Viterbo CHIACCHIERATA POLITICA
Claudio Santella
 


L'aula del Senato

Eccomi nuovamente a Voi, miei cari e pazienti venticinque lettori, per proseguire amichevolmente la chiacchierata sulla proposta di modifica della nostra Costituzione da attuarsi o meno attraverso il referendum di domenica prossima 4 dicembre.

Conforta il mio modo di vedere questa riforma l’opinione di Filippo Pizzolato, professore di diritto pubblico all’Università Milano-Bicocca,  il quale afferma che è difficile esprimere dubbi su questo progetto di revisione costituzionale, e non per la sua ferrea logica, ma perché ciò che osta all’apertura di un dialogo approfondito attorno a questa riforma è la cortina retorica, intessuta di abili tecniche comunicative, che è stata innalzata  a mo’ di fumogeno e che andrebbe pazientemente decostruita.

L’affermazione riflette sinteticamente una verità inconfutabile e merita considerazioni e riflessioni. Proviamo a farne insieme qualcuna sulle indicazioni che l’insigne accademico suggerisce, magari “rubandogli” alcune espressioni che, per la loro semplicità e chiarezza rendono magistralmente il concetto, per modo, poi, da poter immergerci, più liberi, in considerazioni inerenti il metodo con cui la riforma è stata proposta e portata avanti e su i contenuti  della stessa.

Innanzitutto, a parere del professor Pizzolato, la retorica trionfante per cui finalmente si cambia la Costituzione sembra assumere come scontato che la causa ultima del fallimento continuo della classe politica si annidi nelle regole: si vuol far credere che con nuove regole la classe politica può rigenerarsi. Non è così. Non è da ritenere valida questa insinuazione perché una classe politica si forma non creando nuove regole, ma forgiando le nuove leve attraverso l’educazione all’osservanza delle leggi, in special modo di quelle che sempre furono, sempre sono e sempre saranno, che assicurano e garantiscono il pieno rispetto degli altri.

Con le nuove regole la classe politica, ormai degenerata, vuole realizzare i propri interessi, e quelli dei suoi mentori, in modo più agevole e diretto,  tentando contemporaneamente di far credere ai cittadini che agisce nell’interesse generale degli stessi: in realtà è vero esattamene il contrario.

In secondo luogo l’altra affermazione, anch’essa retorica e insidiosa, quella per cui “il meglio e nemico del bene”, mira ad evitare l’apertura di un confronto sui contenuti della riforma, confronto che metterebbe in dubbio l’assunto per cui la cosa più importante è cambiare. Si enfatizza la necessità di cambiare cercando di far credere, anche in questo caso, che cambiare significa migliorare,  ma cambiare non significa automaticamente migliorare basta leggere alcuni passi della riforma per rendersi conto che, per i cittadini, i cambiamenti sono negativi perché chi trae vantaggio dal cambiamento è unicamente chi gestisce il potere.

Ancora: “Gli altri parlano, ma lui finalmente agisce e decide”. Affermazione, sempre retorica, che insinua come pacifica l’idea  che nel mandato di un Governo vi sia la necessità di dar vita ad una riforma costituzionale così ampia tale da porre la valutazione delle regole costituzionali ad un livello prigioniero del “questo e adesso”. E perché “questo e adesso” se chi trae vantaggio dal “questo e adesso” non sono i cittadini, ai quali tra l’altro viene tolto il potere di eleggere alcuni dei propri rappresentanti, ma è chi “adesso” gestisce, di fatto, il potere: non sarebbe meglio il “Il necessario, il giusto ed il corretto, e con determinazione e riflessione”?

Da ultimo, l’assurda affermazione, naturalmente anch’essa retorica, che “se fallisce questo tentativo non potranno più esserci riforme”. Affermazione questa smentita dai fatti: non v’è chi non ricordi il recente referendum costituzionale che bocciò la riforma allora proposta; se l’assunto fosse vero questa nuova proposta di riforma non avrebbe dovuto esserci. La riflessione è tanto logica che non abbisogna di chiarimenti.

