Viterbo STORIA OGGI
Stefano Aviani Barbacci

 

Pugno chiuso e stella rossa: la fede politica comunista non ha impedito ai combattenti curdi del YPG di concorrere alle SDF (Syrian Democratic Forces) controllate dagli Stati Uniti

Il tramonto ormai prossimo del Califfato lascia sul tappeto la “questione dei Curdi”, un gruppo etnico non arabo (discendenti degli antichi Medi, la cui lingua appartiene al ramo iranico del gruppo linguistico indoeuropeo) e che aspira ad un proprio stato nazionale fin dall’epoca della dissoluzione dell’Impero Ottomano.

La maggior parte dei Curdi vive in Turchia e, non poche volte in Occidente, la bandiera di un Kurdistān indipendente è stata sollevata o lasciata cadere a seconda che si trattasse di minacciare o di compiacere Ankara. Dunque, in modo sostanzialmente strumentale.

Una più piccola parte dei Curdi vive invece in Siria, lungo il confine nord-orientale, in una regione chiamata Rojava e che gode di un’ampia autonomia, presidiata dalle YPG (Yekîneyên Parastina Gel), le unità di autodifesa del popolo curdo. Sono entrati nel conflitto quando l’ISIS, all’apice della sua potenza, aveva investito anche questa parte remota della Siria. Fermata l’avanzata degli islamisti a Kobane nel 2015, i peshmerga (incoraggiati prima dai Russi e poi dagli Americani) davano luogo ad una controffensiva che li ha portati infine a Raqqah e lungo la sponda est dell’Eufrate. Il grande fiume della Mesopotamia disegna ora un inedito confine politico interno alla Siria: lungo la sponda est e nella regione orientale avanzano i Curdi, lungo la sponda ovest e nella regione centrale invece i Siriani. Il peso “politico” dei Curdi è cresciuto similmente a certi pezzi del gioco degli scacchi che dominano la scena nei finali di partita. Ma quale giocatore muove i pezzi a est dell’Eufrate?

Raqqah, la capitale del Califfato in Siria conquistata dai Curdi, non è stata espugnata propriamente dalle YPG, bensì dalle SDF (Syrian Democratic Forces), milizie create dalla precedente amministrazione americana, nelle cui fila militano tra i 10 e i 20.000 peshmerga “prestati” dalle unità di autodifesa del popolo curdo in cambio di armi pesanti e appoggio politico da parte di Washington. Non solo, fanno parte delle SDF alcune migliaia di combattenti arabi (5-10.000?), per lo più ex miliziani del Free Syrian Army (quello allestito da Turchi, Sauditi e Americani per rovesciare Bashar Al-Assad) ed elementi tribali siriani. Vi sono, infine, non meno di 5.000 militari statunitensi (una presenza sempre meno nascosta) distaccati da noti corpi d’elite quali i “Berretti Verdi” ed almeno 2.000 “contractors” reclutati presso agenzie private americane come la Academy (nota in passato come Blackwater). Chi muove i pezzi a est dell’Eufrate è dunque il Pentagono.

 

Raqqah: l’inviato di Washington per i rapporti con la Coalizione Anti-ISIS Brett McGurk con il ministro saudita per gli Affari del Golfo Thamer al-Saban (rispettivamente, terzo e primo da sinistra)

Lungo la sponda est dell’Eufrate, i Curdi del YPG (la cui lingua le popolazioni locali arabe non comprendono) figurerebbero come un gruppo etnico allogeno, mentre occorre a Washington di poter legittimare la propria presenza in Siria come aiuto ad una compagine politica che possa apparire agli occhi della comunità internazionale come “siriana”. Di qui la necessità di creare e dare la priorità alle SDF, grazie alle quali gli USA controllano (ora che l’ISIS l’ha abbandonata) una regione il cui sottosuolo accoglie (particolarmente nei dintorni di Al-Omar) il 30% almeno delle riserve petrolifere siriane.

