Viterbo STORIA
Vincenzo Ceniti
Articolo pubblicato sulla rivista "La Loggetta"

 

La Madonna dei gigli di Pietro Vanni, in Prefettura

Il suo primo dipinto nel 1872, a 27 anni (Sacra Famiglia), lo dedicò ai genitori con un motto eloquente “Dall’amore, l’arte”.

Cioè a dire dal grande amore per la compagna di giovinezza Emilia Moretti morta prematuramente, ad una nuova vita artistica di pace interiore e di gratificazione. Il padre Giuseppe contrastò fin dall’inizio la sua “follia pittorica”, ritenuta un perditempo senza prospettive concrete. Avrebbe preferito fare di lui un uomo di tessuti e di telai nell’azienda di famiglia. Ma dovette arrendersi di fronte alla tenacia del figlio che, dopo la morte della sua donna, s’era rifugiato nell’unico ristoro possibile della sua vita , quello dell’arte.

Pietro Vanni, viterbese con sangue toscano (suo padre era di Siena) visse a cavallo dell’Otto-Novecento (1845-1905). La prima gioventù, con Emilia (chiamata amorevolmente Mimma), la trascorse in una Viterbo sonnacchiosa piuttosto estranea, come del resto la vicina Roma, ai fervori di rinnovamento artistico e culturale che fremevano in Europa.

Quando fu inviato dal padre a Parigi per visionare alcuni campionari di macchine tessili, avrà avuto modo di frequentare ambienti ed artisti di varie scuole Pur stimolato da mille idee e soluzioni tecniche, restò fedele alla sua educazione accademica che aveva ricevuto dal suo primo maestro Cesare Maccari, autore, peraltro, degli affreschi al Senato. Erano tempi in cui dominava in Italia l’adesione pittorica ai grandi temi della storia e agli eroi del Risorgimento.

Vanni assorbe come una spugna mode e tendenze, ma resterà un impenitente “conservatore”, istintivo autodidatta ed anche individualista. Peraltro – non avendo mai avuto bisogno di soldi – non cercava il consenso del pubblico riguardo alle sue opere. Semmai lo cercava negli amici (si racconta che fosse molto generoso nei confronti dei bisognosi) e soprattutto nel cognato Giuseppe Calabresi dopo il matrimonio nel 1887 con Angela Bevilacqua vedova Calabresi da cui ebbe un figlio, Renato. Si disse che gli mancava uno stile immediatamente riconoscibile se non per quella ricorrente patina di dolce mestizia che avvolge molti dei suoi capolavori come la “Peste di Siena” (1883) e i “Funerali di Raffaello” (1899). Ma anche negli affreschi (1880-1885) commissionatigli dal Comune nella chiesa cimiteriale di San Lazzaro a Viterbo purtroppo sempre più sbiaditi. Questo perché non curava molto la formazione dei colori e le tecniche di fissaggio

“Vanni – dice alla Loggetta l’artista e storico Marco Zappa - vive un periodo culturale molto contrastato non solo dalle poetiche interne proprie dell’Ottocento, ma dal conflitto che a partire dalla rivoluzione impressionista dividerà la ricerca artistica in accademismo ed avanguardia: questo processo si completerà all’inizio del XX secolo con la nascita di innumerevoli movimenti artistici e con un cambiamento radicale di concetto d’arte. Vanni che si è formato presso il pittore accademico Cesare Maccari e frequenta un ambiente ‘statico’ come poteva essere al tempo la città di Roma (e ancor più la natìa Viterbo) non ha l’impulso di abbandonare la sua formazione, di fatto avventurarsi su un percorso eretico come stanno facendo alcuni suoi contemporanei italiani ma soprattutto parigini e rimane invischiato in tematiche ormai superate e in una tecnica pittorica tradizionale”.

