Viterbo STORIA VISSUTA
Dall’opera “Lo scrigno” di Maria Antonietta Ellebori

Non è detto che le persone che sono contrarie alla guerra, non amino la Patria … anzi.

La amano combattendo con armi invisibili come l’intelligenza, il buon senso, la diffusione della cultura e di una democraticità dei valori che contano.

Anche quelle povere od analfabete come lo erano i contadini del primo ‘900 sono stati utili alla ricostruire del futuro del Paese, e, consapevoli dei loro limiti, lo sono stati con le uniche armi che sapevano usare con maestria: … la zappa e la vanga.

Prima parte: Nel centenario del primo conflitto mondiale, un’esperienza vissuta da un vignaiuolo dell’Agro romano

Seconda parte

“Tornai a casa ed era come se quei due anni trascorsi in trincea tra i ghiacci dolomitici fossero stati venti.

D’improvviso mi sentivo adulto ed il mondo mi appariva con sfumature che vedevo per la prima volta.

Pensavo: “Sono cambiati gli altri o … sono cambiato io!”

Una sincera autocommiserazione mi dicevo che non avevo conosciuto la giovinezza, poiché da adolescente mi era trasformato in un uomo, e non sapevo se gioirne od esserne rattristato.

Avevo anche una concezione diversa della morte, che non temevo più, perché la consideravo l’unica certezza collegata alla vita; avevo imparato che dovevo portare rispetto ad entrambe allo stesso modo, per potermi riappropriare di una parvenza di serenità.

Mi sentivo pronto ad affrontare ogni difficoltà, avvertivo una responsabilità esagerata nei confronti della famiglia e volevo dare un senso alla mia trasformazione.

Anche se ero analfabeta, i miei pensieri avevano la maturità di un adulto: sapevo che i più scaltri avrebbero approfittato dei disagi sociali dei disoccupati e dei poveri, manipolandoli per proprio tornaconto, cosicché mi tenevo informato durante il settimanale mercato agricolo, infiltrandomi nel crocchio dei contadini anziani, impegnati a discutere le novità del momento.

Sbracciandosi in rumorose “panacche” tra loro ed, addossandosi una vanità che in certi momenti rasentava il ridicolo, quelli facevano a gara per dimostrare chi ne sapesse di più, per aggiudicarsi il primato della notizia più eclatante del giorno.

Tra tutti ammiravo le persone anziane, ne invidiavo la saggezza e la sicurezza che scemava a noi giovani; avevo dedotto che queste fossero una conquista dell’età vetusta, ed, in quei momenti, “non vedevo l’ora di diventare vecchio anch’io” ( Eduardo De Filippo) per provarne ed assaporarne il gusto.

Succedeva che venivo preso talmente da quelle discussioni, che non facevo in tempo a comperare quanto dovuto, così che tornavo a casa a mani vuote e dovevo sorbirmi, per tutto il giorno, le lamentele dei miei genitori, che consideravano soltanto le necessità entro le mura di casa.

Vivevo in un podere di proprietà di un signorotto romano, che i miei gestivano in mezzadria, ma quando pensavo al mio futuro volevo qualcosa di meglio.

Un amico mi confidò che il Governo Italiano, già all’indomani della disfatta di Caporetto, erano state approntate misure per risollevare il morale del Paese, in particolare di quelli che avevano servito la patria e che con un decreto ( D.Lgs.1970 del 10 dicembre 1917) era stata istituita L’Opera Nazionale Combattenti e l’Opera Nazionale Invalidi di Guerra con il motto “Terra ai reduci”.

La cosa mi era sfuggita per il ricovero in ospedale da campo, così mi feci spiegare bene la questione e tutti i passi della legge da un conoscente sindacalista ed ebbi la vera visione di quella che, in un primo momento, mi era sembrata una fregatura.

Erano state requisite grandi aree non coltivate dall’assenteismo dei proprietari, alle quali si imbrogliavano gli ex territori pontifici passati ad usi civici, specialmente nell’Agro Romano.

In pratica, con l’assegnazione agli ex combattenti, si voleva promuovere la bonifica agraria sul suolo italiano, assistita anche da un sostegno finanziario, con l’erogazione di mutui da parte delle banche, come già avveniva nel nord, dove il progetto aveva assunto un aspetto agro- industriale;

ma io mi sentivo più simile ad un veterano ritornato dalle guerre puniche, come mi aveva raccontato il nonno attraverso le storielle tra il fantasioso ed il veritiero.

Riconoscevo appena le lettere dell’alfabeto e non sapevo scrivere, ma un amico “molto istruito”, che aveva espletato tutte e cinque le classi elementari, mi preparò le pratiche per la domanda di inserimento nel piano.

Quando dal vialetto vidi il messo del comune che pronunciava il mio nome, sventolando la lettera, capii.

Mi assalì un acuto mal di pancia per l’agitazione …. della contentezza, e si placò soltanto all’indomani, dopo una nottata completamente insonne trascorsa facendo avanti e indietro … da un albero di fico.

Quello che credevo fosse un sogno borioso ed immeritato si era avverato.

Il giorno dell’assegnazione ero in fila insieme agli altri.

Ci accomunava la familiarità del portamento vigoroso, dell’abbronzatura rupestre, del vestiario sdrucito e rattoppato, ma pulito per l’occasione, degli scarponi chiodati e … dall’orgoglio che trasudava dallo sguardo per aver ottenuto un futuro insperato, come una manna dal cielo, anche se bisognava rimboccarsi le maniche, nel vero senso della parola.

Al mio nome fu allegato il lotto n.1, quello dove i signori Malatesta avevano veramente vissuto, ma il passaggio era stato cancellato da un vasta macchia di rovi che aveva infestato tutta la vallata.

Con un piccolo prestito, comperai l’occorrente per la bonifica e mi accordai con un altro reduce, che faceva l’edile ed aveva avuto il terreno confinante con il mio. Così unimmo le nostre forze per aiutarci.

Con un accordo che ci sembrava molto intelligente, lavorammo a turno nel podere dell’uno e dell’altro, affinché le cose procedessero di pari passo. Liberammo il terreno dai rovi, lavando soltanto alla sera le braccia graffiate e sanguinanti; affittammo un trattore per “scassare” il terreno, rivoltando la terra per oltre un metro; dopo i tempi dovuti lo fresammo ed interrammo le piante di uva selvatica, sulle quali avremmo poi innestato le talee di malvasia.

Ci vollero tre anni perché i filari, armonicamente allineati, coprissero la vallata in un meraviglioso belvedere, dove i grappoli cerulei pendevano tra le foglie.

La prima vendemmia mi decideva di un’emozione mai provata: avevo il compenso per qualcosa che non dovevo dividere se non con la mia famiglia; non “dovevo” più controllare l’impulso a controbattere, quando il proprietario mi coinvolgeva in discussioni di sottintesi contenuti di rimprovero soltanto perché lui era il “padrone” al quale obbedire.

Soprattutto ero consapevole che anche un ignorante ed un analfabeta povero come me era utile alla ricostruzione del Paese.

Con parte del ricavato del primo raccolto, ho tirato su la casa ed il tinello e mi sono trasferito con mia moglie ed i miei genitori, ai quali riconoscevo l’aiuto nel sanare parte del debito in banca.

Era un casupola di modeste pretese, soltanto con due camere per dormire ed una cucina, ma mi sembrava un reggia perché io mi sentivo un … re.

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