Viterbo LETTERATURA La Rosa Nascosta ne “L’Aleph”
Alessandro Finzi
Centro Studi Santa Rosa da Viterbo

 

Alessandro Finzi con Stefano Aviani Barbacci e sua figlia Chiara

Nel maggio scorso Stefano Aviani Barbacci, sua figlia Chiara ed io, abbiamo presentato al XXXVII Congresso Internazionale di Americanistica un lavoro che illustra come la figura di santa Rosa sia stata celata da Borges nel personaggio di un racconto. Ne diamo notizia tornando alla lingua italiana e seguendo lo schema della presentazione che è più semplice e lineare.

L’uditorio del Congresso conosceva perfettamente Jorge Luis Borges, il massimo autore argentino, ma nulla sapeva di santa Rosa. Era dunque necessario far capire subito a quale livello la conoscenza di Rosa abbia permeato la cultura spagnola fin da tempi antichi.

Per prima cosa è stata dunque presentata la xilografia che illustra il libro intitolato “Vita Beate Virginis Rose” (sic) conservato presso la Biblioteca Colombina della cattedrale di Siviglia ed appartenuto a Hernando Colón, figlio di Cristoforo, che lo ha comprato personalmente nel 1515 a Viterbo, presso il Monastero e lo ha annotato di sua mano, ricordando anche quanto la ha pagato e aggiungendo al testo notizie sulla Santa che aveva raccolto durante la sua residenza in città.

Il libro non riporta né la data, né l’editore e, se non fosse stato annotato, non sapremmo che l’opera risale agli inizi del 1500 quando non addirittura alla fine del 1400.

 

Santa Rosa (xilografia, circa 1500)

La cosa ha destato notevole sorpresa perché nessuno nell’uditorio aveva mai sentito parlare della nostra Santa e la vedeva rappresentata in un’opera antica e di notevole interesse storico. 

Borges ha pubblicato il racconto “El Aleph” nel 1945 nella rivista “Sur” della sua amica Victoria Ocampo e poi, di nuovo, nel 1949 insieme ad altri racconti raccolti in volume. Nella narrazione c’è un personaggio esterno: Beatriz Elena Viterbo, che è morta e di cui il Borges (personaggio) era innamorato e di lei racconta.

La critica ha stabilito che il nome Beatriz è correlato con la Beatrice dantesca ed Elena con quella di Omero per cui la situazione può essere rappresentata con il seguente schema:

Beatriz  =  Beatrice Portinari

Elena    =   Elena di Troia

Viterbo =  ???

Per i riferimenti classici ricordiamo solo l’aneddoto relativo a Estela Campo, scrittrice di cui Borges (l’autore) era stato innamorato. La Campo, nelle sue memorie, ricorda che Borges le diceva: “Io sono il tuo Dante e tu sei la mia Beatrice e mi devi salvare da questo inferno”, la cosa la lusingava, ma l’interesse per Borges, come persona, era scarso per cui la relazione non era mai andata oltre qualche bacio.

La situazione, nel racconto, si riproduce in modo analogo fra Beatriz e Borges (personaggio). Se dunque, senza approfondire ulteriormente, i primi due collegamenti sono da considerarsi corretti, possiamo allora domandarci a cosa si riferisca il cognome Viterbo.

In letteratura troviamo solo l’osservazione di María del Rosal Pérez Bernal che, avendo trattato la materia, ricorda che è esistita una santa Rosa da Viterbo assai più conosciuta che la città in cui è nata. Il riferimento non è particolarmente significativo e appare abbastanza improbabile, ma è comunque una suggestione.

Esaminando il testo si trovano però due frasi abbastanza interessanti se esaminate alla luce della biografia di Rosa ed in particolare a come questa viene presentata dalla letteratura di lingua spagnola e portoghese.

Eccole:

Beatrice... era una donna, una bambina di una chiaroveggenza quasi implacabile
“Beatriz,... era una mujer, una niña de una clarividencia casi implacable”

C’era nel suo procedere... come un principio di estasi
había en su andar… como un principio de éxtasis”

La prima frase appare a prima vista di difficile interpretazione perché non si capisce il significato della contrapposizione fra “mujer” e  “niña” (donna e bambina) e cosa possa essere una “clarivedencia casi implacable” (una chiaroveggenza quasi implacabile).

