Viterbo STORIA DI VITERBO
Enzo Bentivoglio

Il Palazzo papale di Viterbo intorno agli anni '70 del 1800
(Archivio Mauro Galeotti)

Ogni città ha il suo respiro e il suo ritmo. Respiro costituito dalla storia in essa contenuta e dagli uomini che in quella hanno agito; ritmo scandito sulla testiera costituita dallo svolgersi delle sue architetture sullo spartito delle sue vie e piazze, lungo i percorsi e nei luoghi di stasi immersi nelle “tonalità” dei suoi materiali, delle forme e espressioni.

E più la città è antica, stratificata nei tempi, maggiormente le sensazioni che un “viaggiatore” è in grado e propenso a percepire sono innumerevoli e complesse, così accade per Viterbo.

Viterbo che attraverso il leone assunto quale suo stemma appare già ammonire a ricevere “rispetto” - per chi vi arriva la prima volta e per chi è in essa - e che già al tempo degli eventi evocati dal Poeta quando compose , per la ripudiata moglie di Carlo Magno,“Sparsa le trecce morbide sul l’affannoso petto”, esisteva quale Castrum Viterbii.

Quel Castrum che secondo una enfatizzazione tutta rinascimentale fece derivare dall’unione di quattro insediamenti, Fanum, Arbanum, Vetulonia, Longula, che uniti dall’ultimo re Longobardo, Desiderio, ancor oggi risultano compresi nell’esteso circuito delle sue medioevali mura, possenti per le sue torri, severe per il color di grana di pepe delle sue pietre di peperino.

Un leone a memoria di Ercole, che una mitologia racconta che dalla sua clava, conficcata nel terreno, scaturì il Lago di Vico, e di quel tempio a lui dedicato, sul cui sito fu imposta, verso la fine di quell’anno 1000, la chiesa Cattedrale la cui interna spazialità, del più “classico” romanico di proporzioni e forme, ancor oggi ci accoglie, una volta attraversata la cinquecentesca facciata voluta da Francesco Gambara, quel cardinale che realizzò i primi e più compiuti episodi architettonici della villa di Bagnaia.

Viterbo, che guarda, quasi presidio, verso quei fertili territori agrari, gli opulenta arva dei romani che si stendono verso il mare e verso quel lago ove, in una sua isola, la figlia di Teodorico, Amalasunta fu relegata e uccisa scatenando così la devastante, così detta, “guerra gotica”.

Viterbo presidiata, alle spalle, dall’alto e aspro cono del monte vulcanico della Palanzana, laboratorio di pietre per il decoro della città sorgente di acque per la vita degli uomini a cui fa compagnia, più in là, il Cimino, avvolto dall’immenso mantello di faggi.

Come scrive lo storico Tito Livio, una volta superata la “impraticabile e spaventosa di quanto non siano oggi le foreste della Germania e mai attraversata da nessuno”, in pochi decenni avvenne l’annichilimento della nazione etrusca e così un console romano, come celebra una lunga iscrizione, fare condurre acqua dalla Palanzana, per quasi dieci chilometri, alla sua villa.

Villa che dominava tra Viterbo e Montefiascone tutta la vasta area , costellata di edifici termali, sorti attorno alle sorgenti solfuree la cui utilizzazione, per oltre duemila anni, che fino a oggi non ha avuto soluzione di continuità, ricordate e celebrate da Tito Livio, Seneca e Plinio il Vecchio e quale luogo rimarchevole segnato nei tardi “itinerarium” dell’impero romano.

Ben due papi umanisti attorno alla metà del XV secolo sono particolarmente collegati alle terme: Nicolò V, per l’architettura, infatti, fece realizzare dal suo architetto operante, Rossellino, un edificio termale, probabilmente ispirato da Leon Battista, mentre Pio II, che da laico, e già segretario dell’imperatore Federico III, aveva percorso gran parte dell’Europa, una volta papa, di Viterbo e delle terme, tra altro, ricorda - scrivendo come Giulio Cesare in terza persona – placebat omnibus urbanitas atque humanitas populi et urbis amanita e ancora, che rara è una casa senza una fonte di acqua corrente, né mancano i giardini… ottimi prodotti come pane candido, saporita carne di animali che si nutrono di erbe odorose, abbondante pesce dal mare Tirreno e dal Lago di Bolsena così come ottimi sono i pascoli per i cavalli.

