Villa san Giovanni in Tuscia STORIA
Micaela Merlino

Il vaso di Bocchoris

Nel Museo Archeologico Nazionale di Tarquinia è conservato parte del corredo rinvenuto nella Tomba di Bocchoris, databile tra la fine dell’VIII e gli inizi del VII secolo a.C.

Questo sepolcro fu scavato senza alcun intento scientifico alla fine del XIX secolo, uno sterro fatto con lo scopo di impossessarsi del ricco corredo che conteneva.

Secondo la descrizione che ne fece lo studioso W. Helbig questa tomba, alla quale si accedeva attraverso un dromos e una porta che era in origine chiusa con lastre di nenfro, presentava internamente un bancone scavato nel tufo posto lungo la parete sinistra, sul quale era stato deposto il corpo di una donna, e presentava un tetto ad ogiva.

Questa tipologia è piuttosto diffusa in Etruria Meridionale ed è documentata, oltre che a Tarquinia, anche a Tuscania e a Caere (Cerveteri) fino alla prima metà del VI secolo a.C.

Il corredo era composto da vasi d’impasto di tipo orientalizzante (anforetta a spirale, kantharos, olla su alto sostegno), vasi dipinti di tipo cumano-etrusco, oggetti d’oro e di bronzo di tipo Orientalizzante, e un vaso in faience egizia dal quale la tomba ha preso il nome. Infatti su questo vaso c’è il cartiglio con il nome in geroglifici del Faraone egiziano Bkrnf (Bakenrenef), che i Greci chiamarono Bokchoris e che fu latinizzato in Bocchoris.

La faience egizia è un materiale vetroso composto da silice, ossido di calcio e alali monovalenti, usato in Egitto già dal periodo Predinastico (prima del 3150 a.C.) per realizzare vari manufatti, e spesso caratterizzata da una colorazione blu ottenuta aggiungendo rame o cobalto.

La storia del Faraone Bakenrenef è singolare. Era figlio del Faraone Tefnahte, e probabilmente regnò pochi anni, forse dal 718 al 712 a.C. come sembra testimoniare la stele del Serapeo di Saqqara, una vasta necropoli egizia situata presso Menfi, una trentina di chilometri a sud del Cairo. Su questo personaggio non si hanno notizie a lui contemporanee, ma il racconto scritto dallo storico e sacerdote egiziano Manetone (III secolo a.C.), tratto da una tradizione precedente in gran parte leggendaria.

Egli lo presenta come l’unico re della XXIV dinastia, uomo mite e saggio che emanò leggi giuste per eliminare dal suo regno i soprusi più gravi. In particolare cercò di porre rimedio alla piaga dei creditori esosi, tanto che stabilì che gli interessi accumulati non potevano oltrepassare il capitale, ed emanò altre norme a tutela dei debitori. Fu severo con i falsificatori dei pesi e delle misure, contro i quali comminò pene assai dure.

Tuttavia al saggio Faraone la fortuna non arrise, e secondo la leggenda un agnello dalle fattezze mostruose profetizzò che ben presto l’Egitto avrebbe conosciuto una triste sciagura. In effetti il periodo del suo regno fu molto difficile dal punto di vista politico, soprattutto a causa degli aggressivi Assiri capeggiati dal re Sargon II. Bakenrenef strinse un’alleanza con i principi palestinesi, che incitò alla rivolta per poter affrontare e sconfiggere gli Assiri, ma il suo intento ebbe vita breve.

Infatti, l’esercito della coalizione palestinese-egiziana fu sconfitto dagli Assiri a Qarqar. A questo rovescio se ne aggiunse un altro ancora più grave. Shabaka (Sabacon) figlio di Kasta, re di Etiopia, voleva riunificare l’Egitto e assoggettarlo a sé, tanto che organizzò una spedizione militare per attaccare Bakenrenef, marciando con le sue truppe da Tebe verso nord.