Si disse che era convenzionale nell’uso della luce. Può darsi, ma la lamina lucente che guizza nella prigione sotterranea del Battista nella “Decollazione” (1881) a squarciare il buio tetro è vibrante, come lo sono nello scenario brunito dei “Funerali” i volti dei paggi infiammati dai ceri che stringono in mano.

“I ‘Funerali’ – aggiunge Zappa – è un’opera sintomatica dell’attività artistica di Pietro Vanni: una tela gigantesca, come si usava allora per rappresentare quadri storici che dipinge per l’Esposizione Universale di Parigi del 1900. Nell’intento di Vanni questo quadro rappresenta la sua massima creazione e vi investe tempo, accurati studi storici ed energie di ogni tipo ma i ‘Funerali’ non andranno mai a Parigi ufficialmente perché opera troppo grande e quindi ingombrante per gli spazi assegnati all’Italia.

Questa motivazione che pur rientra in una logica di allestimento, va letta a mio avviso in un contesto più ampio e cioè: presentare un tema storico caro alla logica ottocentesca, a Parigi, capitale in quegli anni dell‘avanguardia artistica e dipinto oltretutto in modo accademico quando in Italia era ormai era stato ‘digerito’ il linguaggio dei Macchiaioli ed imperversava da anni il Divisionismo con le nuove esperienze cromatiche, era evidentemente una operazione fuori dal tempo e dalla logica. Vanni prese malissimo l’esclusione e si consolò ricercando nuova creatività nell’incisione dove ottenne ottimi risultati”

Dopo la morte del padre (1875) trasformò il palazzo cinquecentesco di famiglia a via Valle Piatta a Viterbo in uno studio - dotato anche di un forno per la cottura delle ceramiche e di un tornio per la stampa - che frequentava d’estate, insieme alla villa del Merlano presso l’attuale ospedale viterbese di Belcolle, lasciando per alcuni mesi il suo atelier romano di via Margutta.

Al Merlano si contornava di animali (perfino un serpente) a dimostrazione di un carattere estroverso e sensibile. Tra i suoi allievi c’erano Corinna e Olga Modigliani, cugine di Amedeo Modigliani. Pietro Vanni, oltre alla pittura coltivò l’arte della ceramica, del ferro battuto e nell’ultima stagione della sua vita delle acqueforti dove fece tesoro di passate esperienze e di una più solida maturità artistica. Ecco allora affiorare nelle sue incisioni i paesaggi intorno alla villa del Merlano: tronchi irregolari, radici ritorte, filari di pini e di vigneti.

Da ricordare la trasformazione (1899) della facciata del palazzo Calabresi su via Roma a Viterbo imbruttita da una logora tettoia addossata ad una vecchia torre. La ingentilisce con una loggia neo-trecentesca ed una finestra rimossa da una vecchia casa di via Saffi. Nella pittura di genere si fa notare con una sensuale “Odalisca” premiata all’esposizione di Belle Arti di Rovigo (1877).

Non eccelle nella ritrattistica dove si cimenta, tra l’altro, con un autoritratto e il ritratto della moglie Angela Calabresi (1884-1885). Di lugubre effetto la “Deposizione” (1876, oggi nel Museo del Colle del Duomo di Viterbo). Di grande valore documentario la copia dello “Sposalizio della Vergine” di Lorenzo da Viterbo dipinto nel 1885. Tra i lavori più riusciti c’è la “Madonna dei gigli”, peraltro di datazione incerta.

Pietro Vanni morirà di polmonite a Roma, a sessant’anni il 30 gennaio 1905. L’anno successivo il Comune di Viterbo fece realizzare nella chiesa di San Lazzaro al cimitero un’edicola funebre dedicata al Maestro, riproduzione di quella cinquecentesca nella chiesa di Santa Maria del Popolo a Roma dove si svolsero i suoi funerali.

Chiudiamo con l’auspicio che a Viterbo si possano trovare le soluzioni per una retrospettiva su Vanni che comprenda anche e soprattutto i “Funerali” attualmente nei magazzini del Vaticano.

Vincenzo Ceniti

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