Viterbo STORIA
Alessandro Gatti

Lo Statuto di Viterbo del 1251 in una foto di Sergio Galeotti

All’accadimento della morte di Federico II di Svevia, quando correva l’anno 1250, l’Italia si affacciava sullo scenario di un tumultuoso processo successorio. 

Lo Svevo aveva sei figli legittimi ed undici illegittimi che reclamavano, ognuno per suo conto, i propri diritti di sangue. Di questi, come fece notare anche lo storico viterbese Cesare Pinzi, solo cinque maschi sopravvivevano e Corrado IV, figlio di Iolanda di Gerusalemme, parve predestinato ad ereditare il genio d’autore paterno nella futura stesura della Storia d’Europa.

In questo contesto, tanto italiano quanto europeo, Viterbo giocò un ruolo centrale se non altro, e tra le altre cose, poiché fu qui che Federico II d’Hohenstaufen detenne numerosi fra possedimenti e palazzi. Corrado, creato Re di Germania nel 1237, entrava ora in possesso di tutti i beni del padre e si accingeva a farsi strada tra le infingarde trame anti imperiali di Papa Innocenzo IV.

Di fatto con la morte di Federico II la Chiesa di Roma aveva la sua occasione di riscattare il suo ruolo cruciale nella politica europea in quella che per secoli era stata, e sarebbe stata, la ciclica alternanza tra Teocrazia e Cesarismo. Ora sembrava sancito il trionfo del Pontefice che poteva aver la meglio sulle ragioni imperiali della casa degli Hohenstaufen, manchevole del suo supremo leader carismatico: il defunto Federico II di Svevia.

Viterbo vide il suo ritorno alla Guelfa fazione per ardimento del cardinal Raniero Capocci, inviato dal Papa perché riconducesse, sotto le ali della Chiesa, quella città dall’importanza significativa che aveva ceduto alle lusinghe imperiali.

Nel 1247, infatti, in seguito alla vittoria degli Svevi in un devastante secondo assedio a Viterbo, la fazione ghibellina prevalse. Di lì i Viterbesi promisero la loro fedeltà all’imperatore, non tanto per un vero e proprio sentito consenso, quanto piuttosto per il bisogno immenso di pace che serpeggiava tra quel popolo.

La fame e gli stenti causati dal precedente attacco alla città, mosso dall’esercito di Federico II nel 1243, avevano più che mai reso appetibili le promesse di tregua e le concessioni avanzate dall’Imperatore. Questo conflitto, scatenato dal livore di Capocci per Federico II, si rivelò una sconfitta per lo Svevo, ma comunque mise a durissima prova il morale e le forze dei Viterbesi, seppur ne uscirono vittoriosi.

Fu così che, senza indugio, molti guelfi decideranno in seguito di abbandonare le loro posizioni di ostilità contro l’Imperatore, altri fra questi decisero proprio di dipartire dalla città.

Tra molti Viterbesi v’era il timore che il papato volesse tutelare i propri interessi di potere piuttosto che garantire protezione alla città. Questa venne vista di più facile garanzia nell’orbita dell’Impero e, attorno alla metà del XIII secolo andò a instaurarsi una sorta di vera e propria sinergia asimmetrica tra la casa degli Hoenstaufen ed i Viterbesi.

Federico II poteva dominare attraverso Viterbo la Cassia, poteva imporsi sugli ecclesiastici minacciandoli proprio là, nel cuore del Patrimonio di San Pietro e, al contempo, Viterbo si trovava tutelata da eventuali incursioni da Roma.

Questo favore verso l’Impero era stato agevolato dall’impopolarità che il cardinal Raniero Capocci aveva assunto dopo la prima rivolta popolare che il prelato aveva aizzato contro gli imperiali determinando così il funesto assedio del ‘43. Tale atteggiamento bellicoso aveva portato ad una guerra di resistenza che, se pur inizialmente vinta, vide le sorti ribaltarsi, a favore degli Svevi, a causa dell’eccessivo logoramento.

Quando l’Imperatore, in seguito alla sua rivincita, ebbe dato garanzie e concessioni generose al popolo, questo non esitò a sostenerlo fino alla morte. Quest’ultima, nel 1250, vide sfumare quell’elemento garante della “Pace perpetua”. La Chiesa poteva finalmente rimpossessarsi delle sue prerogative avanzate in merito al controllo della città di Viterbo.

In occasione di questo evento molti Guelfi tornarono alla maniera del “figliol prodigo” e papa Innocenzo IV, che aveva, l’anno precedente, trasferito la sua sede a Perugia, decise di concedere la Bolla da Perugia del 1252 che permettesse agli scomunicati di “fare ritorno alla casa del Padre”.

Questa cosa, non sempre spontaneamente, raccolse i consensi dei cardinali, era necessaria, infatti, perché si mantenesse possibile e attuabile il controllo preconizzato dal Papa. Questi ben sapeva che il potere nudo e crudo avrebbe potuto ben poco se non accompagnato da una dose di consenso.

Unico onere che Innocenzo stabilì per i redenti, fatta salva la riacquisizione nelle grazie di Dio Padre e la possibilità di poter rientrare a Viterbo, o di restarvi in pace, era la sottomissione allo statuto del 1251.

Questo aveva già uniformato, modificato magistrature e maestranze istituzionali per garantire le prerogative di base che avrebbero “riannodato una rete compatta alla base di una nuova lega guelfa fra le repubbliche d’Italia”, stando alle parole del Pinzi.  In quest’ottica un’amnistia per i penitenti era possibile solo nel caso di una piena accettazione, e consapevole genuflessione, all’influenza d’una restaurata Teocrazia papale.

Bibliografia:

Salva

Salva

Salva

Salva

Salva

Salva

Salva

Salva

Salva

chi è on line

Abbiamo 574 visitatori online

 

 I libri

di Mauro Galeotti

 

Cartonato - pag. 246 - euro 25,00
in esaurimento, per l'acquisto
scrivere alla email spvit@tin.it

Cartonato - pag. 808, a colori
da euro 120,00 a euro 80,00
in esaurimento, per l'acquisto
scrivere alla email spvit@tin.it