Ma bisogna sapere che nelle letterature spagnola e portoghese, al contrario di quella italiana, santa Rosa è conosciuta come la “Santa Niña” (la santa bambina), fece, infatti, miracoli in giovanissima età e giovane morì. Da questo punto di vista un collegamento fra Rosa e Beatriz, oltre che apparire ragionevole, spiegherebbe chi sia la “mujer” e chi sia la “niña” che con essa si identifica.

Rivolgiamoci per un momento all’iconografia:

Vergine e Bambino con santa Rosa de Viterbo
(Bartolomé Esteban Murillo, 1660)

Miracolo di santa Rosa de Viterbo
(G. Vásquez de Arce y Ceballos, ca. 1670)

Il quadro dipinto da Bartolomé Esteban Murillo, poco dopo la metà del ‘600 e conservato a Madrid, è ormai conosciuto dai Viterbesi poiché più volte ne abbiamo parlato, in particolare per il fatto che il soggetto era stato confuso con santa Rosalia e abbiamo narrato della lunga polemica che ci ha permesso di ottenere il definitivo riconoscimento che si tratta di Rosa in giovane età inginocchiata ai piedi della Vergine.

Nell'altro quadro, caso del tutto eccezionale, Rosa è raffigurata ancora più giovane; la pittura appartiene già alla cultura sudamericana ed è stata dipinta, pochi anni dopo quella del Murillo, da Gregorio Vásquez de Arce y Ceballos, il padre della pittura colombiana, e si trova conservato presso il seminario dei Gesuiti di Bogotà.

In questo modo abbiamo potuto illustrare come Rosa bambina era già conosciuta nell’America meridionale in epoca antica e anche questo fatto, che spiegava l’espressione di Borges, ha destato meraviglia.

L’episodio illustrato è poco noto anche ai Viterbesi e richiede una buona conoscenza della biografia di Rosa da parte del pittore o del committente. Il miracolo è questo: è stata rubata una gallina; la piccola Rosa va direttamente dalla donna che aveva compiuto il furto e le chiede di restituire l’animale; la donna nega il furto e allora le spuntano sulla guancia delle penne di gallina; la donna piange, si pente e Rosa la guarisce. Come sapeva Rosa chi aveva commesso il furto? Lo sapeva per chiaroveggenza.

La parola chiaroveggenza era di difficile comprensione a livello popolare, specie quando la grande maggioranza non sapeva leggere, ma in un’opera scritta per il teatro popolare che si recitava per strada (teatro de corral) per far conoscere i santi, un personaggio spiega chiaramente che Rosa conosceva gli eventi e dice, a proposito dell’episodio narrato, che era andata direttamente dalla donna:

 senza aver visto né parlato con nessuno
“sin aber visto ni hablado con nadie”

Anche il fatto che Rosa fosse presentata come chiaroveggente, oltre che come bambina, consentendo di spiegare un testo altrimenti incomprensibile ha destato impressione. E si tratta addirittura di un brogliaccio manoscritto, del 1601, di Francisco González de Bustos, intitolato: “La gran Rosa de Viterbo”. L’opera e la sua traduzione è stata recentemente illustrata in modo egregio da Maurizio Pinna per questo giornale.

Il riferimento all’estasi della seconda frase, altre a riportarci ad un linguaggio religioso, può ricordare il caso in cui apparvero a Rosa le anime dei defunti e lei parlava con loro chiamandoli per nome “pur senza averli mai conosciuti in vita”.

Rimane tuttavia ancora abbastanza misterioso come questa chiaroveggenza possa essere “quasi implacabile”. Anche in questo caso abbiamo spiegato che soccorre la biografia di Rosa; quando, infatti, lei fu cacciata da Viterbo, perché predicava contro gli eretici, protetti dall’imperatore, lei annunciò (come tutti i Viterbesi sanno, ma non lo sapeva il nostro uditorio) che l’imperatore Federico II di lì a poco sarebbe morto ed infatti, sebbene fosse in buona salute, morì all’improvviso tanto che corsero storie anche di avvelenamento, addirittura da parte del figlio.

Succede che il popolo non interpreta l’annuncio di Rosa semplicemente come un fatto da lei conosciuto in anticipo, ma come una condanna: “Mi cacci? Allora morrai!” e la punizione è appunto “implacabile”. Anche la logica spiegazione di come una chiaroveggenza possa essere implacabile, incomprensibile nel testo, ma chiarificato dal riferimento a Rosa è apparsa sorprendente.