Il papa si faceva portare l’acqua termale ove risiedeva che con lui cominciò a trasformare il carattere di arcem in quello di un palazzo rinascimentale che con papa Giulio II, ad opera di Donato Bramante, si compì e si amplificò con la grande loggia aperta sul panorama sottostante della città sullo sfondo dei Monti Cimini dal papa viterbese, il Farnese Paolo III.

Ambiente, panorami e luoghi di attività produttive: Pio II, come ricorda, usciva ogni giorno all’alba per respirare l’aria piacevolissima, contemplare le verdi messi e i campi di lino in fiore che gareggiavano con il celeste del cielo; campi di lino più che in nessun altro luogo, campi così estesi a ragione della successiva macerazione del prodotto in quelle acque sulfuree, quelle acque sulfuree che, dopo tanto peregrinare alla ricerca di una soluzione, finalmente fece espellere a Montaigne “una piccola pietra rossa e soda”.

Quei luoghi sono e i versi di Dante confermano “Quale del Bulicame esce ruscello / che parton poi tra lor le peccatrici”; una memoria storica in versi sovrastante a tante altre una memoria architettonica eccezionale, come gli imponenti e eccezionali per l’architettura resti dell’aula termale ottagona delle così dette Terme del Bacucco, più volte rilevate e disegnate dagli architetti rinascimentali e studiate dai moderni archeologi, forse evocate da Sebastiano del Piombo nel fosco panorama della “Pietà”.

Viterbo, così come tutte le città di lunga storia, nel corso dei secoli è stata riconosciuta per alcune peculiarità, caratteristiche o rango e se è piacevole accettare la interpretazione datale dal trecentesco cronista Giovanni Villani, “Città della Vita” ; o ancora città delle “belle fontane”, le molte a “fuso” del XIII-XIV, quella in piazza Fontana Grande, tra le più monumentali del Medioevo italiano, quella realizzata su un’idea di Vignola e quella barocca di Piazza delle Erbe arricchita dai marmorei leoni scolpiti dal viterbese Pio Fedi, il cui capolavoro fa compagnia a quelle di Cellini e Giambologna nella Loggia dei Lanzi a Firenze, ne danno conferma.

Fontane come era prassi collocate in luoghi strategici per la vita di tutti giorni e ostentazione di benessere e decoro e oggi potrebbero costituire segnali di uno specifico percorso turistico che farebbe percorrere tutta la città.  

In fine, e non privo di significato, quale “Città dei Papi” sia per averli accolti, soprattutto nel Medioevo, fuggitivi da Roma a causa dei violenti contrasti tra le famiglie romane, così come qui giunti, soprattutto nel Cinquecento a sancire la pax in similari contrasti oppure tappa, a cinquanta miglia dall’Urbe, nei frequenti viaggi verso il Nord percorrendo l’antica Via Cassia.

Quattro pontefici trovarono sepoltura in chiese di Viterbo: Alessandro IV, che consacrò il convento domenicano di Santa Maria in Gradi, primo sito che Domenico Guzmán ebbe dal papa, in Viterbo, subito dopo l’approvazione dell’Ordine, e la cui sepoltura nella chiesa cattedrale non si è più rintracciata , il francese Clemente IV, colui che definitivamente contribuì all’annullamento della discendenza dell’imperatore Federico II, il papa riposto in un sarcofago antico posto entro una elaborata architettura gotica che errò dalla Cattedrale, a Santa Maria in Gradi e quindi in San Francesco ove ora risplende nel candore dei suo marmi e nel colore dei tasselli di mosaico cui, più in là, si abbina il monumento, ideato da Arnolfo di Cambio, di Adriano V, papa per 39 giorni e che accolse in Viterbo re Carlo d’Angiò, tramandatoci nella severità della statua di Arnolfo in Campidoglio, quindi Giovanni XXI, unico papa portoghese, teologo-filosofo-medico insigne, promosse la pace tra i regnanti cristiani e la sollecitazione, accolta anche dal re dei Tartari, a schierarsi contro i musulmani, ma regnò solo per nove mesi fino a quando non fu travolto dal crollo del tetto della sua stanza e fu sepolto in Duomo, in un semplice sarcofago.

