Viterbo IL RACCONTO
Agostino G. Pasquali

IL RACCONTO: Schüttelbrot a Natale 1943 – Seconda serie. Prima puntata  Seconda puntata - Terza puntata - Quarta puntata - Quinta puntata - Sesta puntata - Settima puntata 

     Era il 30 aprile.

     Aprile è un mese che nella Germania settentrionale è più invernale che primaverile perché alterna rare giornate di tiepido sole a lunghi periodi con piogge e nebbie, e se soffia il vento dall’est la temperatura va sotto lo zero e capita non di rado che nevichi.

     La giornata era iniziata in modo discreto con il sole, ma era un pallido sole velato che sembrava avaro nel concedere energie per riscaldare la terra. Con il passare delle ore il tempo era progressivamente peggiorato rendendo l’atmosfera grigiastra per nubi basse e lasciando cadere a tratti una fastidiosa pioviggine.

     Andavo dunque a piedi verso ovest, ma mi rendevo conto che così avrei fatto poca strada. Mentre rimuginavo alla ricerca di un modo per accelerare il mio andare ebbi un colpo di fortuna. È raro che io sia fortunato, ma quella volta mi capitò: trovai una bicicletta abbandonata nel cortile di una casa distrutta dalle bombe. La presi senza farmi scrupoli visto che nel disordine collettivo era diventato normale prendere quello che si trovava incustodito. Con quel mezzo mi fu facile allontanarmi una ventina di chilometri dalla città di Potsdam e soprattutto dai russi: di loro diffidavo per le idee comuniste che ho sempre rifiutato, ma soprattutto li temevo per i racconti che avevo sentito qua e là circa la loro ferocia e i maltrattamenti che riservavano agli avversari e ai nemici catturati. Forse erano esagerazioni propagandistiche, ma in quei momenti di incertezza era meglio essere diffidenti. Proprio per questo evitavo le strade principali preferendo quelle di campagna e curavo di andare verso ovest facendo riferimento ai campanili dei piccoli borghi che utilizzavo come guida, muovendomi da uno all’altro ed evitando così di perdermi in mezzo alle foreste che da quelle parti sono frequenti e vastissime.

   A pomeriggio inoltrato, preoccupato per l’arrivo del buio e sentendo la stanchezza, decisi di fermarmi e aspettare il domani per riprendere il viaggio. Cercai, ma non trovai alcun riparo sicuro che fosse lontano dalla gente, come un capanno o una baracca abbandonata, e mi rassegnai, nonostante qualche timore di brutti incontri, a cercare ospitalità nel primo borgo di campagna che avessi raggiunto. Temevo infatti di incontrare militari tedeschi, in particolare quelli delle SS che, incattiviti dagli insuccessi, erano ancora più decisi a praticare le regole della guerra nel loro modo feroce e vendicativo; tuttavia avevo anche una certa fiducia che, nello sbandamento generale ormai evidente, ognuno pensasse ai fatti propri e magari fosse disposto alla tolleranza verso un italiano errante. Inoltre avevo un po’ di marchi per pagare e mi dava una certa fiducia la mia conoscenza della lingua tedesca.

     Pedalavo stancamente e un po’ distrattamente rischiando talvolta di cadere per le cattive condizioni della strada secondaria, sterrata e irregolare, che stavo percorrendo. Mi bastava comunque di sapere che andavo verso ovest, e questo me lo confermava di tanto in tanto l’apparire di un fantasma di sole, sempre più basso nel grigio delle nubi. Quel disco sbiadito stava davanti a me ed era la mia bussola.

     Pedalavo per inerzia, con gli occhi che mi lacrimavano e le mani semiparalizzate per il freddo. Avevo lasciato l’ultimo borgo da quasi un’ora e ormai disperavo di arrivare prima del buio in un altro centro abitato; non avevo idea di come avrei passato la notte e cominciavo a pensare di aver sbagliato a non seguire Sandretti e Giullaro. Con loro, a Babelsberg, avrei trovato un po’ di zuppa, cattiva sì ma calda, e una branda con una coperta al riparo di una baracca.

     Ero partito da Potsdam portandomi un po’ di pane e formaggio, ma l’avevo consumato quasi tutto durante due soste e me ne rimaneva poco per la cena. Acqua da bere non mancava, perché quella terra è ricca di laghi e ruscelli, che a quel tempo non erano inquinati. Ma un riparo dal freddo e dall’umidità, dove l’avrei trovato?

     Soltanto chi ha già vissuto una situazione di incertezza, con il rischio di morire in conseguenza di una scelta sembrata all’inizio giusta e rivelatasi poi azzardata, può capire il mio stato d’animo in quel momento. E però può anche immaginare il sollievo che mi dette l’apparire improvviso della punta di un campanile. Avevo risalito con grande sforzo la pendenza di una collinetta che a me la stanchezza faceva sembrare una montagna, quando, affrontando la successiva discesa, lo vidi: un tipico campanile nordico esile e appuntito che emergeva al di là di un boschetto. Mi lasciai andare per la discesa e presto arrivai a Neunhäuser am Fluß. Così mi informava un cartello stradale scritto rusticamente su una tavola di legno.

