Viterbo STORIA "Viterbo, divenuta capoluogo di provincia (1927), si rinnova, è un fervore di iniziative che finalmente la faranno uscire da quel torpore in cui era caduta"
di Vincenzo Ceniti

Articolo tratto da La Loggetta n. 102 gen-mar 2015

Se a Viterbo via Marconi non è diventata il boulevard che qualcuno sognava, la colpa è anche sua, della Banca d’Italia, il cui possente edificio, che poggia le robuste radici sulle sponde sotterranee dell’Urcionio, ha creato insieme al palazzo dell’antistante Genio Civile una lunga frattura tra bar, pub, pizzerie e shopping della parte alta della strada e quelli della parte bassa verso il Sacrario, che rendemeno attrattiva la passeggiata dei viterbesi rispetto a quella del Corso Italia.

Ma ai tempi delle loro costruzioni si pensava diversamente, meno ai consumi e più ai simboli del potere, come testimonia l’enfasi con cui il prefetto di allora (1931), Vito Cesare Canovai, conclude la presentazione di un volumetto promozionale sul Viterbese della collana “Latina Gens” capitatoci per caso tra le mani: “…Viterbo è ripresa nell’ansioso, pulsante, ritmo dell’Italia nuova, dell’Italia Fascista, alla quale porta il valido contributo di un’attività degna del suo nobilissimo passato, di un’attività moltiplicata dalla fede incrollabile nel Fascismo e nel Duce”.

Tradotto: Viterbo, divenuta capoluogo di provincia (1927), si rinnova, è un fervore di iniziative che finalmente la faranno uscire da quel torpore in cui era caduta, forte anche di un nobile passato. E il fervore si traduce anche nella costruzione, tra il 1927 e il 1940, di nuovi uffici e nuovi alloggi per dottori, ragionieri, impiegati, professori, direttori, uscieri, in arrivo da ogni parte d’Italia con bagagli, famiglie e speranze,ma soprattutto nella realizzazione-lampo di “palazzi-monumenti” in aree nuove, come quelle ricavate dalla copertura dell’Urcionio lungo un asse strategico che da piazza del Plebiscito attraverso via Littoria (via Ascenzi e via Marconi) e via XXVIII Ottobre (via F.lli Rosselli) conduce alla “Gabbia del Cricco” (sottopasso della ferrovia). Pensiamo al palazzo delle Poste, alla Banca d’Italia, al Genio Civile e al palazzo del Consiglio dell’Economia Corporativa (Camera di Commercio).

Altri sorgevano con la stessa “vigoria” in varie zone strategiche della città: l’istituto Costanzo Ciano (oggi Paolo Savi), la scuola Principe di Napoli (nel gergo di sempre Scuole rosse), il palazzo della Casa del Balilla (liceo Mariano Buratti), il campo sportivo Littorio… cui si aggiungono le case dell’Incis (ai Cappuccini e in via Marconi), quelle dell’Ina (via Marconi) ed altre.

In pratica Viterbo subisce una rivoluzione urbanistica che non si verificava da secoli, dagli anni rinascimentali con i Farnese e, più indietro, dai tempi dall’alto medioevo, quando si completò la cinta muraria, si ampliò il palazzo vescovile (oggi dei Papi), si edificarono case e torri, di difesa e gentilizie, si potenziarono i quartieri di San Pellegrino e Pianoscarano. Ma torniamo alla Banca d’Italia che troneggia su via Marconi come un palazzo signorile che ci rimanda subito alle grazie architettoniche di quelli tardo quattrocenteschi.

La sua storia viene da lontano, dagli inizi del secolo scorso, quando nel 1907 il consiglio superiore dell’istituto decise di aprire a Viterbo una filiale che venne elevata a rango di agenzia di prima classe nel 1924, trasformata, poi, in succursale nel 1928 a circa un anno dalla istituzione della provincia di Viterbo.

All’inizio della sua attività lo sportello si trovava al piano terra della regia prefettura, in piazza del Plebiscito, per poi transitare in altre sedi fra cui il palazzo Ciofi-Venturini in via Principessa Margherita (oggi via Matteotti), dove ora c’è il fabbricato dell’Inps, ed infine nell’attuale edificio di viaMarconi.

L’importanza del capoluogo della Tuscia, consacrata dal nuovo presidio provinciale, consigliava al più grande istituto bancario italiano la realizzazione di una sede prestigiosa, addirittura un palazzo, in grado di gareggiare con altri già costruiti o in procinto di esserlo. Per l’area si scelse, come detto, quella sopra l’Urcionio di circa 2.000 mq di proprietà del Comune e ceduta gratuitamente.

