Vetralla STORIA
Micaela Merlino, archeologa

Un po’ più di cinquant’anni fa nella località denominata “Grotta Porcina”, presso la zona “Dogane” nel territorio del Comune di Vetralla, tenaci tombaroli erano intenti a ricercare tombe intatte da depredare, nelle vicinanze del monumentale tumulo chiamato dai locali “Gran Ruota” o anche “Castelluzzo”.

Una tomba addirittura fu fatta esplodere, causando seri danni che ne compromisero irrimediabilmente la struttura.

L’evento increscioso non fu senza conseguenze, perché l’allora “Soprintendenza Archeologica per l’Etruria Meridionale” decise di intervenire promuovendo una campagna di scavi, con lo scopo di studiare scientificamente questa importante, ma a lungo dimenticata area archeologica.

Le indagini furono condotte dal 1964 al 1966 dall’allora giovane etruscologo Giovanni Colonna, ora Professore emerito dell’Università “La Sapienza” di Roma, e dalla sua èquipe.

Il nuovo interesse per la necropoli di “Grotta Porcina” rompeva un oblio che durava da qualche decennio.

Solo dagli anni ‘20 del XX secolo l’area era stata indagata con ricognizioni di superficie da due appassionati cultori di storia e di archeologia locale, il vetrallese Andrea Scriattoli e Gino Rosi.

Costoro si erano recati di persona nella necropoli e avevano visto il grande tumulo. La prima descrizione in assoluto del sito, corredata da alcuni disegni, si deve ad Andrea Scriattoli, che aveva studiato nel Seminario Vescovile di Viterbo ed era stato allievo del Prof. Don Simone Medichini, il quale oltre a materie scientifiche insegnava anche Archeologia.

Anche Gino Rosi descrisse il tumulo, e realizzò pure un disegno ricostruttivo dell’interno della tomba. In un articolo pubblicato nel 1924 in una rivista scientifica, a proposito delle tombe rupestri del viterbese così scrisse: “Nelle pareti dirupate delle valli s’allineano le facciate una dopo l’altra per lunghi tratti e chi si trovi a transitare per il mezzo, lungo il fosso serpeggiante, pensa a una città che dorme. Ma il sole è alto. Vano è attendere il risveglio. Perché questa è la città dei Morti, e non si potrà mai risvegliare”.

Si riferiva alle necropoli di San Giuliano presso Barbarano, Bieda, Norchia, Castel d’Asso e Grotta Porcina.

A proposito delle tombe a tumulo annotò che ce n’erano moltissime a Cerveteri, mentre “nel Viterbese scarseggiano: un esempio grandioso lo abbiamo però a Grotta Porcina”.

Sia lo Scriattoli che il Rosi affermarono che il grande tumulo di “Grotta Porcina” versava in un pessimo stato di degrado, dovuto non solo alla progressiva erosione del tufo a causa degli agenti atmosferici, ma soprattutto perché era stato riutilizzato come stalla per il ricovero degli animali, in particolare suini, da cui era derivato il nome popolare.

In genere le riutilizzazioni delle tombe etrusche per necessità determinate da un’economia agricola e di allevamento (stalle, magazzini, ripostigli per attrezzi ecc.), fino a qualche tempo fa hanno comportato la demolizione tramite scalpellatura, all’interno delle camere sepolcrali, di letti funebri e banchine scavati nel tufo, al fine di guadagnare spazio; oppure l’escavazione dei medesimi arredi per ricavarne mangiatoie per gli animali.

Al contempo quando lo si riteneva utile furono costruiti muri di tramezzo in legno, in pietra o in mattoni, e furono allargate, o ristrette, le porte di accesso alle tombe.

Si tratta di distruzioni e modificazioni che hanno irrimediabilmente alterato l’aspetto architettonico originario delle tombe.

Negli anni ’30 continuò l’interesse per il sito, sia da parte di Augusto Gargana, che nel 1931 pubblicò due interessanti studi, uno dedicato a Castel d’Asso e l’altro alla necropoli di S. Giuliano, e che fece una breve menzione di “Grotta Porcina”, sia da parte del famoso etruscologo Massimo Pallottino (1937).

Poi per circa tre decenni l’archeologia ufficiale quasi dimenticò questa importante area archeologica, che fu “riscoperta” negli anni ’60 del XX secolo.