A questo punto potevamo considerare di avere tre forti indizi che Borges alludesse veramente a santa Rosa da Viterbo (anche per i riferimenti agli altri personaggi i collegamenti sono indiziari). Ma per quanto si dica che tre indizi fanno una prova, prudenza voleva che si considerasse preliminarmente quali probabilità aveva in pratica Borges di conoscere santa Rosa.

La mappa che segue è stata presentata recentemente su questo giornale con riferimento all’avvenuta pubblicazione di un saggio che illustrava la diffusione del culto di Rosa in Argentina.

La riutilizziamo qui per far vedere dove erano ubicate le 31 “evidenze” della diffusione del culto. Le ricordiamo in sintesi: dieci opere figurative: sei statue, due quadri, una vétrage ed un mosaico.

Vi sono, poi, una città, tre importanti collegi, due luoghi di culto, ben sei confraternite di “terziari” (di cui quattro ancora attive), due biografie, cinque menzioni documentali, una settecentesca concessione papale di indulgenze ed un ex voto.

 

Distribuzione delle ‘evidenze’ del culto di santa Rosa da Viterbo in Argentina

Gran parte delle evidenze si dispongono lungo l’antico percorso della penetrazione spagnola che scendeva dalla Ande per raggiungere alla fine Buenos Aires ed il mare. Le probabilità che Borges abbia incontrato casualmente una di queste testimonianze, dunque, non erano poche, tanto più se consideriamo che numerosi erano gli aderenti alle confraternite e che dai collegi di santa Rosa uscivano ogni anno almeno un centinaio di giovani donne che appartenevano ai ceti benestanti e si spargevano per tutto il Paese, per cui facilmente Borges poteva averne conosciuta qualcuna di qualsiasi età.

[Chi è interessato alla materia può cercare l’articolo: Santa Rosa in Argentina che questo Giornale ha archiviato in modo che chiunque possa ritrovare quanto pubblicato in materia in precedenza.

Si trova cliccando qui appresso: santarosaalessandrofinzi].

Naturalmente Borges poteva anche aver ricavato le sue informazioni per via bibliografica e per dare un’idea della diffusione, fin dall’antichità, delle biografie rosiane abbiamo illustrato la produzione seicentesca rilevata finora. In soli sessanta anni, da parte di quattro autori si osservano ben sei edizioni: cinque in spagnolo ed una in portoghese.

Altro che best seller! Anche le prime due edizioni viterbesi della biografia di Alonso de Guzmán sono in lingua spagnola ed è evidente, poiché pochi all’epoca sapevano leggere, che una così copiosa produzione non poteva essere destinata alla sola penisola iberica, ma anche ai paesi americani dove la figura di santa Rosa da Viterbo ere diventata uno straordinario strumento di evangelizzazione fra le popolazioni autoctone da parte dei francescani.

Ecco le opere:

Alonso de Guzmán: Compendio de la maravillosa vida, muerte, reliquias y milagros de Santa Rosa de Viterbo. Viterbo, 1615 e 1625 ; Madrid, 1671.

Iván Alegre OFM: Epitome del la prodigiosa vida de la flor de Italia s. Rosa de Viterbo,  Granada, 1670.

Manoel do Sepulchro OFM: Rosa Franciscana. Lisbona, 1673.

Andrés Martín OFM: Maravilla Seraphica Santa Rosa de Viterbo. Alcalá, 1674.

A queste si aggiungono altre rimaste manoscritte o non ancora perfettamente identificate:

Francisco González de Bustos: La gran Rosa de Viterbomanus., 1601.

Isidoro Hardiz: Vida de s. Rosa, 1692.

Anonimo:  Santa Rosa de Vitervo de la orden tercera de san Francisco.  Santiago di Compostella, prima del 1730.

La cosa ha destato sorpresa ed ancor più quando abbiamo ricordato che la copia in nostro possesso della biografia di Manoel do Sepulchro, stampata a Lisbona nel 1673, non è stata reperita in Portogallo, bensì in Brasile.

Abbiamo poi riferito un unico, ma significativo esempio dell’importanza delle biografie di Rosa nell’America latina, ricordando che santa Rosa da Lima si chiamava Isabel (Isabel Flores de Oliva) e non è chiaro come abbiano fatto i domenicani a farla diventare Rosa.

