Villa san Giovanni in Tuscia STORIA
Micaela Merlino

Tutto cominciò con un manoscritto che non fu pubblicato, e che vide la luce quasi cento anni dopo essere stato realizzato.

Thomas Dempster era nato nel 1579 a Cliftborg nell'Aberdeenshire, in Scozia, da una famiglia aristocratica, ma a causa di vicissitudini politiche e religiose lasciò la sua patria, e andò ad insegnare materie umanistiche dapprima in Francia a Parigi, poi in Italia a Pisa, Bologna e Roma.

Di temperamento irrequieto, più di una volta a causa di contrasti fu costretto a lasciare le città nelle quali insegnava, e a trasferirsi altrove. Infine fu accolto alla corte di Cosimo II Granduca di Toscana (1590-1621), uomo assai colto, che negli anni della giovinezza aveva avuto come precettore Galileo Galilei, al quale lo legava una profonda amicizia, e come insegnanti di lettere Celso Cittadini e Pietro di Giovanni Francesco Rucellai.

Fu proprio il Granduca a chiedere al Dempster di scrivere un'opera sugli Etruschi, e costui subito si mise al lavoro, componendola in tre anni, dal 1616 al 1619.

Quando ebbe terminato consegnò a Cosimo II un lungo manoscritto in latino, lingua ufficiale usata negli ambienti colti, dal titolo De Etruria regali libri septem, il primo approfondito studio sulla civiltà etrusca. Ma Cosimo II, già ammalato di tubercolosi, inaspettatamente non diede il nulla osta per la pubblicazione, cosicchè tanto zelo non fu premiato.

Il Granduca morì prematuramente nel 1621, e il manoscritto giacque dimenticato. Circa cento anni dopo fu pubblicato a Firenze da Thomas William Coke, dal 1723 al 1726 in tre anni, tanti quanti il Dempster aveva impiegato per scriverlo.

L'edizione fu un gran successo, e quel lavoro che aveva atteso così tanto tempo prima di vedere la luce, repentinamente suscitò un vivo interesse in merito agli Etruschi. E' singolare che un altro personaggio, studioso di etruscologia, in stretta relazione con i Medici di Firenze, tradusse in italiano e pubblicò nel 1724 il De Etruria regali.

Si tratta di Filippo Buonarroti (1661-1733), antiquario, numismatico e collezionista, lontano parente del più famoso Michelangelo Buonarroti. Infatti Filippo ricoprì la carica di funzionario presso la corte di Cosimo III de' Medici (1642-1723), penultimo Granduca di Toscana, che regnò dal 1670 fino alla sua morte. Il Buonarroti non solo tradusse l'opera, ma la aggiornò, l'ampliò, vi aggiunse un commento, e a corredo del testo inserì anche alcune incisioni.

La divulgazione del De Etruria regali stimolò la nascita di quel fervido movimento culturale settecentesco, che va sotto il nome di Etruscheria: una vera e propria mania di conoscenza della civiltà etrusca in tutte le sue manifestazioni, arte, architettura, lingua, religione, con un approccio di studio non strettamente scientifico ma antiquario, e con un profondo, concomitante interesse per la ricerca e il collezionismo di oggetti antichi.

Studiosi come Anton Francesco Gori (1691-1757), Giovanni Maria Lampredi (1731-1793), Giovanni Lami (1697-1770), Giovan Battista Passeri (1694-1780) ne furono i più insigni esponenti, e nel 1726 fu fondata la prestigiosa Accademia Etrusca di Cortona.

Nonostante l'assenza di un metodo scientifico con cui studiare l'Antichità, e le polemiche talvolta sterili che la animarono, l'Etruscheria ebbe diversi meriti, tra cui l'essere riuscita ad ampliare la conoscenza della storia dell'Italia antica, dei popoli pre-romani e segnatamente degli Etruschi, e di aver sollecitato la formazione di cospicue ed eterogenee collezioni di oggetti antichi, che poi andarono a  formare importanti poli museali quali, ad es., il Museo Etrusco Guarnacci di Volterra, nato dalla collezione di Mons. Mario Guarnacci.

