Viterbo STORIA
Micaela Merlino

Fu nella rivoluzionaria città di Parigi, dove soggiornò dal Gennaio 1796 al 1799 insieme al segretario della legazione toscana Francesco Raimondo Favi, che lo storico Giuseppe Micali comprese la necessità di studiare le civiltà preromane, per offrire un concreto contributo allo sviluppo culturale e politico di un’Italia ancora tutta da fare.

Il Micali era nato a Livorno nel 1768 da Giovan Carlo, gestore di un’attività commerciale di antiquariato, nella quale cominciò anche lui a lavorare nel 1787, compiendo frequenti viaggi in Italia e all’estero.

Appassionato di storia e di archeologia, nel 1794 aveva visitato le rovine di Paestum e durante i suoi viaggi d’affari aveva conosciuto, tra gli altri, anche Carlo Denina a Berlino. L’idea avuta a Parigi trovò una più compiuta elaborazione quando tornò in Italia, tanto che si determinò a scrivere un’opera dedicata alle antiche civiltà italiche, sulla scia della riscoperta delle culture preromane inaugurata qualche decennio prima da alcuni studiosi, tra cui l’inglese Thomas Dempster con il volume “De Etruria regali libri septem” (1723-1726) e l’archeologo e letterato volterrano Mario Guarnacci, con l’opera in tre volumi “Origini italiche” (1767-1772).

Questo filone storiografico rivolse un’ un’attenzione speciale alla civiltà etrusca, considerata dal Guarnacci addirittura come la stirpe dalla quale ebbero origine tutti gli altri popoli italici, e nello stesso tempo formulò una severa critica nei confronti della civiltà romana, imperialista e prevaricatrice, che in nome un discutibile primato di civiltà, aveva soggiogato con le armi i popoli italici, cancellandone l’identità socio-politica e culturale. Stabilitosi a Firenze, città culturalmente assai vivace, Giuseppe Micali  cominciò a scrivere la sua opera storica, che vide la luce nel 1810 con il titolo “L’Italia avanti il dominio dei Romani”, in quattro volumi, insieme ad un “Atlante degli Antichi monumenti per servire all’opera intitolata L’italia avanti il dominio dei Romani”, coniugando in modo assai felice storia e archeologia.

L’Atlante si componeva di una carta geografica e di 60 tavole nelle quali erano illustrati per la maggior parte monumenti antichi già conosciuti, ma anche circa 20 monumenti mai prima editi. Nella prefazione egli chiarì le motivazioni che lo avevano spinto a scrivere un’opera dedicata alle civiltà italiche preromane. Per prima cosa desiderava sgombrare il campo dalle inverosimili leggende inventate e tramandate dagli eruditi, che celavano la vera storia dell’Italia antica: “Da gran tempo il nome e la gloria dell’Italia antica, fatta proprietà dell’erudizione, avean d’uopo di risorgere alla dignità della storia”. Poi voleva “Investigare i principj della civiltà Italica: mostrar la serie delle rivoluzioni che stabilirono lo stato politico della nazione innanzi Roma: riferire i  grandi avvenimenti che si succedettero fra’ popoli Italici per la loro difesa: addur le cause che introdussero nuovi costumi, e spensero poscia ogni traccia di libertà al secol d’Augusto”.

Non mancava anche un intento pedagogico, perché sperava che dalla lettura “gl’Italiani in specie vi apprenderanno a seguire generosi esempi; e come emulare alla gloria de’ maggiori, e condurre a più nobil fine la nazionale virtù”. In polemica con quella storiografia che esaltava lo strapotere dell’impero di Roma antica, il Micali sosteneva che già le civiltà italiche preromane, in modo autonomo, avevano dato un importante contributo alla civilizzazione della penisola italiana, e questa pagina di storia mancante doveva essere scritta e divulgata. Inoltre per lui i dati archeologici rivestivano un’importanza particolare perché, essendo testimonianze dirette, se correttamente interpretati erano in grado di contribuire alla ricostruzione della verità storica. Scrisse diffusamente di tutte le popolazioni italiche, Siculi, Umbri, Liguri, Equi, Ernici, Volsci, Sanniti ed altre, ma tra tutte considerò gli Etruschi come il popolo che aveva raggiunto il più altro grado di civiltà.

Sosteneva che le popolazioni “aborigene” erano autoctone, compresi gli Etruschi, rigettando l’ipotesi della loro origine orientale, che molti studiosi basavano su un passo dello storico greco Erodoto. Per avallare la loro autoctonia nel capitolo X scrisse: “…qualora quelle genti fossero venute per mare dalla Lidia, o da altre lontane regioni, si sarebbono stabilite su le coste come fecero i Greci nel Mezzodì dell’Italia; laddove le città principali d’Etruria furono tutte mediterranee, e a bello studio situate in luoghi eminenti, qualor se ne accettui Populonia, la sola tra le antiche prossima al lido: riprova non equivoca forse, che dovettero in principio esser fondate dai naturali del paese”. Passando a parlare dell’ “Etruria di mezzo”, ricordò le importanti città di Vetulonia, Chiusi, Volsini, Caere, Tarquinia e Veio.