Ma gli atti di canonizzazione narrano che, quando il padre spirituale fece leggere alla limegna una vita di Rosa da Viterbo, Isabel dichiarò che anche lei voleva essere chiamata Rosa. Senza le biografie di Rosa da Viterbo non ci sarebbe stata neppure la Rosa da Lima. Nessuno lo sapeva e nemmeno poteva immaginarlo.

Un duro colpo per i peruviani.

Il permanere nel tempo dell’interesse per la Santa viterbese è sottolineato da una biografia pubblicata a Buenos Aires, sia pure posteriormente alla pubblicazione de “El Aleph”. Su questa base abbiamo sottolineato che è molto probabile che Borges abbia conosciuto Rosa da Viterbo anche per via bibliografica dati i suoi particolari interessi per tutte le forme culturali, specie se di apparenza esotica.

Potevamo dunque tornare al racconto. Nello scantinato della casa di Carlos Argentino Daneri, cugino di Beatriz, frequentata perché vi si trovavano i ricordi della donna amata, indotto dalle singolari affermazioni di Daneri, il Borges personaggio, sdraiato sui gradini di una scala che conduce in cantina, emergente nell’oscurità vede l’Aleph che è una sferetta luminosa di un paio di centimetri in cui si potevano scorgere, e da ogni lato, tutte le cose del mondo.

Borges (sempre il personaggio), che vi vede perfino le proprie viscere, elenca una serie molto eterogenea di cose per le quali si sottolinea qui l’utilizzo dell’articolo indeterminativo o la presentazione generica senza articolo:

vidi un mazzo di carte spagnolo in una vetrina di Mirzapur, vidi le ombre oblique di alcune felci sul terreno di una serra, vidi tigri, emboli, bisonti, mareggiate ed eserciti, vidi tutte le formiche che vi sono sulla terra, vidi un astrolabio persiano…
“vi en un escaparate de Mirzapur una baraja española, vi las sombras oblicuas de unos helechos en el suelo de un invernáculo, vi tigres, émbolos, bisontes, marejadas y ejércitos, vi todas las hormigas que hay en la tierra, vi un astrolabio persa...”

Dunque è interessante osservare che, in mezzo a queste caotica congerie, si trovi anche una cosa ben specificamente determinata:

…vidi la reliquia atroce di ciò che deliziosamente era stata in vita Beatrice Viterbo, vidi la modificazione della morte…
“...vi la reliquia atroz de lo que deliciosamente había sido  Beatriz Viterbo, vi… la modificación de la muerte...”

La reliquia, come in precedenza l’estasi, appartengono alla sfere del religioso, ma una reliquia atroce non si capisce cosa possa essere. Un osso o anche lo scheletro di un santo sono reliquie, ma è difficile spiegare il significato dell’aggettivo cui si accompagna.

L’espressione però assume significato se il riferimento è invece alla drammatica immagine della mummia di santa Rosa conservata presso il monastero di Viterbo, integra sì, ma sottoposta, come dice Borges alla modificazione della morte.

Di nuovo è apparso il senso di meraviglie dell’uditorio al riconoscere come le frasi enigmatiche di Borges trovavano coerente spiegazione se si procedeva all’identificazione letteraria di Beatriz con santa Rosa da Viterbo.

In seguito, fra le visoni dell’Aleph, compare il riferimento a un paesaggio non meno interessante di quello ricostruito e illustrato in precedenza per rappresentare, sul territorio, la diffusione del culto di Rosa da Viterbo:

....vidi un tramonto in Querétaro che sembrava riflettere il colore di una rosa del Bengala...
“…vi un poniente en Querétaro que parecía reflejar el color de una rosa en Bengala…”

Il tramonto del sole a Querétaro è considerato uno spettacolo eccezionale, tanto che è facile trovarne delle immagini in internet, come quella sopra riportata.

Si vede il cielo assumere il colore della rosa del Bengala, cioè il colore rosso scuro di questa varietà di rose, considerata importante per il contributo dato alla selezione della rosa moderna, molto differente da quella antica. Emerge il sospetto che l’insolita espressione usata dall’autore, alla luce delle successive considerazioni, voglia fornire un indizio segnalando che si sta parlando di una “rosa molto speciale”.

Se infatti si cerca una immagine presa quando il sole è già declinato, la luminosità del cielo si riduce e le luci sono già accese, dal panorama meglio visibile della città di Querétaro emerge la sagoma di una chiesa imponente e i nostri lettori l’avranno già riconosciuta.

