Viterbo STORIA
Vincenzo Ceniti Console Touring di Viterbo

                            La Macchina del 1952 di Rodolfo Salcini

Al trasporto del 1952 il Comune di Viterbo è rappresentato dal solo consigliere Michele Lomonaco. Il modello Salcini non piace. Riapre l’Unione con il tenore viterbese Cesare Valletti che canta gratis in Manon.

In vista del VII Centenario della traslazione del corpo di Santa Rosa che si sarebbe celebrato nel 1958, vennero avviate per tempo a Viterbo, già dal 1951, alcune iniziative promo-culturali come il concorso per la nuova “Macchina” e la variante nel 1952 al tradizionale percorso con l’aggiunta, per la prima volta nella storia, di un’andata e ritorno a via Marconi con dietrofront davanti agli Almadiani.

La modifica la decise il Comune (sindaco Felice Mignone con i suoi sodali Vincenzo Ludovisi, Gaetano Barili, Michele Lomonaco, Carlo Minciotti) d’intesa con il prefetto Orlando Limone per dare importanza, si diceva, alla nuova direttrice di Viterbo (“La via del futuro nello sviluppo urbanistico della città”) che stava prendendo forma e tono dopo l’abbattimento del “dente” di palazzo Monarchi (davanti all’attuale farmacia Montalboldi) che ostruiva la vista del Teatro dell’Unione da piazza dei Caduti. E che Teatro!

In quel 1952 l’Unione usciva ristrutturato e abbellito (spesa finale 65 milioni di lire) dopo una lunga e forzata chiusura in seguito ai danni della guerra. La riapertura avvenne il 4 settembre con la “Manon” di Massenet interpretata dal tenore viterbese Cesare Valletti (nel ruolo del Cavalier Des Grieux) che, visti i modesti fondi di bilancio, si esibì gratuitamente (altri tempi). Via Marconi accoglieva da poco anche la nuova sede dell’Ente Provinciale per il Turismo (presidente Giuseppe Siciliano de’ Gentili) e il Salone Fiat gestito da Augusto Garbini. Di lì a poco lungo la via avrebbero aperto anche il Salone Lancia di Adriano Graziotti e il ristorante “La Scaletta” di Goffredo Proietti.  

Ma veniamo alla “Macchina” del 1952 (costo finale 15 milioni di lire) che alimentò molte polemiche. Si veniva da un vecchio ed abusato modello d’impronta gotica di Virgilio Papini cui i viterbesi erano abituati, affezionati e annoiati. Al concorso del 1951 venne preferito dalla Commissione (tra i membri Angelo Canevari e Francesco Nagni) il bozzetto del giovane e aitante architetto viterbese Rodolfo Salcini (allora poco più che quarantenne) assistente alla facoltà di Architettura dell’Università di Roma.

Al suo fianco collaborarono lo scultore Francesco Coccia, già segretario della “Quadriennale di Roma” e Ugo Viale, Ordinario di Scienza delle Costruzioni dell’Università di Roma. L’appalto per la costruzione venne affidato a Romano Giusti che si avvalse per la direzione tecnica di Domenico Smargiassi e per quella artistica di Angelo Canevari, oltreché di operai e tecnici di Viareggio specializzati nella costruzione dei carri di Carnevale.

La “Macchina” di Salcini fu un pugno allo stomaco per molti viterbesi che non condividevano l’”innovazione rivoluzionaria” del giovane architetto. Via il tradizionale impianto gotico, il traliccio in legno, i lumini a cera e spazio ad una intelaiatura di metallo leggero, illuminazione cangiante al neon per simulare una pioggia di rose.

A bocce ferme e con animo sereno va ricordato – come a quel tempo osservarono alcuni – che la “Macchina” di Salcini seppur radicalmente innovativa era frutto di un attento studio dell’ambiente scultoreo e dell’architettura viterbese (case e fontane soprattutto). Del resto adeguare il modello ai tempi era stata sempre una delle preoccupazioni dei costruttori attraverso gli anni.

Non solo contestata, ma anche “sequestrata”. Quella “Macchina” venne contestata a tal punto che alcuni proposero una sottoscrizione popolare per far passare, mezz’ora dopo quella ufficiale, una seconda “Macchina” con uno dei modelli non premiati. Altri proposero una sottoscrizione privata per realizzare una “Macchina” con i bozzetti esclusi.

Lo scultore Coccia, collaboratore di Salcini, chiese il sequestro della “Macchina” all’autorità giudiziaria perché la realizzazione di alcune figure non era stata conforme al progetto: gli angeli erano più “carnosi” che mistici. Per il bene di Santa Rosa l’istanza venne ritirata in tempo a fronte di un equo indennizzo stabilito da un’apposita commissione di artisti di “chiara fama”.