 

     Come indicava il nome si trattava di un piccolo borgo situato presso un fiume.

     “Am Fluß” significava appunto “Al fiume”, e infatti c’era lì vicino un corso d’acqua che però poteva essere tutt’al più considerato un torrente, ché chiamarlo fiume era un’esagerazione.

     Il nome “Neunhäuser” significava “nove case”, nove di numero. Però non erano solo nove, come forse erano state all’origine, ma certamente non se ne potevano contare molte di più.

   Non si vedeva nessuna persona in giro, e il paesaggio, sotto quel cielo grigio e piovigginoso, era piuttosto triste; ma forse proprio quest’atmosfera un po’ deprimente era anche rilassante e induceva a immaginare e desiderare di entrare in una birreria, ordinare un bicchiere di birra spumosa, allungare i piedi stanchi sotto un tavolo, e bere; quindi chiudere gli occhi dimenticando il mondo, la guerra, i disastri, i disagi e le cattiverie umane.

     Avevo trovato dunque il luogo adatto per passare la notte secondo quelle che erano le mie esigenze.

     Arrivato all’inizio dell’abitato scesi dalla bicicletta e, conducendola per mano, percorsi a piedi tutta la via centrale che era praticamente l’unica, interrotta solo da brevi traverse che davano a sinistra sulla campagna e a destra verso il torrente. Ai lati della strada c’erano due file delle solite case tedesche, bianche per lo più, qualcuna rosa, tutte a due piani, il tetto molto spiovente a proteggere il piano mansardato, un balcone di legno con la ringhiera, anch’essa di legno traforato, guarnita dalle immancabili cassette per i fiori. Ma fiori niente, non ce n’erano perché era troppo presto per il clima rigido e le nevicate tardive. Tuttavia, nonostante la stanchezza e la preoccupazione, non potei fare a meno di immaginare quale tripudio di gerani e petunie ci sarebbe stato di lì a qualche settimana. Ma non ero un turista e quindi non era certo il paesaggio che mi interessava, piuttosto cercavo un riparo per la notte e qualcosa da mangiare.

     Non sapevo se era più pressante il bisogno di un letto o quello del cibo. Comunque decisi di entrare nella prima “Zimmer frei” (camera libera da affittare) che avessi trovato, ma il problema era a chi chiedere informazioni senza correre il rischio di essere considerato un pericoloso forestiero.

     Nel percorrere la via avevo notato, più o meno a metà, uno slargo, non proprio una piazza ma qualcosa di simile, che presentava da una parte la chiesa e dall’altra un locale con l’insegna “Zum weißen Hirsch” (Al cervo bianco).

     Pensai subito che la chiesa poteva essere il luogo più sicuro dove entrare e chiedere ospitalità perché un sacerdote sarebbe stato probabilmente disponibile ad ascoltare le mie esigenze e ad aiutarmi. Tornai verso quella piazzetta.

   La porta d’ingresso della chiesa era accostata e si apriva spingendola leggermente per vincere un sistema di chiusura a molla. Entrai e mi trovai in un piccolo atrio con una seconda porta interna che però era chiusa a chiave. Un cartello avvertiva che si trattava di un tempio evangelico che era aperto per la funzione religiosa solo la domenica dalle ore 10 alle 12. Quel giorno era lunedì, quindi giorno di chiusura, ma in ogni caso ero al di fuori dell’orario. Chissà se il pastore abitava da quelle parti e se c’era eventualmente un prete. Ma Neunhäuser era un borgo troppo piccolo per avere un pastore evangelico, e certamente non potevano esserci preti cattolici, che erano rarissimi nel Land Brandeburgo per lo più protestante. Quindi non potevo ottenere nessun aiuto dai religiosi.

     Non avevo trovato cartelli “Zimmer frei”, che pure erano molto frequenti in Germania, quindi non potevo chiedere questo tipo di accoglienza. Né mi pareva consigliabile bussare a caso presso un’abitazione privata dove sarei stato accolto, senza alcun dubbio, come un vagabondo o peggio.

 

Un tedesco romanizzato

     Non mi restava che entrare nello “Zum weißen Hirsch”.

     Aprii la porta e mi trovai in uno stanzone che si presentava come un misto di Wirtshaus (osteria) e Lebensmittelsladen (negozio di generi alimentari). Era un grosso locale, rustico, rivestito di legno, fortemente odoroso di birra, un po’ fumoso, ma caldo e confortevole.

     “Guten Abend!” (Buona sera) dissi rivolto a un’anziana donna che stava seduta a lato del bancone dell’angolo-birreria e sembrava occupata a rammendare un indumento che teneva sulle ginocchia. Alzò la testa e mi guardò al di sopra di piccoli occhiali rotondi da presbite, poi aprì la bocca ma non disse nulla assumendo un’aria stupita seppure non spaventata. Nella stanza, seduti ai lati di un lungo tavolo, c’erano anche alcuni uomini anziani che giocavano a Skat, un gioco di carte che non ho mai capito come funziona. Sospesero il gioco e si girarono a guardarmi con la stessa espressione stupita della vecchia.

