Viterbo CRONACA e STORIA
Mauro Galeotti

Il Bullicame nel 1925, senza barriere, c'erano più considerazione e rispetto
(Archivio Mauro Galeotti)

Rotti di nuovo i pannelli a protezione della sorgente del Bullicame.

Telecamere inattive, tanti sopralluoghi, tante parole, ognuno dice la sua, tutti hanno ragione, ma quello che fa rabbia è l'ignoranza di chi colpisce e devasta i beni pubblici.

La mancata conoscenza della storia del Bullicame allarma chi la conosce, allarma perché contro la delinquenza stupida non c'è nulla da fare.

Propongo, per gli ignoti devastatori, la storia del Bullicame perché possano rendersi conto di quanto grande sia la loro vicinanza ai barbari.

Bullicame o Bulicame
dal mio libro "L'illustrissima Città di Viterbo" del 2002

Ne parla Dante Alighieri nel canto XIV, vv. 79 - 81, dell’Inferno:
«Quale del Bulicame esce ruscello, / che parton poi tra lor le pettatrici [o «peccatrici»] / tal per la rena giù sen giva quello».

In effetti i rivoli che uscivano dal bacino del Bullicame servivano al rifornimento d’acqua di tante vasche scavate intorno. Le vasche venivano utilizzate dagli operai, detti incigliatori, per la macerazione della canapa «siccome in questa Città [di Viterbo] sono di altezza, e di bellezza straordinaria, rendendosi per conseguenza di un lucro molto considerabile» così scrive Feliciano Bussi († 1741).

Ricorda lo storico Luca Ceccotti che degli «enormi selci di durissima lava, o basalto», che formavano l’antica Via Cassia, «Una buona quantità se ne trovano alle piscine del Bullicame, usatevi per contenere il lino e le canape sotto le acque».

Per alcuni studiosi pettatrici è da sostituire con peccatrici e spiegano il riferimento perché era proibito alle prostitute di fare il bagno dove si bagnavano le donne viterbesi, infatti, era loro consentito lavarsi solo nel Bullicame.

Quasi certamente Dante visitò il Bullicame e la nostra città quando si recò a Roma nel Novembre del 1300 per essere ricevuto da papa Bonifacio VIII, quale pellegrino nel Giubileo istituito in quell’anno dal papa stesso. Nell’Inferno, il sommo poeta, scrive altre due volte la parola Bulicame, al canto XII, vv. 115 - 117:
«Poco più oltre il centauro s’affisse / sovr’una gente, che ‘nfino a la gola / parea che di quel bulicame uscisse».
Al canto XII, vv. 127 - 128:
«Sì come tu da questa parte vedi / lo bulicame che sempre si scema».

Notevole fantasia e mistero destò da sempre il Bullicame, tanto che, il 28 Maggio 1320, grazie all’intervento divino della Madonna, liberò i Viterbesi, da una paurosa apparizione di demoni col corpo di corvi, nottole e aquile, che, dopo il voto espresso dal popolo viterbese, annegarono nella pozza del Bullicame. Da quell’episodio deriva la venerazione della Madonna liberatrice nella Chiesa della ss. Trinità, ma di ciò tratto altrove.

Francesco Cristofori scrive, sul suo volume Bullicame viterbese, che un documento del 5 Maggio 1439 riferisce dell’esenzione, per i restauri da attuarsi alla Torre del Bullicame, concessa al Comune di Viterbo dal cardinale Giovanni Vitelleschi di Tarquinia. E’ quindi evidente che, nei pressi della caldaia, esisteva una torre e che dovevano essere trascorsi vari anni dalla sua costruzione, se era necessario il restauro. Il documento riferisce anche che, in quell’anno, era già in uso la gabella per la macerazione del lino.

Il 2 Aprile 1465, scrive della Tuccia, «entrò in Viterbo Don Federico, prencipe di Taranto, figlio del re don Ferrante di Napoli, e andò a vedere il bullicame». L’11 Maggio 1469 nelle Riforme si trattò ancora di prostitute e si stabilì:
«Item aliud bandimentum, che nessuna publica meretrice ardisca, né presuma da hora inanze bagnarse in alcuno bagno dove sieno consuete bagnarse le citadine et donne viterbese, ma se vogliono bagnarse vadino dicte meretrice al bagno del Bulicame, sotto pena duno ducato doro perchè qualunche contrafacesse da applicarse a la fabrica dela piaza et de quattro tracte de corda».

Cesare Crivellati alla fine del 1500 scrive che nel Bullicame «vi si bagnano anco le pecore per la rogna e ciò si fa in certe pescine, nelle quali si macerano i lini, e le canapi l’estate, il che si fa in tempo di ventiquattro hore», e ancora, «Si suol anco detta acqua tener in bocca per fermare i denti, che ballano, e con la terra, che produce, si sogliono fregare per farli bianchi».

