Viterbo CULTURA“Ma perché sebbene fu con molta diligenza finito da Sebastiano che vi fece un paese tenebroso molto lodato, l’invenzione ed il cartone fu di Michelangelo” (Vasari, Vite)
di Marco Zappa

 

Con queste parole sintetiche e chiare, riferite al dipinto su tavola raffigurante la Pietà di Viterbo, Giorgio Vasari liquidava Sebastiano Luciani come il mero esecutore di un progetto altrui, eccetto che nell’ideazione dello sfondo, ma le cose andarono realmente così?

Le testimonianze pervenuteci non ci offrono un quadro completo della situazione ed anche la data di esecuzione della pala è incerta se pur sul retro ci sono dei disegni che fanno riferimento ad alcune figure della volta della Cappella Sistina: in effetti la tavola in questione potrebbe essere stata conservata nella bottega di Michelangelo e a lui forse commissionato il dipinto.

È un’ipotesi come le tante che si possono considerare e, a mio avviso, neanche peregrina, visto che proprio in questa opera nasce il sodalizio con Sebastiano, il trentenne veneziano emergente sulla scena romana al quale l’artista fiorentino, stanco di anni di pittura e smanioso di tornare a scolpire potrebbe aver passato l’incarico: in tal caso sarebbero giustificati alcuni disegni posti sul retro della tavola, uno raffigurante un volto con evidenti errori anatomici, schizzi e studi di chi frequenta una bottega e non spreca preziosi fogli di carta, ricordiamolo, “fatta a mano”.

A conferma di tale ipotesi, c’è la costruzione compositiva della Pietà che è assolutamente nuova e sulla quale si dibatte da sempre: considerando i precedenti iconografici, non troviamo nulla di simile in pittura ma se allarghiamo la ricerca alla scultura abbiamo degli esempi magistrali di gruppi statuari in area bolognese-emiliana riguardanti il “Compianto sul Cristo morto”.

Se è vero che Pietà e Compianto sono due soluzioni tematiche e compositive diverse è altrettanto vero che un’artista non ragiona con tale rigidità e se coglie una forma, un ‘immagine o una posizione del corpo, la può “ripescare” dal proprio serbatoio conoscitivo anche a distanza di anni e magari riproporla anche fuori dal suo contesto: questo mi fa ritenere che il giovane Michelangelo, considerando la qualità e il pathosche trasmettono i citati Compianti ne sia rimasto talmente affascinato da prenderne spunti per l’idea compositiva della Pietà viterbese (conosceva certamente quello di Niccolò dell’Arca in Bologna ma anche quello di Guido Mazzoni in Modena).

Non lascia dubbio in proposito la figura di Gesù, distesa, con il capo reclinato e posta parallela al punto di osservazione che diviene base per un triangolo al cui vertice si impone il viso della Madonna: sembra proprio la risposta del grande maestro fiorentino alle composizioni triangolari di Raffaello, così tanto celebrate.

In definitiva, ritengo che Michelangelo abbia progettato la Pietà attraverso studi di insieme dell’impianto strutturale compositivo (disegni non pervenutici) e, successivamente, sia passato alla realizzazione del disegno definitivo, come riporta Vasari… Ma non del tutto.

Non ci sono dubbi circa la sua progettazione della figura della Madonna perché ne conserviamo studi specifici, mani, panneggi e struttura del corpo autografi (Vienna, Albertina).

Il dibattito invece resta ad oggi aperto, sulla figura del Cristo della quale non rimane alcuna testimonianza grafica ma che, forse proprio per la sua struttura possente e per le cosi autorevoli parole che Vasari ne spende in merito, viene attribuita da sempre a Michelangelo: in effetti gli unici spunti anatomici ce li offre l’osservazione del corpo dipinto.

Il termine specifico di cartone che Vasari utilizza per la Pietà di Viterbo indica inequivocabilmente un disegno finito in tutte le sue parti da ricalcare su muro, tavola o tela come scrive l artista aretino nel breve trattato sulla pittura nell’introduzione alle Vite.

