Viterbo STORIA
Alessandro Finzi

Ricevo e pubblico volentieri questa interessante ricerca di uno dei più noti studiosi della storia di santa Rosa in Italia e nel mondo: Alessandro Finzi

Cari lettori che seguite queste storie relative al culto di Santa Rosa nel mondo che da tempo stiamo narrando, date per favore un’occhiata a questa immagine.

 

Si tratta di un busto monco di legno policromo che è stato venduto nel settembre del 2015 ad un’asta dell’Agenzia Potomack (si dovrebbe scrivere senza la K) nella città americana di Alexandria, in Virginia, non sappiamo per quale prezzo. La presentazione era: “Lotto 407: Bulto policromo coloniale spagnolo, probabilmente santa Rosa da Viterbo (santa Rosa de Viterbo). Messico, 19° secolo, con occhi di vetro, montato su una base di legno e coperto da un vetro a forma di cupola; altezza nove pollici (cm 22,86) compresa la copertura in vetro”.

Santa Rosa da Viterbo! Sorpresi? Suppongo di sì; sono rimasto sorpreso anch’io. Ma può trattarsi veramente di santa Rosa? Direi che è praticamente certo e si cercherà di dimostrare perché.

La teca in vetro qui non si vede perché è stata tolta per consentire la foto. Si suppone che poggiasse sul bordo più esterno della base in legno e la protezione indica che si tratta di un oggetto prezioso da conservarsi con cura, criterio che ben si addice ad un oggetto di culto. Ce lo conferma la parola “bulto” che abbiamo riportato in corsivo. Si tratta di un termine tecnico spagnolo, non facilmente ritrovabile sui dizionari, che significa: “immagine di un santo intagliato in legno policromato prodotto negli stati sudoccidentali degli USA e in America latina nel 18° e 19° secolo”.

Leggiamo poi il riferimento al Messico e comprendiamo che l’attribuzione è quella originale perché, oltre alla dizione inglese (Rosa of Viterbo), è riportata quella spagnola (Rosa de Viterbo). Da quando, nel 2006 pubblicai, per le Clarisse, il libro: “Santa Rosa in Messico. Storia delle “rositas” dal 1670 al 1987” (libro ancora acquisibile presso il convento perché stampato per favorire il sostentamento delle suore) e ne detti notizia su questo giornale, si è andata un po’ diffondendo la conoscenza dell’importanza del culto della nostra Santa in quel lontano Paese, prima limitato quasi esclusivamente all’interesse turistico del meraviglioso Tempio barocco. Nello stesso tempo si è preso atto che sono stati gli ordini francescani, e soprattutto i frati minori e i terziari, a evangelizzare le popolazioni autoctone nel nome di Santa Rosa.

La parte sudoccidentale degli Stati Uniti, nominata nel documento, è stata evangelizzata appunto dai francescani spagnoli e ricordiamo la California, che confina con il Messico attuale, con la città di San Francisco, ma specialmente le città intitolate a famosi frati minori come San Buenaventura, San Bernardino e San Diego. Il contesto geografico indicato dalla parola bulto è dunque totalmente coerente con la possibilità che una statua proveniente dal Messico, rappresentasse santa Rosa, come appunto indicato nella presentazione.

Una curiosità: in California si trova anche la città di santa Barbara, santa vissuta nella prima o nella seconda metà del terzo secolo. Controllando a quali santi venissero attribuiti i nomi delle città, ho trovato questo imprevisto riferimento a santa Barbara, la cui storia tuttavia è inestricabilmente intrisa di leggenda: “Nelle traduzioni latine, la questione si complica maggiormente, perché per alcune di esse è riportato: In Tuscia natale sanctae Barbarae virginis et martyris sub Maximiano imperatore” e il commento è: “ Ci si trova, quindi, di fronte al caso di una martire il cui culto fino all’antichità fu assai diffuso, tanto in Oriente quanto in Occidente”. Tuscia, in quel tempo, era equivalente di Etruria.