Anche se la storia va criticamente studiata e meditata per ciò che è, dato che non è possibile cambiarla, ci si può chiedere, però, cosa sarebbe accaduto se Cosimo II, mostrandosi entusiasta del manoscritto del Dempster, avesse dato il permesso di pubblicarlo: l'opera avrebbe avuto lo stesso successo di quello che ebbe nel XVIII secolo, oppure sarebbe passata inosservata?

In epoca umanistica vi era già stato un certo interesse per gli Etruschi, ma probabilmente gli intellettuali del XVIII secolo erano più favorevolmente disposti a ricevere sollecitazioni inerenti lo studio della civiltà etrusca, e a metterle a frutto, anche perché in quel secolo erano iniziati gli scavi archeologici (in realtà sterri) non solo in Tuscia, ma anche in Campania (Ercolano e Pompei). Dunque gli studiosi avevano a disposizione nuovi monumenti e suppellettili da analizzare e interpretare.

Nella seconda metà del XVIII secolo ci fu un altro manoscritto, anch'esso redatto da uno scozzese, che ebbe un destino simile a quello del Dempster. James Byres, architetto, antiquario e mercante d'arte, era nato nel 1733 nell'Aberdeenshire, ma nel 1758 si stabilì a Roma, prendendo alloggio in una casa in via Paolina. Riforniva i gentiluomini scozzesi e inglesi di oggetti antichi, sculture, dipinti, e spesso esportava opere d'arte clandestinamente, senza il permesso del Cardinale Camerlengo.

Quando lo fece con alcuni dipinti del pittore francese Nicolas Poussin (1594-1665) scoppiò uno scandalo, ma nonostante ciò non interruppe la sua lucrosa attività. Nel 1766 Byres si recò in visita alle tombe etrusche di Tarquinia, che già allora erano in parte venute alla luce, e in seguito a questo suo sopralluogo cominciò a scrivere un'opera, dedicata ai sepolcri etruschi ed alle loro decorazioni pittoriche, che avrebbe voluto pubblicare nel 1792.

Ma i tempi non erano propizi: a causa della guerra napoleonica  i rami incisi per le illustrazioni non furono portati a termine e, chiusi entro casse depositate a Livorno, vi restarono fino al 1817. Il manoscritto di Byres fu pubblicato circa cinquant'anni dopo, nel 1842, con il titolo “Hypogaei or Sepulchral Caverns of Tarquinia”, opera che contribuì, a suo modo, a mettere ancora di più in rilievo l'importanza della conoscenza della civiltà etrusca.

Questo lavoro era scaturito dall'attenzione che nel XVIII secolo era stata rivolta proprio alle tombe dipinte tarquiniesi allora conosciute, già descritte da Padre Giannicola Forlivesi, un agostiniano del monastero di S. Marco a Corneto (Tarquinia), e disegnate nel 1765 da Giovanni Battista Piranesi.

Le tavole che riproducevano i dipinti funerari, poste a corredo dell'opera del Byres, erano state a suo tempo realizzate dal pittore polacco Franciszec Smuglewicz (1745-1809), suo collaboratore, che aveva soggiornato a Roma per più di un ventennio, dal 1763 al 1785.

Tra queste, voglio ricordare le illustrazioni di due sepolcri della necropoli dei Monterozzi, la Tomba del Cardinale e la Tomba della Mercareccia, con i relativi cicli pittorici. La prima, del III secolo a.C., era stata scoperta nel 1699, poi riscoperta circa ottanta anni dopo, nel 1780, dal Cardinale Giuseppe Garampi (da cui prese il nome), Vescovo della Diocesi di Montefiascone e Corneto. La seconda, invece, databile al IV-III secolo a.C., fu rinvenuta nella prima metà del XVIII secolo, e presentava dipinti raffiguranti sia fregi animalistici, sia il corteo funebre in onore del committente della tomba, un magistrato etrusco.

Ma quelle dello Smuglewicz, benché suggestive, non sono riproduzioni fededegne delle tombe etrusche e dei loro cicli decorativi, ma ricostruzioni piuttosto fantasiose, con ampio uso di stilemi classicisti. Pure nell'epoca razionalistica dell'Illuminismo vi era la tentazione, da parte degli studiosi e dei disegnatori, di integrare il dato reale con quello immaginato, di sostituire il vero con il verisimile, di trascendere l'oggettività attraverso l'idealizzazione.

Micaela Merlino

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