Il cartone definitivo di norma veniva ombreggiato e serviva da riferimento in corso d’ opera all’artista come sostitutivo del modello vivente ma non solo, spesso veniva riutilizzato dalla bottega per copie o varianti sul tema o addirittura, nel caso di artisti di somma grandezza, richiesto, in sostituzione di un’opera ben più rara come un quadro e tenuto in gran conto.

Nel caso della Pietà viterbese è stato dimostrato, attraverso l’uso dell’analisi riflettografica, come Sebastiano in effetti abbia ricalcato sula tavola un disegno finito in scala reale e questo dato avvalora l’ipotesi vasariana della presenza di un cartone.

Eppure due aspetti non convincono e mi fanno ritenere che il disegno del Cristo non sia opera finita di Michelangelo: la prima cosa che risulta evidente leggendo la Vita di Sebastiano del Piombo è la scarsa considerazione della sua opera artistica che ne ha il Vasari, oltretutto legata secondo l’autore ad una condotta professionale non ottimale, ma soprattutto colpisce la brevità delle poche pagine del testo, ancor più se relazionata a quella riguardante le Vite di artisti ben più scarsi del Luciani.

L’impressione che si ha, è quella di un Vasari geloso verso un collega scelto dal divino Michelangelo per un sodalizio unico ed irripetibile per la realizzazione di opere eccezionali (in effetti basterebbero le sole opere viterbesi, la Pietà e Flagellazione, oltre alla Resurrezione di Lazzarodella National Gallery di Londra per considerare Sebastiano come uno dei massimi artefici della Rinascenza).

Eppure l’artista aretino con la sua logica del fare e del produrre pittura a “metri quadri” preferisce attribuire i meriti delle opere di Sebastiano al sodalizio avendo in questo gioco facile, visto che nel 1550, anno della prima edizione delle Vite, il Luciani è già morto e che Michelangelo settantacinquenne, ha altro in testa che leggere o controbattere il testo dell’artista aretino… Viene perciò a mancare un contraddittorio.

Il secondo aspetto poco chiaro nella figura del Cristo della Pietà viterbese, riguarda la mancanza di pathos, vera cifra artistica del Buonarroti.

Effettivamente l’imponente figura distesa sembra esser pronta a risorgere piuttosto che portare in sé i simboli del martirio da poco subìto, ma più che su queste considerazioni emotive e soggettive voglio soffermare la mia analisi su un altro aspetto: la figura del Cristo da un punto di vista anatomico è incongruente in molte sue parti e Michelangelo non può aver commesso una serie di errori così evidenti, contemporaneamente, in un unico disegno.

La sensazione iniziale che si ha guardando la figura di Gesù, è quella di un collage di brani anatomici che appare evidente soprattutto nella parte che va dal perizoma fino al volto reclinato, mentre per la metà inferiore le gambe eleganti e slanciate, se pur muscolose, sembrano femminee ed il piede destro in primo piano risulta piccolo.

Né deve ingannare la massa muscolare così accentuata, in quanto davanti alle opere michelangiolesche difficilmente gli artisti rimanevano indifferenti, tanto che lo stesso Raffello ne sentirà il fascino modificando atteggiamenti e fattezze delle sue figure.

L’errore anatomico più grossolano riguarda la testa che è posta completamente fuori asse, spostata troppo in basso e quindi a ridosso della spalla: anche questa non è priva di errori, in quanto appare sproporzionata ovvero abduce troppo l’arto superiore che sembra disarticolato, mentre l’avambraccio presenta una muscolatura poco definita nella regione laterale-posteriore, zona caratteristica per il movimento di rotazione delle due ossa, Radio Ulna.

