Vincenzo Ceniti

Lo propongo agli agriturismi per fare presa sulla clientela (sempre in cerca di emozioni), promuovere l’azienda e ricordare  il lavoro dei nostri contadini che al tempo della vendemmia radunavano i più giovani, a cominciare dai nipoti,  per il rito della pigiatura dell’uva a piedi nudi  nei grossi tini di castagno. 

Era una festa che prendeva l’avvio di buon mattino con la raccolta dei grappoli d’uva poi  trasportati nei bigonci su lenti carri trainati dai buoi. 

Il rito si compiva spesso a suon di musica per cadenzare meglio il movimento della gambe che s’affondavano nel mosto fino alle ginocchia. Proviamo ad immaginare il piacere di questo contatto “sensuale” con gli acini d’uva che si sfracellano sotto i piedi, già inebriati e odorosi di mosto. 

Si diceva che il mosto facesse bene alla pelle più di qualsiasi altro trattamento. Ci crediamo. Crediamo meno alle preventive operazioni di pulizia che si sarebbero dovute fare prima di entrare nei tini. Forse non c’era bisogno, anche perché il profumo del vino di “cannella” smentiva di solito ogni sospetto. 

Il grappolo era un’icona non solo dei casali, ma anche di tanti “Vino e Cucina” lungo le piazze e i vicoli di Viterbo, deputati alle bevute, alle merende con cacio, affettati e pane casareccio, al gioco delle carte e della morra. Spesso sulla porta dell’osteria  o della cantina veniva messa una fraschetta d’uva, come a rinnovare le raccomandazioni del servo Martino all’abate Defuck con il triplice Est.   

A via Mazzini (angolo via Santa Caterina) uno di questi santuari di “facile beva” si chiamava addirittura “Il grappolo d’oro”. Un grappolo con acini di vetro ingiallito era sistemato come emblema esternamente sulla porta d’ingresso.  

Ma ce n’erano molti altri. Su tutti il mitico “Giocondino” in via San Lorenzo, attivo fino alla fine degli anni Sessanta, il cui interno fu scelto per una scena del film “Il Vigile” con Alberto Sordi. 

“Vino e cucina” anche ai Cappuccini.  Uno a metà dell’attuale via Vicenza, nei pressi del benzinaio, allora raggiungibile attraverso un sentiero. Mio padre mi obbligava ad andarci ogni sabato a riempire la  boccia. 

Entravo attraverso una vetrina, con una grande maniglia che gli occhi umidi e severi degli avventori mi ordinavano di richiudere subito e bene. Sulla destra, dietro due trasudanti quartaroni di coccio (per il rosso e il bianco), religiosamente coperti come un calice d’altare da un panno di lino bianco, stava lui, l’oste: basso, calvo, allegro, arguto, operoso. Anche  avaro, o almeno mi sembrava tale. Con una lunga chiave apriva il cassetto del banco dove tre ciotole bisunte dividevano, scrupolosamente, le monete di diverso taglio. Un scala di legno addossata alla parete scendeva nella sottostante cantina scavata nel tufo chissà quando e da chi, dove se ne stavano acquattate da sempre due botti imbiancate dalla muffa sul cui ventre erano conficcate le cannelle pronte alla “beva”.

Sulla volta pendevano grappoli di pomodori ricolmi di succo e un guanciale di maiale annerito dalla prolungata stagionatura. 

In fondo al vano osteria, dietro un tramezzo di legno compensato ad altezza d’uomo, ingentilito da  trafori lavorati a mano, si apriva una piccola cucina preclusa agli avventori dove agiva la moglie dell’oste.  Sul fornello a carbonella friggeva sempre qualcosa: patate, uova, verdure, frittelle. Cibi semplici e poco costosi – erano i tempi dell’immediato dopoguerra – che avevano però il dono di sprigionare un odore indistruttibile che impregnava tutto: vestiti, sedie, mura, cappelli, capelli, tavoli, perfino i soldi. Sui tavoli levigati e lucidi, stranamente  morbidi malgrado le strusciate che ricevevano ogni momento da mani ruvide e legnose, come lo sono gli scranni del coro di un vecchio convento, scivolavano con incredibile leggerezza, quasi danzando,  bassocci bicchieri di vetro, capienti quel tanto da contenere due abbondanti sorsate,  e le carte napoletane, sdrucite e gibbose, immancabili occasioni di accese  e colorite discussioni che si spegnevano, quasi sempre, in un rantolo umido per via dell’inseparabile mozzicone di sigaro toscano. D’estate i tavoli si mettevano all’aperto, sotto la pergola, per le consuete merende primaverili di cacio e fave,  al suono semmai di  una stonata fisarmonica. 

L’osteria, come accadeva dal barbiere, era il luogo dove si discuteva di tutto e di tutti senza cognizione di causa, ma con tanta saggezza. Sempre ai Cappuccini, in via Isonzo, ce n’era un’altra dal nome misterioso “Lo scoglio di Frisio”. Quella della Quercia degli anni Quaranta-Cinquanta in bella posizione sul galoppatoio di Campo Graziano, si sarebbe successivamente evoluta nel Gran Ristorante Aquilanti.                                                  

Rimpianti per queste sacrestie del vino fatto in casa? Direi di no. Ma se permettete tanta nostalgia per gli odori che vi aleggiavano, da preferire decisamente a quelli dolciastri delle patatine fritte  o degli hamburger. 

Nel  settembre scorso il  proprietario di un casale restaurato nei pressi di Viterbo, durante la vendemmia ha organizzato un revival della pigiatura coi piedi rivolto soprattutto ai ragazzi,.. Trasformerei l’idea in una festa campestre a cadenza annuale, certamente  più interessante delle tante sagre che grazie a Dio ritornano ad affollare i borghi della Tuscia Viterbese.