Il significato di questa mossa lo ha spiegato (in un’intervista a Sputnik, il 27/10/17) il generale siriano Turki Al-Hasan: “Gli Stati Uniti vogliono mantenere sotto il loro controllo questi campi petroliferi per finanziare con il ricavato i gruppi armati che essi supportano al fine di indebolire lo stato siriano. I campi petroliferi sono ora sotto il controllo delle SDF, costituite prevalentemente da Curdi, solo perché il Califfato ha ceduto loro quest’area dopo un accordo con gli Stati Uniti. Solo così le SDF hanno potuto impadronirsi senza difficoltà di questi giacimenti”.

In effetti, tanto la conclusione della lunga battaglia di Raqqah che la recente “liberazione” di Al-Omar sono intervenute a seguito di accordi che hanno garantito ai combattenti dell’ISIS un’uscita incolume dal campo di battaglia (con armi e bagagli al seguito e trasferimento altrove con appositi autocarri) in cambio della cessione delle aree contese alle milizie sostenute dagli Stati Uniti. Il Pentagono, naturalmente, ha negato un proprio ruolo nelle trattative, ma sono ormai sulla rete le testimonianze degli autisti ingaggiati per mettere i jihadisti al sicuro ed è di pubblico dominio il video della BBC che mostra il generale statunitense Jim Glynn incontrarsi, il 12 Ottobre, con i comandanti dell’ISIS per la firma dei suddetti accordi.

Tra Al-Mayadin e ad Al-Bukamal: una giornalista di Russia Today (notare il capo scoperto) fotografata accanto a un T-72 dell’Esercito Arabo Siriano in sosta lungo la sponda ovest dell’Eufrate

Non così facile è stata l’avanzata siriana lungo la sponda ovest dell’Eufrate. Da Deir Ezzor ad Al-Mayadin e poi fino ad Al-Bukamal (al confine con l’Iraq) dove ancora si combatte, Damasco ha incontrato una resistenza fanatica, pagando col sangue dei propri uomini ogni metro quadrato di sabbia strappato al Califfato. Tra i caduti siriani il generale Issam Zahreddine, l’eroe della difesa di Deir Ezzor. Tornato al fronte dopo una breve licenza trascorsa a casa, il “druso matto” (così lo chiamavano) già guidava l’assalto dei suoi uomini all’isola di Saqr che i jihadisti avevano minato e trasformato in fortezza. Zahreddine era un comandante che non si nascondeva nelle retrovie e dunque, il 18 Ottobre 2017, è morto saltando in aria su una mina, una delle tante di cui “le grandi democrazie” e i Paesi del Golfo avevano generosamente provvisto le formazioni islamiste incaricate di rovesciare il governo di Bashar Al-Assad.

Dopo la “liberazione” di Raqqah, ha fatto la sua comparsa in città, accanto a generali e politici a stelle e strisce, il ministro saudita per gli Affari del Golfo Thamer al-Saban. Guarda caso, la sua presenza si è accompagnata al rilascio di numerosi prigionieri islamisti, tra i quali non pochi combattenti e predicatori wahabiti destinati a rientrare in Arabia Saudita (come ha documentato Ghaleb Kandil, direttore del Center Middle East News) dopo aver combattuto il jihad in Siria.

Ai Sauditi torna comodo raffigurare Bashar Al-Assad come un “apostata”, in quanto il presidente siriano è parte di una comunità religiosa (gli Alawiti) considerata eretica dai wahabiti. Assad, inoltre, non ha mai consentito all’imposizione della Sharia nel suo Paese, garantendo piuttosto una libertà religiosa che non ha eguali nel mondo islamico. Ma il diritto alla libertà religiosa, evidentemente, non è più una causa che susciti l’attenzione sincera e la passione civile dell’Occidente. I “diritti umani” da noi sono ormai altri…

PER APPROFONDIRE

“Fuga dell’ISIS. Lo sporco segreto di Raqqah”, di Souad Sbai

http://www.lanuovabq.it/it/pdf/fuga-dellisis-lo-sporco-segreto-di-raqqa

“Curdi dalle stelle alle stalle, rischiano di essere spartiti”, di Gianandrea Gaiani

http://www.lanuovabq.it/it/curdi-dalle-stelle-alle-stalle-rischiano-di-essere-spartiti

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