Feliciano Bussi nella sua storia di Viterbo (1742) così scrive:
«in una gran pianura, formata a guisa di un’ara, trovasi quel profondo abisso, chiamato comunemente il Bollicame, il quale resta distante dalla Città di Viterbo un solo miglio; ed è per certo una delle belle curiosità, che sieno nell’Italia, mentre il medesimo è fatto a similitudine di una gran conca, di circonferenza circa palmi 408 di passetto, avendolo io stesso misurata, dove del continuo vedesi bollire l’acqua molto fervidamente, e tramandare per ogni parte gran quantità di fumo, che non poco disgustoso rendesi all’odorato; essendo tale il calore di detta acqua, che non è possibile fermarvi dentro il dito neppure per pochi momenti».

Aggiunge che qualcuno provò a trovare il fondo, immergendo sassi attaccati alla fune, ma senza risultato per la grande profondità; altri vi buttarono degli «ovi crudi, che discendendo al basso, non più compariscono […]. Altri vi attuffano degli animali, che in briev’ora vi rimangono del tutto spolpati», come testimonia anche Fazio degli Uberti (1305 c. - dopo 1367) nel suo Dittamondo, nel libro III al decimo canto:
«Io nol credea perchè l’avessi udito / senza prova che ‘l Bolicano fosse / acceso d’un bollor tanto infinito: / ma vi gettai un monton dentro e si cosse / in men che l’uomo andasse un quarto miglio / che altro non si vedea che proprio l’osse».

Il Bussi provò di persona a far cuocere un uovo intiero, ma valutò che ciò non accadeva «ancorchè notabilmente lo riscaldi» e preso dalla curiosità provò a rompere l’uovo per vedere se l’albume o il tuorlo si astringevano, ma constatò, forse con un pizzico di delusione, «che non giugne tampoco a condensarne nè il torlo, nè l’albume».

Nel Settembre del 1752, Giuseppe Garampi, poi cardinale, e Giovanni Conti ne ebbero conoscenza diretta, tanto che nelle Memorie istoriche scrivono: «è un piccolo lago a forma di vivajo recinto di un muricciolo grande quanto un’ampia sala, ma di figura rotonda. L’acqua ha un grado di calore assai intenso, di sorte che non si può facilmente soffrire dalla mano anche per breve tempo. Quest’acqua continuamente gorgoglia e fuma, e fa un tartaro bianchissimo sulle sponde, e dovunque ella scorre; per mentre si deriva in più parti in diversi vivaj ad uso di macerare le canapi e rendere all’intorno del fetore solfureo nell’aria».

Gaetano Coretini nel 1774 scrive:
«Tale è poi il calore dell’acqua, che non solamente non si regge a tenervi ferma la mano per pochi momenti, ma eziandio attuffandovi animali, in breve tempo rimangono spolpati, benché altronde riscaldi bensì notabilmente, ma non abbia forza di cuocere un’uovo, ed ovunque passa, lascia un tartaro bianco, che in decorso di tempo s’impietrisce. L’uso, che comunemente si fa di quest’acqua a’ giorni nostri è per macerare le canape, ed i lini, che riescono di straordinaria bianchezza».

Giandomenico Martelli nel 1777 riferisce in merito:
«E’ questo Bullicame circa un miglio lontano dalla Città, una spaziosa laguna sempre bollente entro una rotonda cavità di diametro circa palmi sessanta, che per vari canali sboccando copiosa ne vicini terreni, è dai Coltivatori destinata a molti usi; ed in particolare ad innaffiare e fecondare le piantagioni di diverso genere, onde cavarsi ubertosi vantaggi. Ella è di tanto eccessivo calore, che appena per un minuto può tenervisi immersa la mano».


Il governatore generale Ferdinando Fantuzzi, a mezzo editto del 16 Giugno 1790, ordina che gli animali morti «vengano tutti trasportati nel Piano del Bullicame all’intorno della Caldara, e ne’ luoghi incolti, ed infruttiferi del piano medesimo, distanti almeno Trenta passi dalla pubblica Strada».


Quarant’anni dopo era ancora in vigore tale disposizione, infatti, il 5 Aprile 1830, Giacinto Clementi, nelle veci del delegato apostolico Gennaro Sisto, ricorda tra l’altro, a mezzo notificazione che «i cadaveri degli animali che muoiono in Città, e nelle campagne, […] tutti i cavalli, asini, buoi, cani, ed altri di qualunque specie morti come sopra, o che vengono uccisi dai loro proprietarj come inservibili debbano all’istante esser trasportati nello spiazzale arido del bollicame [su un manifesto simile, del 29 Agosto 1824, è scritto «Bulicame»], ed ivi sepolti in fossa di sufficiente profondità».


Era, inoltre, possibile scuoiare le carcasse degli animali solo in questo luogo, lontano dagli occhi dei popolani.
Vito Procaccini Ricci, scrive nel 1821: «La profondità maggiore, che rimane, verso il mezzo, è di 10 in 12 metri […]» e «in realtà il termometro non oltrepassa i gradi 43 e 45 al più. Ed infatti io stesso vi ho immerso la mano e tenuta parecchi minuti senza soffrire fastidio veruno; […] Se talvolta qualche infelice mentecatto vi si è gettato (come intesi essere accaduto) si è visto morto colà al pari di chiunque altro resti soffocato nelle acque, senza che nude e senza polpa gli siano rimaste le ossa, siccome il volgo crede e racconta. Attorno il citato bullicame trovasi un basso muretto per impedir che gli armenti non abbiano a traboccarvi».


