Viterbo STORIA Dodicesimo incontro con i lettori de La Città (www.lacitta.eu)
Maurizio Pinna


Viterbo panorama dalla cupola di santa Rosa anni '40

Nei giorni scorsi abbiamo terminato il capitolo “Propaganda o comunicazione?”. Ora il nostro viaggio proseguirà attraverso curiosità, storie particolari, luoghi e personaggi che sceglierò di volta in volta, secondo l'ispirazione del momento.

Oggi riprendiamo con un'autorevole testimonianza che evidenzia come, sotto certi aspetti, poco o nulla è cambiato a Viterbo negli ultimi centotredici anni.

Ma leggeremo anche come Viterbo nasce per gente quieta, costretta a subire e respingere attacchi, per poi tornare, sonnacchiosa, a godersi il proprio tesoro naturale, artistico, architettonico, storico, ma senza mai pensare di condividerlo con altri.

E così se da un lato possiamo rimpiangere una certa tranquillità di altri tempi dal sapore più vecchio che antico, dall'altro versante capiamo quanto si sia radicato quel protezionismo che non ha mai permesso a Viterbo di diventare una città del mondo, restando di provincia.

Ho qualche dubbio riguardo all'esattezza delle coordinate geografiche che leggeremo nelle prossime righe, ma ciò è ininfluente per l'argomento stesso.

 

Piazza Fontan di piano anni '10

Una geografia generosa per Viterbo
Per collocare Viterbo in quell'ambito geografico delimitato a Sud dalla provincia di Roma, a Nord dalla Toscana, a Ovest dalla costa del Mar Tirreno e a Est dall'Umbria, mi avvalgo del minuzioso piano topografico descritto da Cesare Pinzi, grande conoscitore della storia e delle vicende viterbesi, sul suo libro “I principali monumenti di Viterbo - Guida pel visitatore”.

«Viterbo siede alle falde nord-ovest dei monti Cimini, tramezzata dal torrente Urcionio,
e distante da Roma 75 Km. sulla via Nazionale Cassia che conduce a Firenze. È posta a 42°, 25, 10 di latitudine, e a 49°, 46, 10 di longitudine: lontana in linea retta, non più che 30 Km. dal mare, dal cui livello s'innalza di m 354,11, nel punto più alto che è la Porta Romana, e di 293 m nel più basso che è la valle interna di Faulle.

Il centro della Città può a un dipresso considerarsi la piazza del Plebiscito, dove s'innalza la snella e pittoresca Torre del Comune, situata alla latitudine boreale di 42°, 26,
ed alla longitudine ovest da Roma di 0°, 22. La sua sommità ha l'altitudine di m 369, elevandosi dalla piazza sottostante di m 44».

Viterbo visto da Ferdinand De Navenne
Poiché è mio intento descrivere com'era la città nei primi del Novecento, ho pensato di prendere spunto da uno scrittore straniero e da un viterbese. Inizierò con Ferdinand De Navenne, scrittore e diplomatico francese nato nel 1849.

De Navenne fu per trentacinque anni in diplomazia, dei quali quindici trascorsi a Roma, dove concluse la sua carriera nel 1904 come Ministro di Francia presso la Santa Sede.
Nel suo libro Da Entre le Tibre et l'Arno, Parigi 1903, racconta: «Quasi tutti coloro che hanno visitato Viterbo si domandano: Perché l'oblio profondo nel quale è caduta una città sì degna di attirare l'attenzione?

Veramente Viterbo in nessuna epoca ha eccitata la curiosità dei viaggiatori, e ciò per varie ragioni. Fuvvi un tempo, è vero, in cui la via Cassia era la principale arteria che, dal nord della penisola, conduceva a Roma: diligenze e vetture postali si fermavano a Viterbo almeno per cambiare i cavalli.

Ma allora, nessuno aveva cura di vedere le cose del Medioevo; si passava, non ci si fermava. Più tardi, un mutamento si produsse nel gusto del pubblico: si fu presi dalla passione pei monumenti anteriori alla Rinascenza; ma questo mutamento si produsse al momento stesso in cui, in seguito alla costruzione della ferrovia, la Cassia fu abbandonata.
Or la ferrovia passa da Orte e non da Viterbo. La vecchia città si trovò così destinata ad un abbandono irrimediabile.

 

Via san Pellegrino nel 1910

Né le sue mura otto volte secolari, né la foresta di torri che sorge dal suolo come una vegetazione feudale, né l'interessante quartiere di San Pellegrino, né le vecchie cronache formicolanti di racconti meravigliosi ebbero la virtù di attirare la folla indifferente.
Inutilmente, poi, è stata Viterbo riunita a Roma da un tronco diretto di ferrovia.
Ciò che le manca è una di quelle attrattive straordinarie, che s'impongono alla attenzione quasi con una specie di violenza, come la Cattedrale di Orvieto, il Cambio di Perugia o la Santa Casa di Loreto.
Per sua disgrazia Viterbo non ha alcuna attrattiva di questo genere (...)».
Al lettore non farà certamente piacere leggere che poco o nulla da allora è cambiato, ma l'uomo, si sa, vive anche di speranze.

La città attraverso gli occhi di Pietro Egidi
La descrizione della città, vista da Pietro Egidi, appare diversa, in realtà è più accomodante e con sentimenti d'affetto manifestati dallo scrittore nei confronti del luogo natale. Ma i viaggiatori, come si potrebbe definire De Navenne, lo sappiamo, sono notoriamente più obiettivi e più critici in terra altrui.

