Viterbo STORIA Nel 1855, il caffè fu rinnovato dai proprietari Vincenzo e Crispino Schenardi, su disegno dell'architetto Virginio Vespignani
di Franco Cirioni

Schenardi negli anni '50
(Archivio Mauro Galeotti)

Nell'anno 1818, il caffettiere e cuoco Raffaele Schenardi da Napoli si trasferisce a Viterbo.


L'ubicazione della sede del Caffè Schenardi è un palazzetto medievale in contrada S. Stefano di proprietà di Ser Girolamo di Carbognano.

Nell'anno 1430 i Chigi di Siena si trasferiscono a Viterbo creando Banco e Fondaco.
Sulla facciata del palazzetto, si aprono due graziose finestre cinquecentesche, in pietra.

Lo stemma è a scudo, con forma a bucranio di cavallo, è sormontato dalla testa di un ariete, con nastri svolazzanti.

Lo scudo è diviso in due ripartizioni longitudinali nel primo partito raffigura lo scaglione accompagnato da tre Rocchi di scacchiera, in rosso, e tutto il campo in oro.
Tale stemma appartiene ad Antonio Boninsegni senese, curatore del Banco e Fondaco dei Chigi di Viterbo.

Affidatogli nel 1493 dal Procuratore Mariano, passato in Roma quale banchiere dei Borgia.
Lo stemma del secondo partito è quello della nobile famiglia viterbese di Domenico Bonelli, che d'azzurro ha la quercia fruttata sormontata da un ariete passante al naturale accompagnato da due stelle d'argento.

La stretta società, realizzata dai Boninsegni e dai Bonelli, è legata da vincoli di affinità parentale. Infatti le loro mogli erano cugine.
All'esterno del Banco fu apposto lo stemma delle loro casate, dove negli stipidi delle finestre sono scolpiti i loro volti ed i volti dei loro figli, onde attestare l'avvenuta alleanza commerciale.

Nel 1855, il caffè fu rinnovato dai proprietari Vincenzo e Crispino Schenardi, su disegno dell'architetto Virginio Vespignani che concepì il caffè come luogo d'incontro.

Il progetto del Vespignani proponeva la creazione di una galleria con otto colonne sceniche, create apposta per dare l'atmosfera giusta nell'incontro delle persone, dove la piazza rappresentava da sempre il luogo d'incontro di tutta la città.

Fin dal primo momento dell'ingresso al Caffè Schenardi, mi sconvolse l'impatto di questo luogo, così carico di storia, di elementi, di dettagli e delle presenze che l'avevano frequentato.

Ma l'immagine che più si distigueva era la quantità di luce che c'era creata dai suoi trenta punti luce della galleria.

Parliamo dell'anno 1855, con l'innovativo passaggio dall'illuminazione a petrolio a quella a gas, una luce oltremodo aumentata dalla presenza di nove grandi specchiere francesi e dalle tante dorature degli stucchi, confermandolo sicuramente il luogo più illuminato della città di Viterbo.

La curiosità e l'attenzione si è poi focalizzata alle statue di gesso, situate nelle nicchie della galleria.
L'impressione avuta, fin dal primo momento, è stata la certezza che tali figure rappresentavano qualcosa di profondo, un ruolo sicuramente importante nel contesto architettonico dello spazio ed un completamento alla funzione della galleria.

Questa intuizione mi ha portato ad effettuare una accurata ricerca storica e bibliografica di ognuna delle sculture presenti, chiarendone oltremodo il loro eccezionale significato.
Quattro statue rappresentavano le stagioni, ispirate dalle quattro stagioni presenti nella trasformazione neoclassica di Piazza del Popolo a Roma, ad opera di Giuseppe Valadier, che ne progettò la salita al Pincio e l'inserimento di due emicicli terminanti con le sculture delle Quattro Stagioni.

Le restanti cinque statue originali, di cui quattro femminili raffiguranti danzatrici e suonatrici di cembali, ed una soltanto maschile che raffigura un contadino con vanga ed aratro. Tutto presupponeva la scena di un rito, ma quale?

Nei più antichi riti, le rappresentazioni si svolgevano con danze accompagnate dal suono degli strumenti musicali, ma è la figura del contadino a condurci alla soluzione di questa composizione che caratterizza la rappresentazione dei riti Fescennini.

Originali dell'Etruria meridionale, i riti Fescennini, rappresentati nel bosco dove al canto si accompagnava la danza e lo spettacolo consisteva in uno scambio di battute grossolane e mordaci, licenziose e libere tra quanti prendevano parte all'azione scenica.

Ne parla diffusamente Orazio... "nei giorni di festa gli agricoltori offrivano un maiale in sacrificio alla Terra Mater, il latte a Silvano - dio del bosco e dei pastori, ed il vino al Genio – dio della natura umana e memore della brevità della vita.
Per via di questo costume apparve la licenza dei canti Fescennini, che diffondeva gravi offese verbali, contumelie rustiche in versi alternati.

Questi amabili giochi, che si ripetevano ogni anno, furono ben accolti finchè non degenerarono. Allora, coloro che erano stati vittime di quei lazzi feroci si lamentarono, ma anche coloro che fino a quel momento erano stati risparmiati cominciarono a preoccuparsi.
Nel periodo romano, fu promulgata una legge che vietava di indirizzare versi offensivi nei confronti di chicchessia.

I canti Fescennini sopravvissero, poi, nei motti scherzosi che un coro rivolgeva agli sposi che si accingevano ad entrare nella stanza nuziale.

Il rito Fescennino rispecchia il carattere e la funzione della Galleria – Caffè, come luogo di incontro per tutti, di opinioni, discussioni e confronti, dove l'elemento luce non è solo illuminazione al buio della notte, ma Luce dell'intelletto nel voler capire, nel confronto, la giusta via della libera verità.

Era il culmine di una età illuministica che si sarebbe trasfusa, successivamente, nel periodo del romanticismo italiano ed europeo, nonchè del nostro Risorgimento nazionale.
In questo contesto, così, anche il Caffè Schenardi finiva con il diventare una rilevante espressione che, finora, è stata poco o per nulla evidenziata storicamente.

Tra i personaggi che conobbero il Caffè Schenardi, furono :

Papa Gregorio XVI nei giorni 3 / 4 / 5, ottobre 1841,
Giuseppe Garibaldi l'8 maggio 1876,
nello stesso anno lo scultore Pio Fedi,
Guglielmo Marconi,
Vittorio Emanuele di Savoia conte di Torino, ospite del comune in un banchetto a Palazzo dei Priori il 2 settembre 1901,
il compositore Umberto Giordano,
il duce Benito Mussolini il 27 maggio 1938,
in tempi più vicini a noi,
il regista attore Orson Welles che a Viterbo ha girato il film Otello,
Christian Jacques,
Carol Martine,
lo scrittore Orio Vergani,
lo scrittore Bonaventura Tecchi,
Gustavo  VI  Adolfo re di Svezia con le principesse Cristina e Margaretha,
Alberto Sordi e Federico Fellini,
e tanti altri tra scienziati ed accademici.

Franco Cirioni

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