Piazza del Comune, al Suffragio e in Piazza Verdi.

Il 6 Luglio 1951 morì Virgilio Papini e il trasporto fu condotto dal figlio Paolo.

Dal 1952 al 1958 la Macchina venne costruita, nella ex Chiesa di santa Maria della Verità, dall’architetto Rodolfo Salcini in collaborazione con lo scultore viterbese Francesco Coccia (1899 - 1978). L’appalto dei lavori fu affidato a Romano Giusti, la direzione dei lavori all’ingegnere Domenico Smargiassi, le decorazioni in carta pesta le eseguirono alcuni operai di Viareggio guidati da Fabio Malfatti, la scenografia venne realizzata dal pittore Angelo Canevari. 

E’ questa la prima Macchina sulla quale venne montato un telaio in metallo, realizzato dalla ditta viterbese Fratelli Felicetti, abbandonando il vecchio e pesante legno.

Fu così perduta una tradizione che durava da tre secoli, ma in cambio si acquistò in leggerezza, sicurezza ed altezza.

L’altezza, infatti, raggiungeva i ventisette metri, contro i diciannove precedenti, il peso era di ventidue quintali e il percorso venne allungato comprendendo la troppo ampia Via Marconi, Piazza dei Caduti e ritorno. Fu un esperimento, mai ripetuto, che voleva consentire a più persone di assistere al passaggio della Macchina. Si comprese che la medesima fuori del suo ambiente, ed inoltre in una larga via, perdeva il fascino che la distingue e la caratterizza.

Nacquero polemiche sull’aggiudicazione dell’appalto a Salcini, lo scrive anche Bonaventura Tecchi (1896 - 1968) in un suo lungo articolo apparso sul Corriere d’informazione del 15 - 16 Settembre 1952, e poi conclude:

«Ma quando abbiamo visto lo stelo della “macchina” nuova innalzarsi svelto come uno zampillo di fontana lucente, con la piccola santa in alto, eretta e insieme quasi tremante d’amore per i suoi concittadini, la piccola figura cui, appena passata, due lampadine splendenti nella notte come due stelle sembravano dar l’immagine di due mani accese di fede e d’amore, abbiamo pensato che anche questo nuovo modello ha un suo significato».

Dal 1959 al 1966 fu costruttore della Macchina Angelo Paccosi, il primo trasporto a causa della pioggia venne effettuato il 7 Settembre, poi il 30 Gennaio 1962 Angelo morì e la Macchina fu guidata fino al 1966 dal fratello Mario, dal figlio Giancarlo e dal garante Aldo Vittori.

Il 5 Maggio 1966 il papa Paolo VI ricevette a san Pietro i facchini. La Macchina era stata decorata dagli artisti: Amleto Vernati, Carlo Vannucci, Mario Bertolucci, Fabio Malfatti, Angelo Romani, Valerio Santini, Angelo Paccosi e Ademaro Andreuccetti.

Il 3 Settembre 1967 la Macchina di santa Rosa, del costruttore Giuseppe Zucchi, nato a Viterbo nel 1922, si fermò in Via Cavour, avanti al Palazzo dell’Amministrazione provinciale, a causa, sembra, di qualche difetto nella costruzione.

I facchini lamentavano il fatto che durante il trasporto la Macchina si avvitava su se stessa, a causa della modifica eseguita dal costruttore, il quale aveva abolito le travi alla base, che fuoriescono sia nella parte anteriore che in quella posteriore.

Quella sera il caso volle che mi trovassi affacciato in un balcone del Palazzo Falcioni, che fa angolo con Via Romanelli, ospite dell’amico giornalista Mario Dini. Avevo sedici anni e fu un’esperienza terribile, vissuta istante dopo istante. 

La Macchina d’un tratto rallentò la sua corsa, si fermò sostenuta dai facchini, tra il panico dei presenti sbandò verso destra colpendo la grondaia del Palazzo Galeotti, sede dell’Amministrazione provinciale. Fu prontamente raddrizzata ed in soccorso furono fatti tornare indietro i cavalletti, che nel frattempo erano stati collocati nell’antistante Piazza del Plebiscito.

La Macchina, dopo i vani e disperati tentativi di Zucchi nei confronti dei facchini per far riprendere il trasporto, fu poggiata sui sostegni, puntellata ed ancorata. 

Restò lì fino a quando venne smontata, tra discussioni ed interpretazioni sul fatto così straordinario, mai accaduto. 

Giuseppe Zucchi tra le polemiche che divamparono, tra le opinioni più differenti, rammaricato, collocò sulla base un cartello, che firmò, con la scritta «Abbandonata dai Cavalieri di Santa Rosa»

Per l’infausta occasione fu scolpita una lapide che mi sembra di ricordare portasse le parole «Fermo Macchina di santa Rosa 1967», ma non fu mai collocata a dimora, anzi ho saputo che è stata distrutta verso il 1995, dopo essere stata custodita fino allora in una stanza del Palazzo dell’Amministrazione provinciale. 

Restano a ricordo del fatto solo due anonime, dimenticate, grappe murate sulla facciata del palazzo stesso tra i numeri civici 22 e 24.

La Macchina, che raggiungeva i trenta metri di altezza, per la prima volta nella storia portò un nome, fu chiamata "Volo d’angeli" e fu trasportata per ben dodici anni, fino al 1978.