Nel 1845 Pietro Biolchini, sul Giornale arcadico di quell’anno, volume 310, scrive tra l’altro in merito alla macerazione della canapa presso la caldaia del Bullicame:
«Questa, oltre ad esser nociva alla salute per le sue esalazioni, reca eziandio disgusto per il cattivo odore.
Que’ luoghi invece vorrebbero esser resi ameni con piantagioni di alberi che alla freschezza delle ombre accoppiassero la vaghezza della verdura e l’olezzo de’ fiori. Vi si vorrebbero viali ampi ed ombrosi per camminare. I comodi, la decenza, il lustro, con cui si adornano oggi i celebri bagni d’Europa, rendono a me superfluo il far quì un piano per migliorare non solo, ma render salubre, grata, e deliziosa la stazione balnearia. 
I bagni di Viterbo racchiudono due supremi vantaggi: la bontà ed efficacia delle acque per molte malattie, e la vicinanza di una città colta e gentile».

Mentre Francesco Orioli riferisce che, nel 1849, nelle piscine del Bullicame si macera la canapa, che comunque scarseggia, perché è sostituita dalla produzione del tabacco, seppure un tempo il lino era il preferito. Il dottor Armand nel 1852 annota:
«Oggi le sue acque non più adoperandosi pei bagni dello Stabilimento termale, vanno a distribuirsi per piccoli canali che partono a raggi dalla circonferenza del bacino in una quantità di fosse, ove si fa macerare la canape, frequentate come pubblici bagni all’aperto da una parte della popolazione bisognosa.
Con tenue spesa potrebbero trasformarsi in bacini da nuoto coperti, e spaziosi quanto si voglia».


Lo stesso medico nel 1853 scrive:
«Uscendo all’ovest della porta di Faul e percorrendo nella direzione del torrente di questo nome la via in parte scavata nelle correnti di lave su diversi punti della quale una vigorosa vegetazione forma delle volte frondose, si trova alla distanza minore di tre miglia la principal sorgente solforosa chiamata il Bulicame […]. 
Oggi le sue acque non più adoperandosi pei bagni dello Stabilimento termale, vanno a distribuirsi per piccoli canali che partono a raggi dalla circonferenza del bacino in una quantità di fosse, ove si fa macerare la canape, e in due altre Vasche per gli Uomini l’una, e l’altra per le donne, frequentate come pubblici bagni all’aperto da una parte della popolazione bisognosa.


Con tenue spesa potrebbero trasformarsi in bacini da nuoto coperti, e spaziosi quanto si voglia».
Il 27 Luglio 1872 il periodico la Gazzetta di Viterbo propose di recintare il sito «donde rampollano le acque», perché costituiva pericolo per chi vi transitava di notte e per i ragazzi che frequentavano la zona. Le vasche, molto spesso, erano utilizzate dai contadini che le svuotavano per innaffiare i campi e ciò, il 21 Giugno 1873, fu oggetto di un articolo sulla Gazzetta di Viterbo che lamentava tale abuso. Infatti, così facendo venivano impediti i bagni alla popolazione e l’articolo conclude «Il ricco può averli altrove, il povero in niun altro luogo che in questo».


Su una stele in blocchi di peperino, presso la caldaia, era l’epigrafe, così ricordata da Andrea Scriattoli nel 1929: (Foto 307)
«Presso del Bullicame che Dante ricordò nel Poema Sacro e forse vide nell’anno giubilare di pace / i Soci residenti di Viterbo del Touring Club Italiano / compiendosi il secolo VI dalla morte dell’Altissimo Poeta / vollero fosse eretto un memore cippo di pietra paesana / fidato in custodia al Comune / 14 settembre 1921».

Per quell’occasione fu anche stampata una cartolina disegnata da Domenico Cristofori, riproducente il Bullicame e in fondo la Città di Viterbo. Oggi, sul fronte della stele, trovo scritto il famoso canto di Dante, «Quale del Bulicame» eccetera e sul lato che guarda la caldaia sotto allo stemma del T.C.I.: Nel secentenario dantesco / per iniziativa del Touring Club Italiano / a cura dei soci residenti in Viterbo.

Negli anni 1999 e 2000 l’Amministrazione comunale ha disposto un piano di recupero della superficie ove si trova il Bullicame, realizzando una serie di piscine con cordoli in cemento e demolendo il muro di cinta della storica pozza d’acqua, costruendo in sua vece un elegante recinto di vetri infrangibili per consentire una migliore visione della vasca stessa.

Il Bullicame è una sorgente di acqua solfurea-solfato-bicarbonato-alcalino-terrosa, ha una portata di 18/20 litri al secondo ad una temperatura di 55/58° C. Nel 1855 erogava trenta litri al secondo, nel 1961 ventidue al l/s, un anno dopo è sceso a quindici l/s, nel 1969 a 11,36 l/s., nel 1989 a 14 l/s.; oggi il livello della sorgente a volte diminuisce per i pozzi abusivi.