Negli spazi di quel palazzo - già parte di un complesso della famiglia Gatti, aperto sulla città e sul panorama con il ricamo architettonico delle sue logge – ospitò diverse adunanze per l’elezione di pontefici tra cui quella che dopo che i cittadini rinchiusero i cardinali cum clavibus, tenendoli dunque “in conclave”, finalmente, dopo trentatre mesi elessero Gregorio X, il papa che battezzò diversi ambasciatori dei Tartari, criticò il governo di Carlo d’Angiò e stilò l’elogio funebre Bonaventura da Bagnoregio, che molto contribuì alla sua elezione.

Quel Doctor Seraphicus, francescano, con il domenicano Doctor Angelicus, Tommaso d’Aquino cercarono di conciliare fede con ragione, la filosofia degli antichi con la religione cristiana, quanto ancora si sforzerà di effettuare, poco più di due secoli dopo Egidio da Viterbo, l’agostiniano che criticò un primo progetto di Bramante per la nuova basilica di San Pietro e che fu l’unico cardinale che organizzò un contingente militare per liberare papa Clemente VII assediato dall’esercito imperiale.

Il visitatore attento alla storia potrà immaginarsi la dotta predica del domenicano risuonare dall’alto del pulpito lapideo all’angolo della Chiesa di Santa Maria Nuova, giunta a noi quasi immacolata dalla fine dell’anno 1000 e impreziosita degli affreschi di quel Matteo Giovannetti che fra pochi anni andrà a pitturare il palazzo dei papi in Avignone, così come - dalla parte opposta della città – sull’angolo di San Francesco potremo ascoltare, dopo un secolo e mezzo, le semplici e chiare parole, contro il malcostume, il gioco, la corruzione, l’usura, il lusso, la maldicenza, la stregoneria, ecc. di Bernardino da Siena.

Ma è una storia millenaria, s’impone nel ricordarci che essendo Viterbo, fino alla esistenza dello Stato Pontificio, la capitale del Patrimonio di San Pietro nella Tuscia, la Tuscia intesa tutti quegli ampi e “pregevoli” territori che i re Pipino e Carlo Magno misero in completo possesso di quelli già goduti dai Pontefici.

Donazione ulteriormente confermata e ampliata, agli inizi del 1100 da Matilde di Canossa territori che si estendevano dal Tevere, scendendo sul Lago di Bolsena fino alla spiaggia tirrenica di Montalto di Castro e da lì ai Monti della Tolfa per risalire verso Orte.

Viterbo e il suo più immediato circondario per quel suo ruolo di “Metropoli” e la sua dislocazione territoriale furono teatro e testimoni di molti eventi storici da declinare con la “S” maiuscola.

Non scorriamo indietro oltre l’anno Mille, potremmo ricordare il feroce contrasto con Roma quando avvenne anche che le milizie viterbesi alleate di Federico Barbarossa invadono “la città leonina” il Vaticano portano via da una delle sue chiese le porte bronzee e il cantaro avanti la basilica di San Pietro.

L’alleanza con l’imperatore fruttò a Viterbo l’elevazione al rango di città con tanto di cattedra vescovile e la città ricambiò col la costruzione- donazione, effettuata da Gottifredo, formatosi presso l’Università di Bamberga, seguì per quaranta anni la corte errante, raccogliendo documenti e manoscritti d’ogni lingua, già cappellano e cancelliere dei due precedenti imperatori.

