Viterbo STORIA Andò poi a vivere in una nuda cella dove vi era soltanto una semplice croce
Don Emanuele Germani

Il 30 gennaio si celebra a Viterbo la festa di Santa Giacinta Marescotti.

Il vescovo Lino Fumagalli, come tradizione, presiederà una celebrazione eucaristica nella chiesa a lei dedicata e dove si conserva il corpo della Santa.

Era stata battezzata con il nome di Clarice. Nata a Vignanello nel 1585, crebbe nel Castello del padre Marc’Antonio Sforza Marescotti. Lei sognava come tutte le ragazze nobili del tempo un principe azzurro che puntualmente arrivò: il marchese Paolo Capizucchi di Poggio Catino.

Ma il padre decise di rinchiuderla in modo inaspettato ad appena venti anni nel monastero di San Bernardino a Viterbo mentre faceva sposare la figlia minore con il marchese.

La giovane Clarice, che aveva cambiato il nome in Giacinta, non accettò quella condizione: secondo la tradizione storica visse per dieci anni in due stanze arredate in modo lussuoso all’interno del monastero, partecipando alle preghiere soltanto formalmente. Finchè un giorno, mentre era malata gravemente venne a visitarla un frate francescano che appena vide il lusso in cui viveva Giacinta non volle confessarla.

Intanto le venivano a mancare la madre, il fratello e la sorella Ortensia, che aveva sposato il suo principe azzurro. Tutti quei avvenimenti la cambiarono interiormente e la spinsero a indossare una semplice e rozza tonaca chiedendo perdono alle altre monache per il suo comportamento.

Andò poi a vivere in una nuda cella dove vi era soltanto una semplice croce. Nelle giornate fredde d’inverno, raccontano, si recava in giardino a pregare portando sulle spalle la croce e spezzando con i piedi nudi le grandi lastre di ghiaccio. Giacinta non era monaca clarissa, ma terziaria francescana con voti semplici, quindi aveva la possibilità di comunicare con l’esterno del monastero.

Grazie a ciò riuscì a convertire un soldato di ventura, che scandalizzava la città con le sue imprese da dongiovanni, trasformandolo in un apostolo laico. Insieme con lui, poi fondò una confraternita per l’assistenza degli infermi, dei poveri e dei carcerati, i Sacconi, che esistono ancora oggi in alcune parti dell’Italia centrale.

Poi creo gli oblati di Maria che costruirono e mministrarono in città a Viterbo un ospizio per anziani. Morì il 30 gennaio 1640, giorno che poi come vuole la tradizione della Chiesa divenne la sua festa liturgica.

Ora il corpo si conserva nella chiesa a Piazza della Morte a Viterbo dove vive una bella comunità di monache clarisse che ne conservano la memoria e la tradizione. Il suo culto è vivo in diverse parti del Lazio e anche a Roma dove gli Sforza Ruspoli, suoi discendenti, vollero una cappella nella Chiesa di San Lorenzo in Lucina.

A Vignanello, suo paese nativo, si conserva nella chiesa di Santa Maria un celebre dipinto di Giuseppe Passeri (1654-1714) che ne dipinse il transito.

Don Emanuele Germani

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