Viterbo STORIA Ho scritto, a mio modo, la storia di santa Giacinta Marescotti per le suore Clarisse del Monastero di san Bernardino, la propongo in onore della sua festa oggi 30 Gennaio, giorno della Sua salita in cielo (m.g.)
Mauro Galeotti


Santa Giacinta Marescotti, santino del secolo XVII

“Sor Jacinta de Maria Vergine”

Questa è la storia di una donna, una delle tante, in cui la ricca famiglia per non dividere i beni, la costringe a entrare in monastero.

 

E sì, Clarice Marescotti di Vignanello, deliziosa cittadina in provincia di Viterbo, è una ragazza come tante, ma lei non lo sa, perché vive da sempre nel maniero gentilizio fortificato, turrito e merlato, difeso con i denti, in esso è il suo mondo, nessun rapporto al di fuori l’antico e spesso muro castellano. La vita è tutt’altra cosa, ma lei non lo sa, le finestre sono troppo alte e le robuste grate di ferro assumono l’aspetto di essere in prigione.

Le ragazze coetanee, giocano in strada, lavorano sodo, portano i loro miseri guadagni a casa per aiutare i genitori ad affrontare ogni giorno il mangiare quotidiano.

Clarice non sa cosa sia il lavoro, la fame, giocare sulla polverosa strada. Veste bene, è circondata da dame che la riveriscono, che la custodiscono, che la rispettano, ma a Clarice manca la libertà.

Quale bene più prezioso per un essere umano, vivere la libertà?

Eppure, lei non lo sa, perché è nata così e così affronta ogni giorno la vita da principessa castellana.

Cresce in altezza e ora riesce a vedere il suo bel paese dalle finestre tra i fori delle grate, vede i carri tirati dai cavalli, dai buoi, guidati dai contadini vestiti di poveri cenci, li vede recarsi verso i loro casali sperduti nei terreni dei dintorni.

Guarda spesso lo stemma della sua nobile famiglia, ammira quell’aquila con le ali spiegare e quel leopardo illeonito con le zampe tese e la coda ritta. Un’aquila fiera e un leopardo tenace, che tanti antenati dei Marescotti avevano distinto e insignito.

Marcantonio Marescotti e Ottavia Orsini ebbero cinque figli, Ginevra, Clarice, Ortensia, Sforza Vicino e Galeazzo. Clarice era nata il 6 Marzo 1585 e porterà sempre con sé quel triste episodio che per poco le tolse la vita.

Aveva sette anni, quando approssimatasi al pozzo del castello, giocando con le corde e il secchio, per poco non vi cadde all’interno. Vistasi perduta si raccomandò alla Madonna, la quale fece in modo che fosse salvata da un servitore, che vedendola in pericolo accorse in suo aiuto.

E’ il primo inconscio avvicinamento alla spiritualità, ma non ebbe in lei l’effetto che poi da adulta sconvolse tutta la sua vita di donna, di credente, di monaca.

Una ragazza vivace a tal punto che i genitori credettero bene avviarla al Monastero di san Bernardino a Viterbo, per darle un’educazione consona al suo rango. Anche perché in quel monastero erano già rinchiuse una sua zia superiora, suor Beatrice, e la sorella maggiore, Ginevra.

Ottavia e Marcantonio, però, avevano fatto male le previsioni e Clarice, dopo circa un anno, volle rientrare nel castello di Vignanello, perché non se la sentiva di vivere in monastero. Non era per lei quella vita di riservatezza, di rigore, di povertà.

D’altronde non si poteva darle torto, era vissuta sempre tra il lusso, tra i broccati dei vestiti, tra mobili intarsiati, tra letti con il baldacchino e poi bastava che si affacciasse da una finestra di una delle torri per godere un panorama immenso, infinito, tra verde e caseggiati.

Lì a san Bernardino le finestre si aprivano di fronte a un muro e, inoltre, le era proibito affacciarsi, farsi vedere dai passanti, guai a lei se non avesse soffocato i suoi istinti principeschi.

In effetti, al castello era tutta un’altra cosa, era in primo piano, era ben vestita, era una bella figliola, tanto bella che la notò il marchese Paolo Capizzucchi dei signori di Poggio Catino.

Aveva davanti a sé un sogno, un futuro di moglie e di madre. Sì, solo un sogno, tutto lì. Infatti, il nobiluomo fu concesso alla sorella di Clarice, Ortensia, la quale se lo vide accanto senza che lei l’avesse desiderato. Ma si sa, in quei tempi i giochi economici, di affari, di possessi erano decisi dai genitori, o meglio dal padre, Marcantonio, che risoluto, volendo domare la figlia Clarice, troppo “ritrosa e acerba”, non solo le tolse l’amore che aveva per Paolo Capizzucchi, ma la costrinse a entrare di nuovo in monastero, con l’intenzione di non farla più uscire.