Di lui rimane, conservato presso la biblioteca capitolare della cattedrale tra le varie opere da lui scritte, il pregevole codice miniato di una cronaca universale, titolato “Pantheon.

Viterbo, nel momento della sua espansione, molti “castelli” si misero sotto la sua protezione, ma la scarsa lealtà di Ferento - già municipium romano dal cui tempio della Fortuna, come scrive Tacito, fu prelevato il pugnale che avrebbe dovuto uccidere Nerone, luogo natio dell’imperatore Otone e di Domitilla, moglie di Vespasiano – sancì la sua totale distruzione e la dispersione della sua popolazione superstite che in larga misura andò a insediarsi in quella zona di Viterbo, fino ad orti, detta “piano di San Faustino” ove, come ricorda il Cronista, “furono ordinate le strade con le corde” ; un impianto urbanistico regolare in cui si andava a collocare una minuta architettura abitativa ancor oggi riconoscibile in diversi esempi, il tutto espressione di quella crescita severamente programmata e ordinata della città medioevale.

Un percorso, probabilmente anche originario, ma molti secoli dopo fronteggiato da palazzi tardo cinquecenteschi, che dalla duecentesca fontana “a fuso”, posta avanti la Chiesa dei santi Faustino e Giovita - per oltre quattro anni chiesa dei Cavalieri Gerosolimitani che scampati all’eccidio di Rodi ebbero dimora alla Rocca - conduceva alla porta FAUL del Vignola, da qui percorsi verso le terme, verso Tuscania e da lì al mare.

Su questo percorso, quasi all’estremità meridionale delle mura della città, l’esteso convento degli Agostiniani con l’annessa Chiesa della SS.Trinità , per secoli centro pulsante di studi agostiniani, posto in un sito ove nel XVIII secolo vennero alla luce pregevoli mosaici di una villa romana.

La chiesa conventuale celebre per l’immagine miracolosa e il suo monumentale chiostro trabeato, su colonne, dei primi anni del Cinquecento, voluto dal cardinale Santoro, già precettore di Giuliano della Rovere, poi papa Giulio II per il quale, quel dottissimo frate agostiniano, Egidio, ispirò il programma iconologico delle stanze dipinte da Raffaello in Vaticano.

Oltre quell’ordinato quartiere del “piano di San Faustino”, altro simile si stava formando in quel vicus scaranus, già ricordato ai tempi di Carlo Magno, che mantiene ancor oggi molti degli aspetti edili di quei tempi, caratterizzato dalle due “polarità” rappresentate dalla tradizionale fontana “a fuso” e dalla Chiesa di Sant’ Andrea.  

Viterbo, raggiunta la maturità della sua fase medioevale in quell’impasto, ormai lievitato di case e palazzetti, di castellari e chiese, di strade e piazze il tutto dominato dalle svettanti torri (alla fine del XVI secolo se ne potevano contare una quarantina) si muoveva, tra un miracolo e l’altro, Rosa,una “forsennata fanciulla” che fu inviata, insieme ai genitori, in esilio poiché contestava l’autorità dell’imperatore, quel Federico II che aveva elevato Viterbo a “aula imperiale” e vi aveva dato inizio a un imponente palazzo; questi, scomunicato, e nel 1243 respinto dai viterbesi con il suo esercito sotto le mura della città e, come ricordano le cronache, combatterono anche le donne; avvenimento quello che il Gregorovius definì quale “memorando episodio della storia del Medioevo”, per quella sconfitta una fonte d’ambito della corte tramanda che l’imperatore avesse detto che se aveva un piede in Paradiso l’avrebbe retratto pur di vendicarsi di Viterbo.

Per varie ragioni i processi di santificazione di Rosa non arrivarono a compimento, ma papi, imperatori re e regine la onorarono con la loro devozione e così da tempi lontani prima l’urna, al tempo di Alessandro IV, poi una statua e infine una ”macchina”, sempre più alta è portata a spalla, per oltre un chilometro, oggi da un centinaio di facchini, su strade in discesa e in salita rasentando balconi e tetti.