Riguardo a Tarquinia scrisse che “i sontuosi ipogei potrebbero in difetto della storia accertar che que’ luoghi furono una volta la sede di popoli doviziosi e possenti”, e nella tavola 51 dell’Atlante pubblicò alcune illustrazioni dei sepolcri tarquiniesi.  Inoltre annotò che “Gli avanzi di Tarquinia veggonsi su d’un alta e bislunga collina circa due miglia distante da Corneto, e quattro dal mare, nel luogo chiamato oggi La Turchina”, e citò pure Sutri e Nepi come città appartenenti alla Confederazione Etrusca. Con ammirazione scrisse che gli Etruschi, una volta colonizzata gran parte della Pianura Padana “Stabilito così il diritto della forza, faceva d’uopo legittimarlo mediante un dolce e moderato dominio”, a differenza di quanto fece poi Roma. La conquista etrusca “Lungi dall’esser fatale, verificò uno di que’ rari casi in cui quell’ infausto diritto può recare qualche vantaggio al popolo vinto, ponendolo sotto gli auspicj d’una nazione più incivilita”.

Fondate colonie anche in parte della Campania, gli Etruschi desistettero da ogni altra mira imperialista e proprio in ciò fu la loro grandezza: “…rivolti gli animi a moderare con gli ordini civili l’impero delle armi, il poter nazionale fu solamente impiegato per la difesa, l’estensione del commercio, e l’avanzamento della civiltà, cui dovette l’Etruria l’inestimabil vantaggio di non cangiar mai né nome, né governo, né leggi, per tutto il corso della sua politica esistenza.  Il nome dei Toscani potè allora empier meritamente della sua gloria tutto il paese dalle Alpi fino allo stretto Siciliano”.

Secondo Giuseppe Micali, dunque, il dominio etrusco riuscì ad unificare una penisola italiana tanto frammentaria dal punto di vista delle stirpi e delle culture: “…il prospero dominio di sì avveduta nazione effettuò per la più gran parte d’Italia quell’unione tanto desiderata, che già le presagiva l’imperio del mondo, se al Lazio più che all’Etruria non fosse stata riservata sorte sì grande”.

Al contempo, gli Etruschi introdussero un vero e proprio progresso nella vita civile: “…la conquista degli Etruschi produsse il più importante effetto di avvicinare molti popoli allor segregati, e di accelerare con l’introduzione di nuove arti, e la superiorità dell’ingegno, il progressivo aggrandimento della nazione. Questa gran rivoluzione politica e morale cangiò del tutto l’aspetto del paese, per condurlo a uno stato più certo di civiltà”. Soprattutto gli Etruschi portarono un notevole contributo all’incivilimento rendendo “migliore il clima asciugando le paludi”, introducendo “nuovi costumi e nuove arti”, tanto che poi “dal semplice stato di villesca rozzezza c’inalzò rapidamente a quello d’un’avventurata società civile”. Nello stesso anno della sua pubblicazione, per volontà di Napoleone Bonaparte l’opera del Micali  fu premiata dall’Accademia della Crusca come migliore libro in prosa.

Ma non mancarono giudizi severi, come quello di Francesco Inghirami, che considerò questo scritto quasi un disonore per l’Italia. Tuttavia nel 1821 uscì la seconda edizione dell’opera, e nel 1832 Giuseppe Micali pubblicò un altro suo studio “La Storia degli antichi popoli italiani” in due volumi, insieme ad un nuovo Atlante dal titolo “Monumenti per servire alla storia degli antichi popoli italiani raccolti, esposti e pubblicati”, che raccoglieva molti nuovi dati venuti alla luce grazie agli scavi archeologici  intrapresi negli anni precedenti. Circa 600 monumenti e una Carta dell’Italia antica realizzata dal d’Anville impreziosivano l’Atlante. In quest’opera la civiltà etrusca assunse un ruolo ancor più rilevante, perché era considerata il vero fondamento della civilizzazione dell’Italia, prima dei Romani.

Cosciente che con il passar del tempo la sua opera necessitava di un aggiornamento, anche per il fatto che si basava sui dati archeologici, e di nuovi ne venivano sempre alla luce, il Micali verso gli anni ’40 maturò il progetto di riscriverla corredandola di un nuovo Atlante. Ma la morte, che sopravvenne nel 1844, vanificò questo suo desiderio rendendolo irrealizzabile.

Nonostante ciò ormai egli s’era meritato un posto d’onore nel panorama degli storici del suo tempo. Addirittura il teologo francese Hugues F.R. de Lamennais lo annoverò nella triade degli Italiani illustri, insieme ad Alessandro Manzoni e Silvio Pellico.

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