Di queste affermazioni retoriche, che mirano ad inibire approfondimenti sul tema, sarebbe necessario liberarsi se vogliamo aprire un confronto serio su questa materia in modo da smascherare anche le opposizioni pregiudiziali.

Il confronto sul merito non significa però eludere la questione del metodo con cui si è approvata la riforma, anzi al confronto sul metodo va data la precedenza perché è qui che si annida la ragione forte e di per se sola sufficiente per dire “no” alla riforma.

Per come è stata condotta a termine questa riforma infligge un danno all’idea stessa di costituzione.

Il presidente del Consiglio e la sua maggioranza parlamentare, smentendo i buoni propositi più volte annunciati pubblicamente e non tenendo conto di precedenti autocritiche su simili errori commessi in occasione della modifica del titolo V della costituzione, hanno approvato un ampio progetto di riforma costituzionale senza il concorso delle opposizioni.

La costituzione, cioè a dire lo strumento fondamentale di contrasto alle tendenze abusive del potere (del potere politico che si esprime attraverso la maggioranza e del potere economico che si esprime attraverso il potere politico), è piegata a occasione di consolidamento del potere di un governo; le regole costituzionali, che dovrebbero ritmare il respiro dell’azione politica ad ampio spettro sia a breve che a  lungo termine, sono sottoposte allo stress della contingenza dell’indirizzo politico di una parte neppure cospicua.

Questo procedimento di revisione in verità nasce, fin dalla fase progettuale, come una iniziativa del Governo a tutela delle proprie sorti e del proprio indirizzo politico e si conclude senza riuscire a superare la divisione contingente tra maggioranza ed opposizioni. Una anomalia di una gravità non solamente apparente.

Una anomalia ancora più grave se riconsidera il ruolo svolta dall’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, il quale, anziché richiedere la ricerca di una ampia condivisione si è trasformato in uno sponsor della riforma legittimando le ambizioni del Governo e dimenticando il suo ruolo di custode della Costituzione; di quella Costituzione sulla quale aveva giurato ed alla quale aveva giurato fedeltà.

L’approvazione, a stretta maggioranza, della riforma costituzionale, già di per sé deprecabile, diventa inaccettabile allorquando si considerino le condizioni anomale di questa legislatura sottolineate dalla stessa Corte costituzionale. Né si può superare l’obiezione con l’idea del referendum costituzionale, perché il referendum costituzionale si configura quale garanzia aggiuntiva e non sostitutiva del consenso parlamentare.

E’ bene tenere presente che senza quel premio di maggioranza, assegnato sappiamo tutti come, il Governo non avrebbe avuto i numeri per la conclusione della fase parlamentare della revisione stessa.

“Est modus in rebus” dicevano i nostri padri: ma qui non c’è modus. E questa mancanza di modus produce una lacerazione che è lecito supporre avrà riflessi in futuro. Ammesso che la riforma passi, non sarà facile far accettare l’idea della Costituzione come patto di regole condivise, allorquando, mutate le maggioranze, i futuri vincitori vorranno tradurre in una ulteriore unilaterale riforma il loro differente indirizzo.

E come si può immaginare che forze politiche che oggi subiscono questa revisione come la prevaricazione di una maggioranza si impegnino all’attuazione delle nuove norme. V’è il rischio concreto di andare incontro ad una stagione di rappresaglie costituzionali con conseguente instabilità estesa a livello costituzionale e pedissequo decremento di credibilità internazionale.

Questo, seppure a volo d’uccello, sul metodo con cui si è approvata questa riforma costituzionale.

Per ciò che attiene ai contenuti è opportuno, nel rispetto dei miei venticinque lettori, e per non abusare della loro pazienza, rimandare ad una prossima chiacchierata. Di nuovo ottime cose.

Claudio Santella

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