La costruzione, su progetto dell’ing. Rocco Giglio dell’ufficio tecnico della Banca, ebbe inizio il 2 dicembre 1939 (come si legge nel vol. 2° Electa “I cento edifici della Banca d’Italia”). I lavori, dopo una sospensione dovuta alla guerra, vennero ripresi nel settembre 1943 ed erano quasi ultimati quando un bombardamento nel 1944 distrusse parte dell’angolo est dell’edificio. Le opere di ricostruzione proseguirono dopo la guerra, nel 1945, per essere completate il 31 agosto 1947, anno in cui iniziò gradualmente il trasferimento dal palazzo Ciofi-Venturini.

Il volume “I cento edifici…” di cui sopra ci informa che a causa dell’irregolarità del terreno non si poterono riproporre i moduli architettonici comuni alle consorelle banche di altre province, tanto cari al Ventennio. E’ un po’ quello che accadde molti secoli prima ai cistercensi di Pontigny che, agli inizi del Duecento, per edificare l’abbazia di San Martino al Cimino dovettero far virtù delle irregolarità del terreno e rinunciare agli schemi canonici delle abbazie coeve di altre regioni d’Europa.

 Dunque l’edifico della Banca d’Italia di via Marconi deve adattarsi alla conformazione del terreno, senza tuttavia rinunciare alle linee architettoniche del tempo, con due bei prospetti su piazza della Repubblica e su via Marconi il cui fronte, di un centinaio di metri, è diviso in tre parti con due massicce sporgenze laterali e il blocco centrale arretrato che ci riporta ai palazzi nobiliari del Quattro-Cinquecento. Nel centro Italia ce ne sono molti. Recentemente osservando il palazzo Cesi di Acquasparta (famoso per aver ospitato la prima riunione dell’Accademia dei Lincei), ho riscontrato evidenti analogie con l’impianto della Banca d’Italia viterbese.

Le eleganze tosco-laziali dell’edificio di via Marconi, sottolineate da un tetto fortemente aggettante su beccatelli di legno e pietra, da un abbondante uso di mattoni di cotto e da un massiccio zoccolo di bugnato rustico, concedono ampi riguardi alle architetture medioevali e rinascimentali di Viterbo, riconoscibili nelle bifore delle finestre (che alludono alla fabbriche duecentesche) o negli ampi portali dal volto classico, con archi a volte su coppie di colonne corinzie.

L’interno, e più precisamente l’area destinata al pubblico e alle operazioni bancarie, è solenne con ampia scalata di accesso (nel versante destro del prospetto su viaMarconi), soffitti alti, lucernari, finestre gigantesche, dovizia di marmi, arredi di legno massello (originali degli anni Quaranta), ampi corridoi che conducono alla direzione e agli uffici amministrativi. Nei sotterranei, a tu per tu con l’Urcionio, si aprono alcune stanze blindate, i cosiddetti caveau, che pochi conoscono per evidenti motivi di sicurezza e segretezza.

Nel piano superiore si apre una serie di appartamenti che dovevano servire, ed in parte servono, alla “corte” di dirigenti, funzionari e impiegati, fino agli addetti alla custodia. Proprio come accadeva nei palazzi rinascimentali d’un tempo, dove il principe era attorniato da una nutrita schiera di adepti. Perché una costruzione così imponente in una città dopotutto minore rispetto alle “grandi” del tempo?

Una vulgata popolare sosteneva che la banca-fortezza di Viterbo avrebbe dovuto ospitare, in casi di “pericolo”, i valori custoditi nel palazzo Koch di Roma dove si trova la sede centrale della Banca d’Italia. Ma non ci sono riscontri attendibili. La domanda sul futuro dell’edificio è attuale e intrigante, dal momento che è in atto in ogni regione un forzato “dimagrimento” delle filiali. Delle cento iniziali ne sarebbero rimaste poco più della metà. Cosa ne sarà dell’imponente edificio di via Marconi?

I costi di gestione, acquisto, manutenzione ed altro sarebbero insostenibili, a meno che non si opti per una robusta attività commerciale che nelle attuali condizioni sembra però improbabile. Verrebbe da pensare ad un “Palazzo della Cultura” dove allestire, finalmente, un museo della città di Viterbo, come molti sostengono da tempo, declinato in tutte le molteplici componenti: storiche, architettoniche, artistiche, folcloriche, enogastronomiche, paesaggistiche ed altro, con l’ausilio soprattutto della tecnologia più avanzata. E’ un sogno?


Vincenzo Ceniti

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