Ma non finisce qui. Si polemizzò anche sulla direzione del trasporto. Negli anni precedenti con Papini, costruttore e ideatore, non c’erano problemi. Ma tra Salcini e il costruttore Romano Giusti sorsero preoccupanti rivalità. Prevalse il buon senso e la “Macchina” venne affidata a Giusti con il consenso dei “facchini”.

Da ridire pure sulla mancata utilizzazione di alcune parti delle vecchie macchine com’era scritto nel contratto. E qui scesero in campo gli eredi dei Papini a reclamare i loro diritti. Anche in questo caso ci fu un bonario accomodamento. La nuova “Macchina” aveva un’armatura metallica e le vecchie strutture di legno non potevano essere utilizzate.

Polemiche anche sul tragitto. Portarla a via Marconi, si diceva, significava svilire la tradizione e lo stesso spettacolo, data la sproporzione tra la “Macchina” e i moderni caseggiati della via.

In un primo momento, per sollevare i facchini dall’eccessiva fatica, si pensò di eliminare dal percorso la salita di Santa Rosa e di terminare il trasporto in piazza Verdi. Le suore ci misero più di una “preghiera” e alla fine la “Macchina” arrivò fino al sagrato del Santuario.

Ho assistito al quel trasporto e ricordo le molte critiche rivolte alla decisione di via Marconi. In effetti in quel tratto la “Macchina” perdeva quel pathos che si accende quando passa tra le vie strette della città. “Mai più un simile esperimento” fu detto un po’ da tutti. “Con la tradizione non si scherza”. Altre curiosità. Per l’assemblaggio delle parti inferiori si utilizzò la chiesa di Santa Maria della Verità (non ancora riconsacrata).

Venne anche effettuata intorno alla metà di agosto, di buon mattino e con successo, una prova di portata, con il solo traliccio metallico (alto 27/28 metri opera dei f.lli Felicetti)), opportunamente zavorrato, tra piazza San Sisto e piazza Fontana Grande (e ritorno). I “facchini” oltre a vino e dolciumi offerti da privati ricevettero un compenso simbolico a testa di 300.000 lire. Alla gara per il bozzetto parteciparono tra gli altri Felice Ludovisi, Ettore Laccetti, Carlo Milani e Giuseppe Zucchi. Rodolfo Salcini non condivideva la variante di via Marconi. Il fondo stradale non era perfettamente in piano ed aveva timore per la stabilità del trasporto. Quella sera restò nella sua abitazione di Roma.  

Come antivigilia delle “Feste di Santa Rosa” venne ospitato in agosto al campo sportivo il Carro di Tespi (dell’Enal) con la rappresentazione dell’”Aida” diretta da Romeo Arduini. Tra gli interpreti il baritono viterbese Raffaele De Falchi (Amonasro). Le Feste durarono una settimana. Nel cartellone: concerti bandistici, concorso pirotecnico, riapertura dell’Unione con quattro rappresentazioni: due di “Manon” e due di “Traviata” ambedue dirette da Riccardo Santarelli, illuminazione del Palazzo dei Papi nel versante valle di Faul, tombola di lire centomila e corse al galoppo alla Quercia.

Le celebrazione religiose includevano, tra l’altro, il solenne Pontificale con il card. Clemente Micara vicario generale del Papa, la processione con il cuore della Santa (pomeriggio del 4 settembre), la traslazione del corpo di Mario Fani dal Cimitero di San Lazzaro al Santuario di Santa Rosa e una rappresentazione sacra sulla Santa.

Il 3 settembre venne anche disputato, nel pomeriggio del 3 settembre, un incontro di calcio tra la Roma e la Viterbese finito col punteggio di 12 a 1. Tra i giallorossi Adami, Bortoletto, Venturi, Tre Re, Bronèe, Galli e Renosto. Nelle fila della Viterbese, tra gli altri, Amorosi, Brugiotti, Patara, Bernini, Lucaccioni.  

Va considerato che le “Macchine” di quegli anni non avevano la risonanza che hanno oggi e l’affluenza di pubblico cui siamo abituati da alcuni anni a questa parte. Intanto non c’era la diretta partecipazione durante il trasporto delle autorità cittadine che si limitavano a salutare i facchini a piazza del Plebiscito. Pensate che il Comune era rappresentato da un solo consigliere “addetto al trasporto” il prof. Michele Lomonaco. Dunque niente sindaco e tanto meno assessori ed ospiti d’onore.

Non c’era la folta presenza dei giornalisti né, ovviamente, della televisione. E’ emblematico il fatto che alle ore 17 del 3 settembre si tenesse in piazza del Plebiscito un concerto bandistico. Oggi sarebbe impensabile. Ultima annotazione. In quel 1952 venne ufficialmente riaperta al culto la Cattedrale di San Lorenzo dopo i lavori in seguito ai bombardamenti aerei, con la consacrazione dell’Altare Maggiore da parte del Vescovo Adelchi Albanesi . 

 

 

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