Villa san Giovanni in Tuscia STORIA
Micaela Merlino

 

Il Centenario della Prima Guerra Mondiale costituisce un’occasione per ripensare il rapporto tra la guerra e l’arte, un tema molto dibattuto e che ha segnato la cultura occidentale dall’età classica, con le raffigurazioni di battaglie in tante opere greche e romane, fino al Novecento, un secolo martoriato da due conflitti mondiali.

L'arte può rappresentare l' “indicibile orrore”, la crudeltà umana? Sicuramente può farlo, e lo ha fatto, anche prima e dopo che il filosofo tedesco Theodor W. Adorno (1903-1969) affermasse, invece, che l'ontologia negativa dell'estetica moderna si fosse ormai storicamente compiuta nella Shoah e costituisse un limite che l'Arte non doveva superare, perchè non si può rappresentare l'indicibile. Durante la Prima Guerra Mondiale l'Arte arrivò al fronte: alcuni pittori, spinti dall'ideale del Patriottismo, vollero partecipare alle operazioni belliche.

Nel 1914, all'inizio della guerra, Franz Marc uno dei maggiori rappresentanti dell'Espressionismo tedesco, amico e collaboratore di Vasilij Kandinskij, si arruolò come volontario e divenne un “pittore al fronte”. Qui iniziò a scrivere aforismi e a realizzare disegni riguardanti la dura vita dei soldati, la cruda realtà della guerra, materiale pubblicato postumo perchè Marc morì nel 1916 combattendo a Verdun.

Con una buona dose di retorica l'italiano Filippo Tommaso Marinetti, che nel 1910 fondò a Milano insieme ad altri artisti il "Movimento Futurista", riteneva che la guerra fosse "la sola igiene del mondo". Fedele all'Interventismo, nel 1915 il suo amico pittore Umberto Boccioni si arruolò nel "Corpo Nazionale Volontari Ciclisti Automobilisti", ma la sua esperienza umana ed estetica al fronte fu tragica: spogliata della retorica si rese conto che la guerra era aberrante.

Non era solo paura e sofferenza, ma nell'angoscia dell'attesa prima della battaglia diventava addirittura "noia e fastidio per gli insetti", come scrisse in una lettera nell'ottobre del 1915. Eroe oscuro, forse troppo deluso ed "annoiato" per meritare una fine gloriosa, Boccioni morì a Chievo il 17 agosto 1916 durante una esercitazione militare cadendo dal suo cavallo, imbizzarrito a causa del passaggio di un autocarro.

Amico del Marinetti fu anche il pittore inglese Christopher Nevinson con il quale a Parigi aveva redatto il manifesto "Vital English Art", in cui si proclamava che il Futurismo era l'unico Movimento culturale e artistico in grado di rappresentare le Avanguardie. Tuttavia è singolare che in Nevinson l'ideologia della violenza come rigenerazione dell'uomo e del mondo non mise radici, poichè fu un convinto pacifista. Obiettore di coscienza, allo scoppio della guerra rifiutò di arruolarsi, perciò prestò servizio con la Croce Rossa britannica sul fronte francese.

La dura esperienza lo segnò profondamente: nessuna "estetica" c'era nei massacri che avvenivano giornalmente, nessuna revivificazione nel sangue che scorreva a fiumi, nessuna gloria conquistata combattendo, ma solo dolore, disperazione, annientamento. Di tante vite sacrificate restavano solo miseri corpi coperti di fango e sangue, frettolosamente seppelliti in maleodoranti fosse comuni. Tornato a Londra nel 1915, ancora tormentato dal trauma subìto, cominciò a dipingere quadri aventi come soggetto gli orrori di cui era stato testimone. Nominato ufficialmente "artista di guerra" nel 1917, tornò al fronte e dipinse altre scene immerso nella realtà di quell'inferno.

Uno dei quadri più impressionanti per la forza d'espressione è "Paths of glory" dipinto nel 1917, nel quale alcuni soldati trucidati sono riversi accanto ad una linea segnata dal filo spinato; opera che, per l'estremo realismo, fu censurata e gli fu vietato di esporla in pubblico. L'orrore della guerra non è indicibile, irrappresentabile, ma forse può essere “inconfessabile”. In quegli stessi anni in Italia le copertine della "Domenica del Corriere" realizzate dal bravo illustratore Achille Beltrame, presentavano ai lettori scene di guerra mai crudemente realiste, e non solo perchè Beltrame non disegnava dal fronte ma nel suo studio di Milano.

2qC'era un confine segnato dal pudore e dalla convenienza che non doveva essere oltrepassato: l' "estetizzazione dell'orrore" si credeva necessaria per evitare di alimentare l'angoscia, di scatenare la disperazione. Ma operavano anche motivazioni ideologiche: la guerra era certamente crudele, ma patriotticamente necessaria. L'ideale dell'amor di patria aveva messo radici anche in Germania.

Il pittore tedesco Otto Dix partì per il fronte mosso da un entusiastico patriottismo, e per il coraggio dimostrato durante i combattimenti fu poi pluridecorato. Tuttavia anche per lui l'esperienza della guerra fu psicologicamente devastante, memoria di orrori che non gli davano pace, tanto che finì per convertirsi al pacifismo.

Nel 1932, molti anni dopo la fine del conflitto e in una Germania politicamente e culturalmente diversa da quella della Prima Guerra Mondiale, dipinse a Dresda un polittico dal titolo "La guerra". L'iconografia più inquietante è quella del pannello centrale: un soldato emaciato e con una maschera a gas emerge da un groviglio di corpi massacrati riversi a terra, mentre la realtà sinistra della morte è realisticamente espressa da un cadavere scheletrito impigliato fra alcuni travi d'acciaio.

Primo Levi a proposito degli orrori della Seconda Guerra Mondiale scrisse che noi abbiamo solo il punto di vista dei sopravvissuti, ma chi può parlare in nome dei morti? In un certo senso questi "pittori al fronte" della Prima Guerra Mondiale hanno cercato di dare voce all' “inconfessabile orrore” che si stava consumando, o che si era consumato, e nelle loro tele spesso i protagonisti assoluti sono proprio i soldati trucidati. Ma solo nel 1945 a conclusione del secondo conflitto mondiale in una poesia del poeta rumeno ebreo Paul Celan da titolo "Todesfuge" ("Fuga della morte") l'"orrore degli orrori" divenne musica espressa in versi.

Incalzato dall'evidenza del dramma espresso in lirica da Celan, che aveva perso i genitori durante la guerra (la madre era morta in un campo di concentramento in Ucraina) e che era stato internato in un campo di prigionia, Adorno fu poi costretto ad ammettere che "La sofferenza incessante ha tanto il diritto di esprimersi quanto il martirizzato di urlare".

Celan, psicologicamente instabile, morì però suicida nel 1970: non sempre l'indicibile orrore di chi ha vissuto il dramma della guerra (sopportandone le disastrose conseguenze), esteticamente evocato, espresso, urlato, gettato fuori e rielaborato con il linguaggio della poesia o con quello dei pennelli, riesce ad esorcizzare l'insanabile angoscia e a ricomporre dimensioni interiori ormai irrimediabilmente lacerate.

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