Se da un lato la sapienza pittorica di Sebastiano ha nascosto queste carenze anatomiche (e sulla scia lo stesso accadrà ad altri eccelsi maestri veneti, non ultimo Tiziano), al contempo non possiamo ritenere possibile che Michelangelo nel pieno della maturità, ancora lontano dal conferire alla muscolatura del corpo quei caratteri di esagerazione anatomica che caratterizzeranno i periodi successivi, disegni uncartone, definito ma scombinato.

Conoscendo direttamente la procedura del disegno di un artista va poi considerato che in alcune parti anatomiche si vede inequivocabilmente la cifra dell’autore, in particolare nel disegno della forma del naso e delle mani: dettagli questi, i quali nell’opera in questione, appartengono in pieno alla tipologia usata costantemente da Sebastiano.

La Pietà viterbese offre però anche un indizio suggestivo, evidentemente ancora non indagato ma sicuramente interessante per argomentazioni future: se analizziamo con attenzione la fisionomia del volto di Gesù troviamo una somiglianza evidentissima con i caratteri anatomici di Giulio de’ Medici, futuro papa Clemente VII.

Questi ritratti, dipinti dallo stesso Sebastiano e conservati al Museo Nazionale di Capodimonte in Napoli, sono sovrapponibili all’immagine del viso del Cristo e ne determinano una corrispondenza quasi perfetta.

Possiamo notare come gli aspetti più significativi della parte definita faccia, naso occhi e bocca, siano coincidenti cosi come il muscolo corrugatore del sopracciglio, il quadrato del labbro superiore e lo zigomatico: anche la fronte presenta depressioni e sporgenze analoghe ed infine il mento che, se pur nascosto dalla barba, risulta volitivo nel Cristo come nel pontefice.

Purtroppo i due citati ritratti del Medici, hanno uno scarto temporale minimo di oltre dieci anni rispetto al viso di Gesù nella Pietà, ma dobbiamo ricordare – come insegnano i dettami dell’anatomia forense – che i tratti del volto non subiscono negli anni modifiche essenziali.

Questa somiglianza, così evidente, non appare casuale, soprattutto se consideriamo il rapporto privilegiato che legherà l’artista veneziano a Giulio de’ Medici, tanto che sarà lo stesso Clemente a conferirgli nel 1531 l’agognato incarico di piombatore pontificio.

Forse la genesi di questa protezione è da ricercarsi proprio al tempo della realizzazione dell’opera viterbese, con l’emergente Luciani che studia le fattezze del cardinal Medici e lo omaggia ritraendolo nel volto di Gesù, magari su consiglio dell’amico Buonarroti.

Resta il fatto che queste osservazioni di natura anatomica sul corpo del Cristo, in realtà sfuggono all’osservatore e a chi lavora sugli aspetti critici più che tecnico-artistici a conferma della grande virtù dell’artefice che con una sublime pittura ha mascherato un cartone perfettibile, da lui evidentemente disegnato, creando un’opera magistrale: in effetti in tal modo ha contraddetto chi, al tempo, riteneva superiore la pratica del disegno a quella della pittura, contrapponendo la scuola fiorentina a quella veneta.

Infine come ultima osservazione, riguardo al paesaggio, sono dell’idea che Sebastiano l’ha dipinto senza prendere spunto da uno determinato e preesistente ma ha preso immagini dal suo repertorio conoscitivo assemblandole insieme: nello specifico, un ponte potrebbe essere uno, visto e rielaborato, sul Tevere e l’idea che si ha dell’abitato sullo sfondo è quella di un’ipotetica periferia romana, di certo sulla desta, è visibile un edificio che sembra evidentemente la cupola del Pantheon.

In conclusione ritengo sia doveroso restituire a Sebastiano del Piombo quella considerazione e i meriti venuti meno progressivamente nel corso dei secoli, soprattutto se pensiamo che Michelangelo lo scelse come sodale per una collaborazione che ha dato vita a capolavori eccelsi, opere che insieme a quelle dipinte autonomamente, fanno entrare di diritto il Luciani nel novero dei massimi esponenti del Rinascimento italiano.

Marco Zappa

 

 

 

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