 

A questo punto abbiamo dichiarato che non era neppure più necessario parlarne e si poteva lasciare la descrizione ad altri:

“Un tramonto a Querétaro, forse come questo, adesso… sembra andar estinguendo più rapidamente le insolite tonalità del sole che già va sparendo dietro il campanile della Chiesa di Santa Rosa da Viterbo”.
“Un poniente en Querétaro, posiblemente como éste, ahora… parece ir apagando más rápidamente las tonalidades insólitas del sol que ya va recortándose tras el campanario de la Iglesia de Santa Rosa de Viterbo”.

José Israel Carranza
Mural, 19 de Diciembre de 2003.

Lasciamo immaginare la sorpresa al vedere che, per confermare una tesi che all’inizio poteva apparire alquanto azzardata, non era nemmeno più necessario argomentare, perché le parole giuste erano già state scritte e le avevamo trovate.

Il Tempio di santa Rosa da Viterbo, opera, nella prima metà del Settecento, di Mariano de las Casas, è considerata un capolavoro del barocco queretano e fa parte del centro storico coloniale già dal Novecento riconosciuto patrimonio materiale dell’umanità (abbiamo ricordato altrove che, per onorare Rosa tramite l’Unesco, i Messicani sono arrivati ben prima dei Viterbesi).

Eccolo di nuovo per il godimento estetico dei nostri lettori.

Fra le cose straordinarie di questo eccezionale monumento ci piace ricordare ancora una volta gli incredibili contrafforti di Francisco Martínez Gudiño i cui archi, anziché aprirsi vero il basso, si aprono verso l’alto in una straordinaria acrobazia architettonica.

 

L’effetto dimostrativo era ormai ottenuto ma, per rafforzarlo, abbiamo riportato una frase da un blog da cui parla una docente (poiché la citazione non è breve riportiamo solo la traduzione:

… tramonta il sole, affascinantemente rosso, grande, che sfuma in vari colori…

…se tu vedessi la spettacolare Chiesa barocca di santa Rosa da Viterbo troveresti il colore di una rosa (o di cento) per tutta la pietra rosata che distingue gli edifici storici di Querétaro. Mai avrei pensato che qualcuno come Borges (!) sarebbe rimasto affascinato per ciò che io ho sempre considerato la cosa più meravigliosa della mia città, i suoi tramonti.

Queretanita.
Con L de Letras y Literatura. Jueves 28 de Mayo de 2009

Come si vede, nella prima frase si collegava il tramonto a Querétaro con santa Rosa, in questa il collegamento include anche il racconto di Borges. Possiamo dunque completare lo schema iniziale:

BEATRIZ                   ELENA                VITERBO

Beatrice Portinari    Elena di Troia    Santa Rosa  

Si nota una asimmetria, perché vi sono due nomi che corrispondono a nomi, ma il cognome si riferisce ad una città. Il fatto che Viterbo sia stato scelto come cognome deriva probabilmente dal fatto che è anche un noto cognome italiano.

Sia Beatriz che il cugino Carlos appartengono nel racconto appunto a famiglie italiane e poiché Viterbo è un cognome ebraico si spiega come mai nell’elenco telefonico di Roma siano rimaste solo 7 famiglie con tale cognome, mentre in quello di Buenos Aires sono ben 37.

Il fatto che Borges se ne sia servito indica che era a conoscenza del fatto che il nome di Viterbo, allusivo di santa Rosa, era anche un cognome italiano. Nelle città di Santa Fé esiste addirittura una Casa Editrice che si chiama “Beatriz Viterbo”! In Borges tutto è calcolato, anche quello che sembra casuale.

Apriamo una parentesi perché ai Viterbesi forse interesserà sapere che il nome della loro città si è diffuso nel mondo per santa Rosa, ma anche per gli ebrei che vi costituirono una attiva e vivace comunità quando Viterbo era importante e poi, dispersi, ne hanno assunto il nome.

Per curiosità siamo andati a cercare nell’elenco dei rabbini italiani e ne abbiamo trovati due: Avrahàm Vita Viterbo, Rabbino veneziano del XVII secolo e Achille Shimon Viterbo, nato a Tunisi e Rabbino di Padova fino al 1999.

E’ interessante scoprire che il cognome Viterbo non solo è diffuso nel mondo, ma esisteva già almeno dal 1600.

Ed ecco la diapositiva di saluto per i congressisti e per i nostri lettori:

Alessandro Finzi
Centro Studi Santa Rosa da Viterbo

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