Questa manifestazione dal 2013 è stata inserita dall’ Unesco quale patrimonio immateriale dell'umanità.

Viterbo oltre quel profondo respiro che ci giunge da Medioevo ne ha un altro, meno intenso e forse meno carico di conseguenze storiche è quello derivante dalla cultura umanistica che come il soffio di Zefiro nella “Nascita di Venere” Botticelli, scorre per le vie, accarezza le antiche case, penetra nello spirito e nell’animo degli uomini; si bonificano strade, si razionalizzano percorsi, come avvenne per la stupefacente festa del Corpus Domini promossa da papa Pio II nel 1462, quando il percorso che dalla Rocca scende sulla città “mercantile” concentrata lungo un tratto della via romana (l’attuale via del Corso-via Roma-via San Lorenzo) fu liberata dei portici in legno, da varie sporgenze sulle facciate delle case e altri ingombri.

Parente del papa il cardinale Niccòlò Forteguerri che univa le conoscenze umanistiche alle doti militari molto intervenne, in qualità di Legato, a “risanare” spazi urbani e a qualificarli in termini rinascimentali.

Trascorso poco più di un secolo la ferma volontà del nipote di papa Paolo III, Alessandro Farnese, cardinale Vicecancelliere e Legato del Patrimonio che resosi conto che la “città cresce ogni dì di bene in meglio” e poiché “la strada maestra è storta, né passa per la piazza del Comune, dove si vedriano i palazzi e le altre cose più belle“ e rivolgendosi al Consiglio Comunale annuncia che “ho pensato e resoluto de fare una strada diritta dalla vostra Piazza del Comune a Fontana Grande“ e fu così, che l’antico tessuto medioevale, degradante verso la piazza, fu squarciato per oltre trecento metri.

Se l’affermava il “grande cardinale” , il committente del Vignola, di Michelangelo, degli Zuccari, splendido nel sacro e il profano per la Chiesa del SS. Nome di Gesù e per il palazzo e i giardini di Caprarola, di certo viene detto senza esagerazione, e infatti il rinascimentale esteso palazzo del Comune (in origine destinato al Governatore del Patrimonio), con le sue nove arcate su colonne, il ritmo delle finestre “crociate” e l’imponenza dello stemma di papa Sisto IV costituisce un eccezionale fondale architettonico sul quale, la sera del 3 settembre, si staglia - apparendo agli occhi sempre più grande - la Macchina di Santa Rosa che, quasi “scivolando” da San Sisto, lungo il percorso settecentesco della via Garibaldi (già via Conti in onore del munifico Michelangelo Conti, vescovo di Viterbo, poi papa Innocenzo XIII) lì giunge, quasi - ruota- si arresta- riparte a percorrere quel tratto di “via romana” (via Roma-via del Corso) e, ultima sosta, sul fondale il Teatro dell’Unione - unica presenza a e valida espressione architettonica del tardo neoclassicismo in Viterbo, opera di Virginio Vespignani - quindi, in velocità ascendere al monastero delle clarisse e lì ripercorrere una storia del Medioevo, quando nel 1258 papa Alessandro IV trasferì nell’allora piccola chiesa l’incorrotto, ancor oggi, corpo di rosa e lì immaginare, meno di due secoli dopo, Benozzo Gozzoli, che rifiutando un invito di un Brancacci ( forse per fargli completare la cappella iniziata ad affrescare da Masaccio) venne a Viterbo a dipingere storie di “sancta Rosa” e così gli occhi dei pittori viterbesi videro gli effetti del rinascimento fiorentino e tra questi di certo ci fu quel Lorenzo da Viterbo, che dipinse la cappella Mazzatosta nella chiesa di Santa Maria della Verità del monastero dell’ordine dei Servi di Maria, monastero poco discosto dalle mura della città che con quello domenicano di Santa Maria in Gradi, e quello dei Minori Osservanti di Santa Maria del Paradiso, il placidum locum ove giornalmente si recava papa Pio II, e poi la bramantesca chiesa a pianta centrale di Santa Maria delle Fortezze, di cui oggi è superstite solo un terzo del suo impianto, tutte dislocate a fare corona a oriente della città. Abbiamo appena sfiorato quanto attiene, di architettura e arti, alla comunità laica, quanto alla comunità religiosa e ai privati cittadini e quel soffio di Zefiro da chi fu raccolto ? da tanti ma qui ne ricordo solo tre, da Pietro Lunense, continuus commensalis et abreviator di Nicolò V nel cui palazzo - probabilmente ispirato da Leon Battista Alberti – erano stati ospiti la madre e la sorella del papa; da pisano Carlo Caetani che fece la fortuna con il lucroso sfruttamento dell’allume della Tolfa, la cui clamorosa scoperta di un giacimento nello Stato Pontificio fu annunciata a Pio II, residente in Viterbo, il cui palazzo, ancor oggi integro nei suoi eccezionali caratteri quattrocenteschi e nella stratificazione di pregevoli espressioni artistiche   dal quattrocento al settecento ; da Domenico Spreca che grande salone del suo palazzo fece dipingere una serie di “Virtu”, di cui 14 recentemente recuperate.   Per continuare a alimentare in Viterbo quel soffio, che dallo studio dell’antichità traeva forza , fu compito degli umanisti e in una scelta tra i molti, i viterbesi Latino Latini e Girolamo Ruscelli che tradusse la Geografia di Tolomeo , o alla città collegati come Nicolò Perotti oltre le famose opere di grammatica ne scrisse una in difesa delle donne e Fulvio Orsini o in essa transitanti come il cardinale Bessarione, frequentatore continuo delle terme realizzandovi anche un edificio e Annibal Caro. Nel 1546 Papa Paolo III istituì in Viterbo l’università la cui prima lezione fu tenuta Reginald Pole, cardinale Legato del Patrimonio, collegato agli “spiritualisti” tra i quali Vittoria Colonna , spesso residente in Viterbo nel monastero domenicano di Santa Caterina.