Il patrimonio dei Marescotti era così preservato e indiviso.

Era così calpestata impietosamente la personalità di Clarice, eppure lei aveva provato a farsi rispettare, ma fu travolta dall’usanza consueta delle famiglie nobili. La nascita di una femmina in casa era un danno e Marcantonio, ne aveva avute addirittura tre, prima dei due maschi, quindi si era dato da fare perché fossero quest’ultimi gli unici eredi di tutti i vantaggi accumulati dagli avi e dai genitori.

Quanto dovette essere inquieta Clarice, avere un padre che, secondo i giudizi di chi lo conobbe, lo descrive di carattere violento e litigioso, che non l’amava, che l’allontanava tranquillamente dal castello per chiuderla tra quattro mura, sepolta viva.

Arrivò il 9 Gennaio 1605, un brutto giorno, un giorno indimenticabile per Clarice che non aveva ancora compiuto i vent’anni. Ma accettò fiera e orgogliosa qual era, l’imposizione del padre padrone.

Varcò, così, la soglia del monastero, nel rispetto del sacro luogo, ma anche nel rispetto di se stessa.

Abbandonata nei sentimenti, negli amori, nelle volontà e negli affetti familiari, tanto che nel 1610, nelle lettere indirizzate a Ortensia e a Galeazzo, lei lamenta il fatto che nessuno le scrive, nessuno la va a trovare in monastero, pur avendo ormai perdonato il torto subito.

Come consuetudine la monaca appena entra in monastero, non può conservare il proprio nome, e allora Clarice scelse Giacinta, il nome del fiore, perché l’accompagnasse fino alla fine.

Marcantonio, forse per dormire la notte, nei momenti di riflessione, per la durezza del suo comportamento, cercò di alleviare se stesso concedendo alla figlia, rinchiusa, una notevole dote di ben 600 scudi e una rendita personale annuale di 40 scudi.

Come se il denaro potesse compensare il mancato rispetto della personalità, la libertà ristretta, e il soffocamento dell’amore, che poi, Giacinta, seppe a chi rivolgere, guardando in alto, oltre le nuvole.

Chissà, a consolazione della giovane nobile, nel monastero in cui vivevano un centinaio di monache, vi erano altri cognomi eccellenti come Farnese, Cybo, Medici, Baglioni, Marsciano, Sforza.

Ma forse proprio queste presenze costruirono in Giacinta la volontà di supremazia, di non accettare il saio, la corda alla vita, il pagliericcio in una stanzetta nuda e cruda, dove spiccava sulla parete, priva di qualsiasi ornamento, un modesto Crocefisso di legno.

Ecco allora che volle le fossero costruite, nel punto più alto del monastero, due camere, una delle quali molto grande, illuminata da due finestre rivolte verso l’orto e il Quartiere di Pianoscarano.

Ambienti che certo non potevano somigliare alle tante stanze del suo castello, ma almeno lì, nel monastero, era la nobile più nobile delle altre, proprio perché il suo luogo di vita quotidiana rispettava il suo rango. In fin dei conti, in quei tempi le monache nobili certo non erano considerate come le monache di umili origini, esisteva, eccome, una gerarchia secondo l’influenza sul panorama politico della casata di provenienza.

Non mancarono in uso a Giacinta, il saio e il velo di fine stoffa, piatti in maiolica, bicchieri d’argento, quadri e mobili di valore e arredamento talmente sfarzoso che nel 1612, quando il vescovo Tiberio Muti andò in Visita pastorale al monastero, ordinò che si mettesse un riparo alle finestre delle stanze di Giacinta, tale da non far vedere agli abitanti di Pianoscarano che nel convento era un appartamento lussuoso.

Così visse dal 1605 al 1615, poi, a trent’anni, una malattia la costrinse a letto per un lungo periodo, l’immobilità, si sa, dà tempo ai pensieri di svilupparsi, di riflettere, di considerare la vita trascorsa prima come Clarice, poi come suor Giacinta.

Ebbene, ebbe una forte scossa. Un terremoto interiore specialmente dopo la visita di padre Antonio Bianchetti, un saggio francescano che era venuto a confessarla, ma che dinanzi a tanto fasto, si rifiutò e apostrofò Giacinta, dicendole che il Paradiso non è per le persone animate di superbia e possedute dalla vanità.

