Villa san Giovanni in Tuscia STORIA
Micaela Merlino

La vetta del Monte Cimino nel 1937 (Archivio Mauro Galeotti)

Secondo il racconto dello storico romano Tito Livio (59 a.C.-19 d.C.), autore di un’opera monumentale sulla storia di Roma, “Ab Urbe condita”, purtroppo non conservata per intero, nel 310 a.C., Quinto Fabio Massimo Rulliano rivestì il consolato per la seconda volta insieme al collega Gaio Marcio Rutilo Censorino.

In quel periodo la Res Publica romana, impegnata nella conquista della penisola italiana, doveva fronteggiare due temibili nemici, i Sanniti e gli Etruschi.

Gaio Marcio ebbe l’incarico di intraprendere una campagna militare contro i Sanniti, mentre Quinto Fabio condusse l’esercito in Etruria. Infatti “Sutri era assediata dagli Etruschi”- scrisse lo storico, riferendosi alla colonia di diritto latino che i Romani avevano fondato nel 383 a.C., e “il console Fabio che conduceva l’esercito seguendo un itinerario pedemontano nel tentativo di portare soccorso agli alleati e nella speranza che gli fosse offerta la possibilità di attaccare le fortificazioni nemiche, si trovò davanti un esercito in assetto di battaglia”.

Seguì un cruento scontro tra Romani ed Etruschi, e poiché il luogo era impervio e sassoso, i primi cominciarono a scagliare sassi contro i nemici “e così i gran colpi sugli elmi e sugli scudi, anche quando non provocavano ferite, tuttavia scompigliavano le file degli Etruschi” che, esposti a quei colpi, iniziarono a vacillare.

I Romani facilmente piombarono su di loro, ed essi vistisi persi fecero dietro front nella speranza di raggiungere velocemente i loro accampamenti. Ma i cavalieri romani “tagliando trasversalmente la pianura, si pararono davanti ai fuggitivi che, perduta la speranza di raggiungere gli accampamenti, si diressero verso i monti. Di lì quell’esercito disarmato e prostrato dalle ferite cercò rifugio nella Selva Ciminia”.

I vittoriosi romani, che avevano trucidato “molte migliaia di Etruschi”, si impadronirono anche dei loro accampamenti, facendo un ricco bottino, ma furono indecisi se inseguire o lasciare andare i fuggitivi che si erano dati “alla macchia”. L’incertezza del console Quinto Fabio derivava dalla consapevolezza che, oltrepassata Sutrium, i soldati romani si sarebbero trovati davanti boschi impenetrabili, quasi alla stregua di quella “selva selvaggia e aspra e forte” immaginata da Dante tanti secoli dopo nel I canto dell’Inferno.

A tal proposito lo storico romano scrisse che “Silva erat Ciminia magis tum invia atque horrenda quam nuper fuere Germanici saltus” (“A quei tempi la Selva Ciminia era più impervia e spaventosa di quanto siano apparsi, in tempi recenti, i boschi della Germania”), e che “nulli ad eam diem ne mercatorum quidem adita” (“nessuno fino ad allora aveva osato avventurarvisi, nemmeno i mercanti”).

Dunque si trattava di un habitat boschivo fitto, intricato, impenetrabile, dominato da una eterna penombra, entrando nel quale sarebbe stato facile perdere l’orientamento ed essere assaliti da un senso di smarrimento. La Silva Ciminia era ancora più orrida dei boschi della Germania, dei quali le truppe romane avevano fatto recenti esperienze durante le campagne militari condotte da Marco Agrippa nel 36 a.C., e dall’imperatore Augusto un decennio dopo, nel 25 a.C. Con il nome Silva Ciminia i Romani indicavano un’area dell’Etruria meridionale interna quasi ininterrottamente ricoperta di boschi, da identificare con il territorio dei Monti Cimini, con un’estensione che a nord-ovest arrivava fino alle propaggini dei Monti Sabatini, intorno al lacus Sabatinus (lago di Bracciano).

I Monti Cimini sono rilievi di origine vulcanica facenti parte dell’Antiappennino laziale. Il Monte Cimino, che supera di poco i 1000 metri, è il rilievo più alto e la sua cima è ancor oggi ricoperta da una plurisecolare faggeta, che si estende per circa 50 ettari. Verso la fine del XIX secolo su questa altura furono trovati i resti di una doppia cinta muraria, e recenti scavi archeologici hanno confermato la presenza di un abitato della tarda Età del Bronzo (1150 a.C. circa).

Il sito fu poi rioccupato dagli Etruschi, una prima volta nel VI secolo a.C., e una seconda volta nel IV secolo a.C., probabilmente in relazione alle necessità difensive causate dall’aggressiva politica romana. Altri ampi tratti di boschi di querce, faggi, castagni, lentischi, con fitti sottoboschi, sono quelli che ancora oggi si trovano nella zona di Vetralla, ad esempio il bosco della Folgore, e la selva che ricopre il Monte Fogliano, come pure i boschi che si trovano nell’area del lago di Vico, sul Monte Venere e lungo le sue propaggini.