In quel periodo lo studioso svedese Erik Wetter vi condusse alcune ricognizioni archeologiche, e pubblicò una foto del sito nell’opera “Etruscan Culture. Land and People” (1962); poi nel 1964-1966 si svolse la campagna di scavi sopra ricordata, che fu molto proficua.

Quasi alla base del grande tumulo fu riportato alla luce un monumento di forma circolare risparmiato nel banco tufaceo, il cui tamburo è decorato con figure di animali a rilievo in stile tardo-arcaico, ed è provvisto di una rampa che permetteva di accedere alla sua sommità.

Questa struttura è inserita all’interno di un’area quadrangolare con gradinate anch’esse scavate nel tufo. Nel corso degli scavi furono rinvenuti anche un monumento funerario a pianta rettangolare, modanato, datato tra la fine del II e il I secolo a.C.; un tempietto lungo il corso del fosso Grignano, a cella unica e con un pozzo, datato nel V secolo a.C., ma che fu usato fino al III secolo a.C.; tracce di una fornace per la cottura dei laterizi.

Il ritrovamento del monumento circolare con figure di quadrupedi pose agli archeologi il problema della sua corretta interpretazione: per quale motivo fu costruito e quale funzione svolse? Il Colonna lo interpretò come un altare monumentale utilizzato per cerimonie funebri, forse da quello stesso clan familiare etrusco, i Cleina, che utilizzava il grande tumulo come “tomba di famiglia”.

Più recentemente, invece, revisionando quanto aveva scritto, ha proposto una nuova interpretazione: non si tratterebbe di un altare, bensì di una sorta di monumentale porta-cippi, la cui funzione si spiegherebbe con la vicinanza del tumulo. Purtroppo, però, nonostante le indagini scientifiche continuò anche l’attività degli scavatori clandestini, tanto che nel 1971 le Forze dell’Ordine sequestrarono materiale archeologico proveniente da “Grotta Porcina” e databile tra il VII secolo a.C. e il II-I secolo a.C.

Tra la fine degli anni ’60 e la prima metà degli anni ’70 l’archeologa Stefania Quilici Gigli condusse una serie di ricognizioni nella zona di “Dogane-Grotta Porcina”, soprattutto con lo scopo di studiare i tracciati viari, poi utilizzati dalla via Clodia, ma riuscì anche a chiarire l’esistenza di almeno tre nuclei di emergenze archeologiche in questo sito (1976).

Più recentemente sono state proposte nuove letture del complesso per chiarire l’articolazione sociale dell’abitato posto nelle vicinanze della necropoli, il quale raggiunse la sua massima fioritura nella prima metà del VI secolo a.C.

Secondo Marco Rendeli (1993), infatti, si sarebbe trattato di un villaggio rurale che faceva gerarchicamente capo a due gruppi gentilizi, i quali possedevano ciascuno un grande tumulo (uno è appunto la “Gran Ruota”).

Attualmente, dunque, questo sito archeologico è un po’ meglio conosciuto a livello scientifico, ma necessiterebbe comunque di altre indagini e di nuovi studi. Soprattutto meriterebbe di essere valorizzato di più, perché eccetto che ai locali, è in generale poco noto ai turisti.

Declino e rinascita, come s’è visto, sembrano le facce di una stessa medaglia, relativamente a questa necropoli. Ma, più in generale, si può affermare che caratteristica quasi congenita di tanti siti archeologici italiani è quella di essere luoghi in cui si sperimenta, non solo filosoficamente, l’“Eterno ritorno”.

Scriveva Friedrich W. Nietzsche ne “La Gaia Scienza” (1882), riferendosi alla vita dell’uomo e riprendendo l’idea dell’antico filosofo greco Zenone: “Questa vita, come tu ora la vivi e l’hai vissuta, dovrai viverla ancora una volta e ancora innumerevoli volte, e non ci sarà in essa mai niente di nuovo (…) e ogni indicibilmente piccola e grande cosa della tua vita dovrà fare ritorno a te, e tutte nella stessa sequenza e successione”.

Un’idea che si addice bene anche ai luoghi: siti archeologici edificati, poi abbandonati, quindi ignorati, riscoperti, dimenticati e di “nuovo” scoperti.

Una clessidra impazzita del tempo, che viene sempre di nuovo capovolta.