Leggiamo insieme cosa scrisse Pietro Egidi, nato a Viterbo nel 1872, quando era professore di Storia Moderna presso la Regia Università di Torino.
«Il carattere della città di Viterbo non è dato da questo o da quel monumento, non è dato neppure da tutte le opere d'arte di cui s'adorna, così come il solo profilo non dà tutta la persona. È il complesso delle costruzioni, delle vie, delle piazze, col loro speciale colore, che forma la vera fisionomia, di cui le opere d'arte sono i lineamenti più salienti.

Perché questi prendano il loro posto e il loro significato, non basta neppure avere sottocchio in uno sguardo panoramico tutto l'abitato della città. Sulla lunga distesa dei tetti, solo qua e là emergeranno le torri quadrate, qui alte ed intere, lì mozzate e rovinose (furon quasi duecento, sono appena trenta o quaranta!), o il prospetto d'una chiesa o il coronamento d'un palazzo; non le vie, non le piccole case, non le modeste fontane, non le corti nascoste. E allora si potrà forse rievocare qualcuno degli episodi famosi del passato, ma non sorprendere i battiti della intima umile vita che ininterrotta pulsa da secoli nelle più recondite vene della città e ne fa parer presenti le morte generazioni.

Bisogna invece uscir dalle porte, correre lungo le mura e fermarsi pensosi sotto torrioni che subirono gli assalti di imperiali e di pontefici, di italiani e di stranieri, conservando quasi intatta la loro forma primitiva: sostare sotto il palazzo ove prima gli abbati di San Martino lietamente consumavano le sostanze accumulate dalla pietà dei fedeli, e più tardi Donna Olimpia Maidalchini, sazia di baci papali, riposò dalle cure del pontificato.

Piazza san Lorenzo nel 1925

Bisogna andar soli, a zonzo, senza scopo, per le vie secondarie, nei quartieri più miseri, ove la nostra sfacciata e pettegola civiltà non è ancora penetrata. Nel quartiere di San Pellegrino, per esempio.

Ad ogni passo, per così dire, una scena nuova, imprevista.
Di dietro ciascun canto delle vie strette, buie, chiuse da nere case, tra le quali pare che a stento riescano a passare piegandosi, spezzandosi, rivolgendosi, balza improvvisa la sorpresa.

Ora è una fuga di gradini su cui s'apre una porta in piena aria; ora un grosso arcone che si schiaccia sui passanti, e di là fa travedere altri archi e scalette, balconi, muri grezzi, stipiti scolpiti; ora una nera torre massiccia, senza finestre, senza feritoie; ora la fresca vena di una piccola fonte.

Qua, dalla parete ferrigna, spunta un modiglione dolato; là, dentro una corte erbosa, fa capolino un portichetto dagli archi slabbrati. Un profferlo mezzo cadente pare sbarri la strada? È una voltata netta, oltre la quale sulla breve piazzetta sorge una piccola chiesa solitaria.

La quiete delle ore canicolari, il silenzio delle notti lunari convengono sommamente alla città. È in quelle ore che essa, come bella stanca di ripulse, si manifesta e si concede a chi l'ama.

Chi di sotto gli archi del palazzo comunale non ha visto la piazza deserta affogata in un meriggio d'agosto; chi non è rimasto pensoso a contemplare i meravigliosi giuochi in cui il sole s'attarda tra le colonne e gli archi del palazzo degli Alessandri; chi non sa come sbianchi il peperino sotto il latteo raggio lunare, e quanto paurose le ombre notturne si annidino sotto i portici, e come fantastiche cadano dalle torri e corran per le vie, non conosce Viterbo, non può sentirne l'anima, non provare l'irresistibile fascino.»


(Fonte e riferimenti bibliografici: Viterbo dal fascismo alla guerra con uno sguardo ai giorni nostri, Maurizio Pinna, 2011).

Maurizio Pinna

I precedenti articoli

11 - Ventennio: Fu propaganda o comunicazione? Fu un consenso di qualità o di superficialità?

10 - Ventennio: Fu propaganda o comunicazione? Mussolini non accettava di buon grado il marchio di dittatore
9 - Ventennio: Fu propaganda o comunicazione? Come nei mercati azionari le “quotazioni” salgono e scendono
8 - Ventennio: Fu propaganda o comunicazione? Mussolini non ha effettuato studi specifici, eppure…

7 -
Ventennio: Fu propaganda o comunicazione? Un uomo amato e odiato, che non passò inosservato
6 - Ventennio: Fu propaganda o comunicazione? Gli errori restano errori, così come il bene resta il bene

5 - Ventennio: Fu propaganda o comunicazione? Dal Ventennio a oggi nulla è cambiato

4 - I bombardamenti sembrano una festa. Ma è propaganda militare
3 - I bombardamenti su Viterbo. Incursioni aeree di febbraio 1944
2 - La persecuzione degli ebrei
1 - Bombardare Viterbo! 1943-1944. Un volantino rarissimo svela i metodi della propaganda

Salva

Salva

Salva

Salva

Salva

Salva

Salva

Salva

Salva

chi è on line

Abbiamo 641 visitatori online

 

 I libri

di Mauro Galeotti

 

Cartonato - pag. 246 - euro 25,00
in esaurimento, per l'acquisto
scrivere alla email spvit@tin.it

Cartonato - pag. 808, a colori
da euro 120,00 a euro 80,00
in esaurimento, per l'acquisto
scrivere alla email spvit@tin.it