Ho l’onore di conservare un ciuffo, il numero 5 di quell’edizione, prezioso ed ambito dono del costruttore con la dedica «All’amico Mauro Galeotti, l’autore-costruttore e direttore del Volo d’Angeli, anni 1967-1978, G. Zucchi».

Nel 1975, nel costruire il capannone che accoglieva la Macchina di santa Rosa, un operaio cadde dall’impalcatura e morì, era il 4 Agosto, a Zucchi venne ritirata l’autorizzazione per continuare a costruire il capannone stesso, il costruttore, coraggioso e caparbio, decise allora di erigere la Macchina priva di copertura, così il trasporto fu salvato.

Maria Antonietta Palazzetti, coadiuvata dal marito Rosario Valeri, è stata la seconda donna, dopo Rosa Papini, che si è occupata della Macchina, la quale venne trasportata negli anni che vanno dal 1979 al 1983.

Il nome dato alla costruzione era "Spirale di fede", pesava cinquantadue quintali, era illuminata da tremilacinquecento lumini a cera, da oltre mille lampadine elettriche ed era alta trentadue metri.

Il 9 Luglio 1983 venne effettuato un trasporto straordinario in occasione del 750° anniversario della nascita di santa Rosa.

Papa Giovanni Paolo II, in occasione della visita alla città, ha assistito ad un trasporto straordinario, effettuato il 27 Maggio 1984.

Il bel manifesto che annunciava la venuta del papa a Viterbo fu eseguito dal pittore Luciano Ilari, nato nel 1938, il quale risultò vincitore del concorso. Ilari vinse anche il concorso del 1982, per la realizzazione del manifesto che pubblicizzava il passaggio della Macchina di santa Rosa di quell’anno.

Il papa vide il trasporto dalla finestra ove si affacciò, tra gli altri, Pio IX e, come allora, venne tolta la colonnina centrale.

E’ rimasta nel cuore dei Viterbesi la frase del pontefice «Valeva la pena di venire a Viterbo», quando avanti a lui era la Macchina di santa Rosa.

Sempre nel 1984, il 3 Settembre, le Poste italiane realizzarono, in cinque milioni di copie, la terza emissione del francobollo da lire quattrocento della serie Folclore italiano, raffigurante una fantasiosa Macchina di santa Rosa, il facchino ed il Palazzo papale. Il disegno e l’incisione furono eseguiti da A. Ciaburro.

Dal 1986 al 1990 è la volta di "Armonia celeste", la Macchina ideata dallo scultore Roberto Ioppolo e dall’architetto Alfiero Antonini e realizzata dall’appaltatore Socrate Sensi.

L’altezza della mole era di 33,90 metri, il peso di 4754 chili e dopo aver urtato, nel primo trasporto, un cornicione al Corso Italia verso il Suffragio, sfiorò la tragedia alla curva dell’arrivo avanti alla gradinata della Chiesa di santa Rosa, perché avendo calcolato male la curva stessa o per la troppa foga nel raggiungere il culmine della salita, alcuni facchini si trovarono a dover salire sui gradini della chiesa, causando un pauroso piegamento verso sinistra della Macchina. Con estrema fermezza e determinazione il capo facchino ed i facchini, incitati dai familiari lì presenti, riuscirono a raddrizzare la Macchina e con successo raggiunsero la ormai secolare piazzola di sosta.

Ancora un miracolo di santa Rosa! 

Sin dal 1987, una importante presenza si è unita alle autorità durante il trasporto vero e proprio della Macchina, è quella del Vescovo della città.

Dal 1991 al 1997 la Macchina è stata ideata dal pittore Angelo Russo e costruita da Vincenzo Battaglioni, il nome datole è stato "Sinfonia d’archi", scelto tra decine e decine di nomi ideati da mio zio Luigi Amadori.

Dal 1998 al 2002 ha percorso e continuerà a percorrere le vie della città la Macchina intitolata "Tertio Millenio Adveniente, una rosa per il Duemila", ideatori sono Marco Andreoli, Lucio Cappabianca, Giovanni Cesarini, appaltatrice è la Ditta Cesarini costruzioni S.r.l. di Viterbo.

 

Duemila ormai storia recente

Dal 2003 al 2008 la Macchina di santa Rosa è "Ali di luce" di Raffaele Ascenzi.

Dal 2009 al 2013 la Macchina di santa Rosa è "Fiore del Cielo" di Arturo Vittori.

La festa rientra nella Rete delle grandi macchine a spalla italiane, dal 2013 inserita nel Patrimonio orale e immateriale dell'umanità dell'UNESCO.

Il 26 gennaio 2015, a Viterbo, è risultato primo classificato al bando di concorso per la costruzione della nuova Macchina di Santa Rosa 2015/2019 l'architetto Raffaele Ascenzi, ex facchino di Santa Rosa, già ideatore di "Ali di Luce” che insieme a Luigi Vetrani ha realizzato "Gloria", modello che, secondo gli ideatori, prende il nome proprio dalla tradizione che vede i viterbesi, da ben quattro secoli, portare in gloria la loro patrona Santa Rosa.

Il nuovo modello ha sfilato per la prima volta per le vie abbuiate della città il 3 settembre 2015.

 

 

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