 

Chiusa la digressione, torniamo alla raffigurazione che viene indicata come lignea. Il peso avrebbe dovuto confermarlo, tuttavia guardando un pezzetto sottile che sporge dal troncone del braccio destro e la forma di uno specie di strappo visibile sul torace nella visione frontale, così come analogo strappo sulla spalla e sul braccio destro e il buco nella testa nella visione di profilo, viene da pensare ad una figura di cartapesta piuttosto che di legno.

Questo sarebbe un caso abbastanza insolito perché le sculture che raffigurano santa Rosa nella penisola iberica, e nell’America latina che ne ha assorbito la cultura, sono di legno, con l’esclusione del grande monumento in pietra del giardino di Cadice. Senza prendere visone dell’opera il dilemma non può essere risolto e restano gli indizi sopra menzionati.

Guardando poi l’estremità inferiore del busto, sembra chiaro che la figura sia stata tagliata, cosa che ovviamente ha obbligato a tagliare anche le braccia (ritorniamo al lembo libero sul troncone del braccio destro) per poter disporre l’immagine sul supporto di legno. Riteniamo dunque che la figura, in origine, fosse intera come tutte quelle che conosciamo.

Notiamo adesso che, mentre il tronco è appena abbozzato, solo il volto è dettagliato e impreziosito tecnicamente dagli occhi in vetro. Questo è tipico delle statue della cultura ispanica che molto spesso sono destinate ad essere vestite per cui, a parte la testa e le mani, di solito il resto della statua viene lasciato grezzo. Così pure è dipinto un accenno alla capigliatura. La cosa potrebbe essere coerente perché sappiamo che santa Rosa si era fatta rasare i capelli, ma qui la capigliatura è appena accennata perché la testa era destinata a essere coperta dal tradizionale velo. Questo spiega perché solo il volto è intagliato e dipinto con cura e non tutta la testa come nelle statue in cui questa è completamente visibile.

Per questa ragione non si vede alcun sangue colare sul lato del collo (e nella visione dorsale qui non riportata) come invece avviene sulla fronte dove è evidente il riferimento ad una corona di spine. Questa è una assoluta novità iconografica. Dobbiamo dunque dedurre che la testa fosse cinta da una corona di spine, come quella di Cristo, ma ci piace immaginare che comunque fosse di rose.

Le cronache narrano che Rosa ebbe un periodo di sofferta drammatica identificazione con le pene del Cristo crocifisso e si rinchiuse in volontaria vita contemplativa, di penitenza e di sofferenza fisica prima di avviarsi al periodo della predicazione. A questo momento di compenetrazione con le pene del crocifisso allude il sangue che sgorga sulla fronte mentre dagli occhi scendono lacrime di sofferenza. Quelle lacrime che lascino una traccia terrosa sono forse più drammatiche dei rivoli di sangue. Difficile definirle; preferisco prendere a prestito una espressione usata da un grande narratore dell’America latina: “Lacrime enormi, come vetri rotti, le scorrevano sul volto” (Néstor Taboada Terán, scrittore boliviano).

Certamente i particolari descritti si addicono a Rosa più che ad altre sante. Non dimentichiamo che, non solo in Spagna e Portogallo, ma in gran parte dell’America latina e certamente in Messico erano diffuse dettagliate biografie di santa Rosa, come abbiamo più volte illustrato anche su questo giornale, e pittori e scultori ne facevano analitico uso nella creazione delle loro opere.

D’altra parte possiamo ricordare che, ancora nel 1985, solo 32 anni fa, una libro intitolato: “Santa Rosa da Viterbo, patrona delle fioriste e dei floricoltori” veniva pubblicata contemporaneamente (!!!) in Argentina (Buenos Aires), in Perù (Lima) e in Spagna (Cáceres) e dunque, come abbiamo raccontato su questo giornale, non sembrerà strano che lo scrittore José Saramago racconti di aver ammirato una statua di santa Rosa nella cappella dei Terziari della chiesa di san Francesco di Estremoz in Portogallo e addirittura Jorge Luis Borges abbia costruito intorno alla figura di santa Rosa il celebre racconto l’Aleph (per chi voglia aggiornarsi o verificare, Mauro Galeotti ha messo tutti gli articoli in una pagina di questo quotidiano che si trova cliccando santarosaalessandrofinzi, tutto attaccato, facendo attenzione alla due A consecutive). Aspettiamo che per l’Italia qualcuno possa illustrare altrettanto ancora attuale interesse.