Ma il carattere di una città non si conclude entro se stessa, questa ha dei “prolungamenti” fatti di storie e di realizzazioni. Dell’ambiente “naturale” delle terme ho già accennato, così come della villa di Bagnaia che dall’ultima nobile casata, trae il nome, Lante, ma se volessimo ripercorrere le tappe della sua realizzazione, dovremmo ricordare i cardinali Forteguerri, Sansoni Riario, Ridolfi e Gambara e Montaigne, dopo avere visitato la villa, godendo dell’opera di quelli, scrisse che “non solamente pareggi, ma vinca“ la villa medicea di Pratolino e quella d’Este di Tivoli; qualche decennio dopo il Peretti ancor più la “migliorò”.

Per i miracoli derivati per la devozione a una immagine dipinta su una tegola, poste tra i rami di una quercia nell’arco di poco più di mezzo secolo per quella devozione venne realizzato il grande santuario di Santa Maria della Quercia, poi affidato ai frati Domenicani, a cui si giunge dalla città tramite un rettifilo farnesiano alberato e quindi al sommo di una scalinata, quale podium , si distende la grande “lastra” della facciata - a bugne gentili di peperino - coronata da un ben proporzionato timpano triangolare nel cui frontone due leoni (Viterbo) fanno la guardia all’albero della quercia (nella duplice allusione alla Rovere di Giulio II che completò la costruzione).

Sull’immensa stesura delle bugne di peperino brillano, nel candido bianco e brillante azzurro, le ceramiche di Andrea della Robbia. La imponente torre campanaria (dei quattro piani progettati solo i primi due sono del XV secolo) realizzata da Ambrogio da Milano che partecipò della cultura artistica di Urbino e di cui il padre di Raffaello scrisse che “ond’egli eguaglia gli antichi”.