     “Guten Abend!” ripetei e aggiunsi: “Kann ich etwas Essen bekommen?” (Posso avere qualcosa da mangiare?)

     Allora la donna sembrò superare lo stupore, mostrò un’aria contrariata e brontolò in un tedesco dialettale:

     “Na! Weg! Wia bedien’nicht die Vagabun’n.” (No! Via di qui! Non serviamo i vagabondi.)

     “Warum? Ich bin ein Vagabunde nicht! Ich kann bezahlen.” (Perché? Non sono un vagabondo! Posso pagare.) - spiegai mostrando il permesso di soggiorno e il denaro.

     Gli occhi della vecchia cambiarono espressione, fissarono il denaro con cupidigia e la bocca accennò una smorfia che poteva essere un tentativo mal riuscito di sorridere.

     “Also! Du kannst zum Tisch sitzen. Ich werd’ dir etwas zuberei’hen: Würste und Sauerkraut. Das’st verfügba!” (Allora puoi sedere al tavolo. Ti preparerò qualcosa: salsicce e crauti. Questo è disponibile!). Mi indicò il tavolone e aggiunse un “Bitte” (Prego), gentile nella forma ma non nel tono che restava scontroso. Quindi, senza aspettare un mio cenno di consenso per il menù che mi aveva proposto, si ritirò in uno sgabuzzino.

     Gli uomini anziani avevano ripreso a giocare ma, mentre io aspettavo, uno di loro si girava di tanto in tanto a guardarmi con un certo interesse e accennava un sorriso. All’improvviso smise di giocare a carte e mi chiese:

     “Bist du italiener?” e aggiunse traducendo: “Ahó! Che tu se’ taliano?”

     Succede sempre così. Per quanto uno si sforzi di parlare bene una lingua straniera, la gente del luogo capisce subito da dove quello viene. Questo vale per noi italiani all’estero: ci riconoscono immediatamente; ma vale pure per gli stranieri in Italia: ci accorgiamo subito da dove provengono.

     “Sì – risposi – sono italiano.”

     Il mio interlocutore disse di chiamarsi Erich e volle parlare con me in italiano o meglio in dialetto romanesco pronunciato alla tedesca. Parlava in un modo molto buffo proprio come facciamo noi quando imitiamo i tedeschi per prenderli in giro. Ma poi, a pensarci bene, il mio parlare tedesco doveva essere per lui altrettanto buffo. Comunque andava bene così per tutti e due.

 

     Erich aveva scoperto facilmente di che nazionalità ero perché, dopo la mia risposta affermativa, mi spiegò di conoscere l’Italia e la lingua italiana in quanto nel 1938 era stato a Roma al seguito di Hitler; l’Italia gli era piaciuta tanto che aveva chiesto e ottenuto di fermarsi all’ambasciata tedesca come addetto militare. Durante quel soggiorno aveva conosciuto una bella ragazza trasteverina della quale si era innamorato, l’aveva corteggiata e, nonostante la differenza d’età, lui già anziano lei appena trentenne, e la differenza di nazionalità, l’aveva sposata. Congedato, era poi tornato in Germania con lei e ora vivevano entrambi a Neunhäuser dove lui, pensionato da poco, possedeva la vecchia casa di famiglia. Dopo avermi raccontato di se stesso, mi chiese notizie sul perché mi trovassi lì e, saputa la mia storia, mi disse che avrei potuto alloggiare presso di lui per qualche giorno in attesa della fine della guerra. Naturalmente avrei pagato per la pensione.

   Era loquace ed espansivo come un romano all’Aldo Fabrizi e continuò a chiacchierare spiegandomi, tra l’altro, che non aveva alcun timore di ospitare uno che poteva essere considerato un nemico, perché era certo che mancasse pochissimo alla resa del Reich dato che gli americani si stavano avvicinando da ovest e i soldati tedeschi del fronte occidentale si erano quasi tutti arresi oppure sbandati. Concluse affermando che lì a Neunhäuser potevo restare tranquillo perché la zona era fuori dalle strade percorse sia dai tedeschi in ritirata sia dagli americani in arrivo. Accettai molto volentieri.

     Mentre parlavamo ritornò la vecchia portando un vassoio che conteneva un notevole piatto da cui veniva il tipico odore acido e pungente dei crauti e quello grasso di due Dampfwürste, le caratteristiche salsicce di Berlino; di fianco al piatto spiccava, la schiuma candida su liquido d’oro, un grosso bicchiere di birra. La donna si fermò davanti al tavolo e chiese con aria sospettosa:

     “Hundert Reichsmark, bitte.” (Prego, cento marchi.)

     Posò davanti a me il vassoio solo dopo aver ricevuto il denaro.

Continua domenica prossima

 

 

 

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