Il Monte Fogliano ha un’altezza di 964 metri ed è coperto di boschi di cerri e di faggi, mentre il Monte Venere è un piccolo cono vulcanico alto circa 800 metri, posto all’interno del cratere del lago di Vico, quasi interamente coperto da boschi di faggi e di cerri. Per gli Etruschi queste plurisecolari silvae costituivano non solo un habitat con funzioni difensive contro gli attacchi dei nemici, nel quale rifugiarsi in caso di pericolo, ma anche una risorsa economica per la grande disponibilità di legname che offrivano, da utilizzare per l’edilizia e per costruzioni di vario tipo, nonché come combustibile da riscaldamento. Il territorio boscoso che impauriva i Romani, era invece di vitale importanza per gli Etruschi.

Tito Livio continuò il racconto narrando che, poiché nessuno dei soldati del console Quinto Fabio osava entrare nella Silva Ciminia, solo suo fratello Marco Fabio fu disposto ad andare in ricognizione, riferendo al suo ritorno notizie utili per programmare una strategia di penetrazione nel cuore dell’Etruria. Egli “era stato educato a Cere presso degli ospiti ed aveva ricevuto una istruzione nelle lettere etrusche, apprendendo molto bene anche la lingua.

A lui si unì nell’impresa uno schiavo, che similmente parlava la lingua etrusca; per non essere scoperti si vestirono da pastori, armandosi però con picche e falci, ma “la familiarità con la lingua e la foggia delle vesti e delle armi non li protessero quanto il fatto che a nessuno sarebbe mai venuto in mente che uno straniero osasse addentrarsi nella selva Ciminia”. Questa insistenza di Tito Livio, che sfiora l’esagerazione, circa l’aspetto temibile della Silva Ciminia, è in parte da imputare alla volontà di mettere in maggior risalto il coraggio dimostrato dagli audaci esploratori, ma non si può certo considerare del tutto inventata la notizia circa l’effettiva impenetrabilità di questa estensione di boschi.

Marco Fabio e lo schiavo percorsero parecchie miglia a piedi, perlustrando tutta l’area, ed arrivarono fino al territorio degli Umbri Camerti, con i quali riuscirono a concludere un patto di alleanza. Avendo acquisito importanti informazioni sui luoghi da attraversare, e contando sull’aiuto dei nuovi alleati, il console finalmente decise di avanzare con il suo esercito, addentrandosi nella Silva Ciminia, tanto che “All’alba del giorno dopo già occupava la sommità dei Monti Cimini; da lì diede uno sguardo ammirato alle fertili campagne dell’Etruria e mandò giù i soldati a saccheggiarle”.

Consci che le depredazioni dei Romani avrebbero causato gran danno all’economia locale “alcune bande raccogliticce di contadini etruschi, messe insieme in gran fretta dai maggiorenti della regione, si pararono davanti ai Romani, ma erano così mal organizzate che quelli che erano venuti per riprendersi il bottino divennero bottino essi stessi. Furono o sterminati o messi in fuga e i Romani vincitori devastarono quel territorio in lungo e in largo, facendo ritorno negli accampamenti ricchi di ogni tipo di preda”.

E’ da credere che la fertilità di quei luoghi non fosse solo causata dalla natura dei suoli e dal favorevole clima, ma anche dall’intervento umano, come dimostra l’esempio dell’area limitrofa al lago di Vico. In questa zona gli Etruschi, abili ingegneri idraulici, scavarono una galleria sotterranea per il parziale deflusso delle acque del lago, allo scopo di guadagnare, attraverso l’abbassamento del suo livello, ampie estensioni di terreno adatto all’agricoltura, reso assai fertile grazie alla presenza di abbondante humus.

Il passo di Tito Livio mette in luce anche un’altra realtà insediativa presente nella zona dei Monti Cimini: infatti le “bande di contadini etruschi” messe insieme alla svelta per contrastare l’avanzata dei Romani, rivelano indirettamente la presenza di insediamenti agricoli. Le ricerche archeologiche hanno effettivamente messo in luce vici (villaggi) etruschi ed etrusco-falisci sparsi in quest’area dell’Etruria meridionale, per esempio quello rinvenuto presso le pendici sud-est dei Monti Cimini vicino a Ronciglione. Tito Livio scrisse con orgoglio che i Romani devastarono quei fertili territori etruschi, perché le res gestae erano degne di memoria soprattutto quando c’era un nemico brutalmente sconfitto.

Una mentalità imperialista che ha segnato la civiltà romana e la sua storia millenaria: alla lunga neppure boschi impenetrabili riuscirono a fermare la sete di conquista dei generali romani. Le antiche divinità etrusche delle selve, che avevano i loro anfratti e i loro altari cultuali anche tra i secolari faggi e i cerri della Silva Ciminia, furono emarginate dallo sfrontato Iovis (Giove), il dio dei conquistatori, che divenne il nuovo signore di quei luoghi con l’epiteto di Ciminius.

Micaela Merlino

Salva

Salva

Salva

Salva

Salva

Salva

Salva

Salva

Salva

chi è on line

Abbiamo 809 visitatori online

 

 I libri

di Mauro Galeotti

 

Cartonato - pag. 246 - euro 25,00
in esaurimento, per l'acquisto
scrivere alla email spvit@tin.it

Cartonato - pag. 808, a colori
da euro 120,00 a euro 80,00
in esaurimento, per l'acquisto
scrivere alla email spvit@tin.it