All’interno la chiesa, di un rinascimento “romanico”, il monumentale altare marmoreo di Andrea Bregno custodisce la venerata immagine, mentre dalla profondità dorata dei lacunari del palco ligneo di Antonio da Sangallo il giovane, con prepotenza si proietta sul devoto/visitatore l’esuberante stemma di papa Farnese.

Per la meditazione dei frati il ricercato chiostro rinascimentale intenzionalmente declinato anche in forme goticizzanti. Qualcuno potrà domandarsi il XVII il XVIII dov’è in Viterbo?, alludendo, in particolare, a quello che in arte e architettura comunemente si suole chiamare “Barocco”, la risposta è che quello spirito è diffuso, disseminato in episodi non così ”prepotenti” come negli esempi romani, ma per cogliere quel respiro è sufficiente evocare per le arti il viterbese Giovan Francesco Romanelli, allievo di Domenichino e Pietro da Cortona che diffuse in città quadri prima e dopo la sua attività in Francia, nel palazzo del cardinale Mazzarino, e nel Louvre e per la società Olimpia Maidalchini l’artefice della elezione a papa del cognato Giovanni Battista Pamphili, Innocenzo X, celebrato, in occasione della sua visita, nella estesa iscrizione posta sopra il fornice della nuova porta detta “Innocenzia” (Porta Romana) la cui originaria configurazione degli elementi decorativi possono ascriversi al Romanelli. Quindi il riposo e la permanenza del papa nel palazzo Nini, residenza cittadina di Olimpia elevata a principessa di San Martino al Cimino ove il papa fu ospite, poi nel già palazzo della già abbazia cistercense che modernizzato anche con idee di Francesco Borromini documentate per la già grande e estesa duplice rampa elicoidale percorribile a piedi e a cavallo per ascendere fino al piano nobile e per la grande porta, a montanti divaricati, di un impianto urbanistico immerso nei boschi di castagno.

Poi il tranquillo svago nella Villa del Barco, posta alle pendici del monte della Palanzana, percorrendo viali di mirti e allori ove, qua e la, osservati dai busti di personaggi celebri e degli antenati dei Maidalchini.

Sulla scia di Italo Calvino si potrebbe suggerire al viaggiatore, al visitatore e perché no al residente di percorrere tranquillamente non solo con i passi, ma con gli occhi e essere preparati a ricevere stimoli e suggestioni da tutti i segni che la città offre, ripercorrere e recarsi nei luoghi in cui una storia si è formata: un esempio tragico quella storia, con la “S”, della quale la chiesa di San Silvestro fu palcoscenico e i cui protagonisti, Dante ricordò nell’Inferno, “colui fesse in grembo a Dio/ Lo cor che in sul Tamigi ancor si cola”: era il 13 marzo 1271 quando Guido Montfort, vicario generale della Toscana per re Carlo d’Angiò, uccise per vendetta, durante la messa, Enrico di Cornovaglia, nipote del re d’Inghilterra, Enrico III, ora un esempio festoso, era il giugno del 1472 quando, una “fanciulla d’anni sedici incirca, bella piacevole, domestica e lieta, portava in dosso una camorra di velluto nero, e al collo un collare di perle grossissime, e pietre preziose, rubini, zaffiri, diamanti“, questa era la figlia del re di Napoli che andava in sposa a Ercole I, duca di Ferrara.

Eleonora arrivò a Viterbo con un seguito di “1300 persone degne e 280 muli di carriaggi e 65 trombetti e piffari“; le cerimonie di accoglienza si svolsero nello splendido giardino, presso la Chiesa di San Sisto e nel palazzo del cardinale Forteguerri .

Registi come Orson Welles e Zeffirelli scelsero Viterbo per molte delle loro ambientazioni medioevali; Fellini per dare svolgimento a vicende di una indolente e sonnolenta città di provincia e in tempi recenti set, tra le strade del quartiere medioevale di San Pellegrino, il corso e altri ambiti urbani, per la quotidianità di eventi positivi e negativi di un maresciallo dei Carabinieri.

Enzo Bentivoglio

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