Il momento era difficile per Giacinta, malata, malata da tanto tempo, tempo usato fuori le regole d’amore verso il Signore. Pensò alle tremende e lapidarie parole di padre Antonio, quando le disse che l’Inferno era la stanza propria dei superbi.

La dominò un tremito irrefrenabile e pensò che non bastava indossare il saio e vivere in monastero per evitare l’Inferno, pensò che quella vita, fino ad ora condotta, non le si confaceva più. Non si riconosceva, non capiva come si fosse lasciata trasportare dall’orgoglio.

Scese allora dal letto e in lacrime chiese al frate di nuovo la confessione. Il pio francescano gliela concesse, e Giacinta cominciò a flagellarsi e a spogliarsi di tutti quegli sfarzi che avevano caratterizzato la sua vita monastica.

Letto di pagliericcio, saio di rozza stoffa, rifiuto dei 40 scudi annui concessi dal padre, abbandono delle stanze “nobili”, consegna dei preziosi mobili alla badessa, rinuncia a un bel prezioso Crocefisso, consegna di un reliquiario con un pezzetto di legno della Croce e un capello della Madonna dei quali era molto devota, queste le prime importanti rinunce di Giacinta, è l’inizio della sua santità.

Visse in una angusta celletta in cui allestì un grande Crocefisso che arrivava alla soffitta, e si procurò una catena per punire il suo corpo.

Miracoli, miracoli, tanti miracoli operò Giacinta, ma uno speciale fu quello di avvicinare al Signore, Francesco Pacini. Era questi un soldato pistoiese, audace, sfrenato e peccatore. Giacinta volle avvicinarlo e lo fece chiamare da un certo Simonetti, amico di lei.

Pacini, in un primo momento non accettò l’invito di Giacinta, poi, incuriosito dal conoscere cosa mai poteva volere da lui una monaca, si recò al monastero.

Fu come una folgorazione, l’uomo uscì dal quel luogo sacro, apostolo di Cristo.

In seguito, Giacinta, con la collaborazione del convertito Pacini, istituì la Confraternita dei Sacconi per assistenza degli ammalati negli ospedali, la quale ebbe per sede la Chiesa di santa Maria delle Rose, che si trovava nel Quartiere del Cunicchio.

Giacinta, non trascurò gli anziani, deboli come i bambini e per loro istituì la Confraternita degli Oblati di Maria, che ebbe sede in un ospizio unito alla Chiesa di san Nicolò nel Quartiere di Pianoscarano.

E giunse il 1640, è questo l’anno della salita di Clarice Marescotti accanto al Padre, se ne andò subito il primo mese, il 30 Gennaio, a soli 55 anni.

Esposto il corpo nella Chiesa di san Bernardino, fu talmente numerosa la folla di fedeli che vollero rendere l’ultimo omaggio a Giacinta, toccandole il saio, sfiorandole il corpo, tagliuzzando l’abito per portare via qualcosa di santificato, ridotto a tal punto che le monache furono costrette a sostituire la tonaca di morte per ben tre volte.

Giacinta fu tumulata nella nuda terra, dinanzi all’altare maggiore della chiesa e solo nel 1692 venne dissepolta e deposta in una cassa.

Il 30 Giugno la beata Giacinta fu eletta Protettrice di Viterbo. Poi l’8 Novembre 1727, papa Benedetto XIII, si recò in visita alla salma alla quale dedicò un altare.

Fu papa Pio VII, il 24 Maggio 1807, a proclamare, Clarice Marescotti, santa, sì santa Giacinta, la cui festa, stabilì il pontefice, dovesse celebrarsi il 30 Gennaio di ogni anno.

Il 20 Dicembre 1990 la Santa Sede, in occasione del 350° Anniversario della Morte di santa Giacinta Marescotti, l’ha eletta “Patrona delle Federazione delle Monache clarisse del Lazio”.

La natura ci ha regalato una foglia lanceolata che, al suo centro, presenta una “spina”, è una pianta che cresce tuttora nel giardino del monastero.

Sì, una spina che non punge, morbida, a ricordo della vita terrena di una donna nata ricca e morta ricca, perché invasa di quel sublime profumo che emanano i fiorellini di giacinto che compongono la sua infiorescenza.

Profumo incantevole, così intenso e persistente da donare a quel fiore, scelto nel nome da Clarice, quella nobiltà così negata e tanto intensamente protetta nell’anima del cuore di Giacinta.

Un caro saluto a “sor Jacinta de Maria Vergine”, così amava firmare le lettere.  

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