Nel corso della battaglia che ne seguì lo sfortunato Bakenrenef fu catturato da Shabaca e da questi fatto bruciare vivo. Di Bocchoris parlarono anche autori greci e latini, come il filosofo e biografo greco Plutarco (46 a.C. 125 d.C circa), lo storico siceliota Diodoro Siculo (90 a.C.-27 a.C. circa) e il Vescovo Eusebio di Cesarea, teologo e biografo dell’imperatore Costantino I (265-340 circa d.C.).

I primi due autori lo ricordarono come un saggio e lungimirante legislatore, Eusebio affermò invece che avrebbe addirittura regnato per più di quattro decenni, ma questa notizia sembra essere del tutto priva di fondamento. Il nome di Bakenrenef compare su un altro manufatto tarquiniese, una situla in faience, cioè un vaso tronco-conico stretto nella parte inferiore, con o senza ansa (manico), in genere usato come utensile in ambito sacro già dagli Egizi e dai Cretesi. Lo stesso nome compare anche su oggetti trovati in altri contesti fuori d’Etruria.

Si tratta di una situla da Mozia, un’antica città fenicia situata sull’isola di S. Pantaleo (Marsala) nella Sicilia occidentale, e uno scarabeo da Pithecusa rinvenuto nella tomba 325, conservato nel Museo Archeologico di Pithecusa (Villa Arbusto presso Lacco Ameno).

In questo Museo sono conservati altri piccoli oggetti importati dall’Oriente e riferibili all’VIII secolo a.C., statuine, scarabei e i c.d. “Sigilli del suonatore di lira”, di importazione dalla Siria settentrionale, così chiamati perché sulla base piatta è incisa la figura di un suonatore. Tali manufatti esotici sono realizzati in serpentina rossa o verde, e presentano un repertorio decorativo formato soprattutto da figure maschili stilizzate, e colte in vari atteggiamenti. Non mancano, però, anche raffigurazioni zoomorfe quali felini (leoni), cervidi, uccelli ed pesci, vegetali come alberi, o figure simboliche.

Secondo un uso testimoniato sia a Pithecusa sia in Etruria, a tali oggetti provenienti dall’Oriente, culla di millenarie civiltà, era attribuito un valore apotropaico cioè propiziatore della buona fortuna, nonché quello di protezione contro gli influssi negativi e dalle malattie, perciò pendagli e collane venivano indossati come amuleti, sia da adulti che da bambini.

A Tarquinia sono stati rinvenuti altri oggetti di manifattura e di importazione orientale. Nel 1991 all’interno di una tomba in località Pian di Spille, ora compresa nell’area residenziale di “Marina Velka”, fu rinvenuta una tomba a pseudo-camera all’interno della quale fu trovato un aryballos globulare in faience, prodotto nel porto di Naucratis in Egitto, con raffigurazioni di scene nilotiche e un cartiglio che contiene in caratteri geroglifici il nome del Faraone Amasis (569-525).

La presenza di questi oggetti orientali in corredi di tombe etrusche si spiega con le fruttuose attività commerciali che gli Etruschi praticavano nel Mediterraneo, e soprattutto con gli stretti contatti che ebbero con i Fenici, che dal VII secolo a.C. divennero dei veri e propri mediatori commerciali tra Oriente e Occidente. Significativo è il fatto che la necropoli di Pian di Spille sorge nell’area prossima all’antico porto di Maltanum alla foce del fiume Marta, che era in stretto collegamento con la città di Tarquinia.

Il nome di questo porto è testimoniato nell’Itinerarium Maritimum Antonini Augusti, un antico portolano recante le indicazioni delle rotte mediterranee, dei porti e delle distanze tra loro espresse. Il mare più che elemento naturale di divisione, è stato fin dall’Antichità un crocevia di popoli e culture, di tradizioni diverse che si sono incontrate, amalgamate e fuse, un luogo di scambi e di contatti proficui, un’occasione per conoscere “gli altri” e la loro cultura.

Micaela Merlino