E veniamo all’iconografia che è l’aspetto più interessante di quel volto con gli occhi vitrei di pianto e lo sguardo disperatamente perduto nel vuoto. Certamente nessuno, riconoscerebbe a prima vista santa Rosa. Ma intanto vediamo una testa tondeggiante tipicamente ancora infantile, come pure sono infantili il nasino e la conformazione della piccola bocca.

Queste sono caratteristiche specifiche dell’iconografia rosiana ben note al mondo religioso ispanico che, sia anticamente che in epoca recente, continua a chiamarla la “Santa niña”, la “Santa bambina”. Non conosciamo alcuna altra santa a cui venga riferito tale attributo, nel caso specifico giustificato dal fatto che, ancora bambina, Rosa compì il miracolo di resuscitare la zia.

In conclusione, l’origine in Messico, l’appartenenza alla cultura ispanica dell’originale iscrizione che la presenta appunto come santa Rosa da Viterbo, i tratti infantili che appartengono alla tradizione ispanoamericana della raffigurazione di Santa Rosa, il riferimento alle sofferenze del Cristo che tanto avevano commosso la giovane Rosa e destato in lei la vocazione rimasta frustrata, ma comunque esercitata in forma laica, tanto da essere considerata la patrona dei terziari francescani nelle cui chiese è spesso raffigurata, non lasciano molto spazio al dubbio. L’immagine rappresenta veramente una insolita raffigurazione di santa Rosa e ne arricchisce il già vario campo iconografico con cui viene presentata ai fedeli.

A questo punto, per puro gioco di induzione, potremmo chiederci come erano atteggiate le braccia che sono state amputate. Visto che entrambe le braccia sono orientate verso il basso, certamente il gesto non è quello della santa predicatrice col braccio destro levato in gesto oratorio così comune nell’iconografia iberica e latinoamericana. D’altra parte il gesto non si addice alla raffigurazione della santa penitente. Siamo certi invece che la mano destra impugnasse la disciplina composta da un manico di legno che tratteneva numerose cordicelle con nodi, idonea per l’autoflagellazione.

Questa raffigurazione è poco nota, ma non insolita, e ne abbiamo diverse testimonianze. Comunque basta salire alla chiesa del Monastero ad ammirare la non alta statua in marmo bianco, opera di Francesco Messina che la donò alle suore nel 1939.

La statua si trova nella chiesa a lato della cappella in cui è esposto il corpo della Santa. Nella sua candida semplicità non attira molto lo sguardo, ma se si osserva con attenzione si vedrà il flagello tenuto nella mano destra mentre nella sinistra regge una piccola croce, oggetti che hanno più che altro un significato simbolico e non di strumenti di sofferenza. Anche qui vedrete un dolcissimo volto infantile che, come nell’immagine di cui parliamo, contrasta cronologicamente con il periodo della vita di reclusione penitenziale avvenuto negli ultimi anni. Per la cronaca ne esiste una copia in bronzo nei musei vaticani.

Nell’immagine che segue si vede santa Rosa che regge nella mano destra il manico della disciplina, e il luogo in cui si trova ci ricorda il contesto religioso di cui abbiamo parlato.

 

Busto di santa Rosa sulla facciata della Chiesa dei terziari francescani a Siviglia

L’immagine che, come esperto di iconografia rosiana toccava a me commentare, mi è stata segnalata da Stefano Aviani Barbacci, ormai tradizionale collaboratore e massimo conoscitore della diffusione del culto di santa Rosa in Argentina, campo di ricerca poi estesa allo studio dei fattori che ne hanno favorito la diffusione nell’area andina. L’ha, infatti, trovata esplorando questo interessante aspetto che illustrerà, nel prossimo maggio, al trentanovesimo Congresso internazionale di americanistica a Perugia. Chi ne vuole sapere di più, può partecipare rivolgendosi a Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

Alessandro Finzi

Centro Studi Santa Rosa da Viterbo

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