Viterbo IL RACCONTO
Agostino G. Pasquali

IL RACCONTO: Schüttelbrot a Natale 1943 – Seconda serie. Prima puntata  Seconda puntata - Terza puntata - Quarta puntata - Quinta puntata - Sesta puntata

     Non sono una persona passiva, rinunciataria; non lo sono mai stato. Ho sempre affrontato le difficoltà con prudenza, questo sì, ma anche con decisione, senza mai tirarmi indietro.

     Invece, in quella situazione gravosa e pericolosa, me ne restavo abulico perché probabilmente ero contagiato da una strana rassegnazione diffusa in tutti i presenti.

     Ero pur sempre un maresciallo dei carabinieri abituato a gestire i problemi di qualsiasi genere, ma lì, in quell’ambiente, mi sentivo debole per la condizione di straniero e perché era del tutto ininfluente il mio grado, anzi manifestarlo sarebbe stato inopportuno e addirittura ridicolo.

     Però nel bunker, io, uomo maturo ed esperto della vita, avrei dovuto prendere qualche iniziativa anche perché tutti i presenti, escludendo i miei due colleghi, erano donne o uomini anziani, ovvero le categorie che a quel tempo contavano quasi zero nella vita sociale. Oggi le donne hanno raggiunto la parità dei diritti con gli uomini, almeno sul piano teorico, e a volte nella pratica sono pure più importanti degli uomini. Ma allora non era così e valeva ancora la regola naturale: l’uomo lavora e comanda, la donna fa i figli e ubbidisce. Peraltro la guerra stava già rivoluzionando la struttura sociale perché gli uomini erano assenti stando al fronte, mentre le donne lavoravano al loro posto. Frau Christine era un esempio del cambiamento dei ruoli e si era assunta l’incarico di farci da comandante. Però, dopo aver imposto un po’ di ordine, anche lei si era chiusa in se stessa e se ne stava passiva.

     Mi dette una scossa il collega Giullaro, quello che aveva preso l’iniziativa della disgraziata riunione nel lager, la quale aveva scatenato tutta la serie di guai che ci avevano portato in questa orribile situazione. Giullaro mi disse:

     “Magari sarebbe stato meglio essere fucilati subito a Babelsberg! Ma ora siamo qui e dobbiamo fare qualcosa per uscire. Diamoci da fare!”

     “Fare che cosa?”

     “Scaviamo, cerchiamo di uscire. Ho visto che in fondo all’armadio a muro ci sono attrezzi, pale e picconi. Tu che parli un po’ di tedesco dillo a quella tipa, Christine, che ha l’aria di un uomo che comanda, ma ora s’è ammosciata come una donnicciola qualsiasi.”

     “Ah, sì, l’ho visto anch’io che c’è scritto: Handgrabungsverkzeuge, cioè attrezzi per scavare a mano.”

     Considerai che era un’impresa difficile realizzare una via d’uscita, anzi pareva impossibile poter rimuovere tante macerie, però conveniva tentare. Giullaro aveva ragione. Parlai con Christine che si disse d’accordo e organizzò due catene umane. Io e Giullaro avremmo scavato nel tunnel, Sandretti sulla scala a chiocciola; le donne e gli uomini anziani avrebbero spostato con il passamano i detriti più grossi ammucchiandoli all’interno del rifugio.

     Lavorare su per la scala si dimostrò subito sconsigliabile e pericoloso perché, appena Sandretti muoveva qualcosa, franavano le macerie. Fu costretto a smettere quando un blocco di calcinaccio si staccò all’improvviso, gli schiacciò una mano procurandogli un’ecchimosi e la probabile frattura di qualche ossicino del metacarpo.

     Lo scavo nel tunnel fu invece avviato senza gravi problemi. Il tunnel era stato costruito con cemento armato per alcuni metri e poi semplicemente scavato nel terreno argilloso e rinforzato nelle pareti laterali con mattoni che si chiudevano in alto con un soffitto a volta. Quando era esplosa la bomba, la parte in cemento aveva retto, ma la parte in mattoni aveva ceduto, la volta aveva collassato e lasciato precipitare la terra che vi era sopra chiudendo il passaggio.

     Si trattava quindi di scavare e asportare una massa di detriti incoerenti: un lavoro tutto sommato agevole. Cominciammo con un certo entusiasmo che però si trasformò subito in delusione perché, se scavare era relativamente facile, era altrettanto facile il collasso della terra. Si scavava liberando qualche centimetro di spazio e subito la terra cadeva e lo occupava. Ci rendemmo conto che non si poteva procedere senza avere la possibilità di formare un’armatura di tavole come si usa nelle miniere.

   Ci fermammo impotenti e delusi, ma venne avanti Christine portando un paio di panche e facendo cenno di usarle come armatura. L’idea era buona: bastava mettere delle tavole a V rovesciata. Però le panche erano troppo lunghe e poco pratiche. Ne vennero smembrate alcune e le tavole ricavate furono tagliate a misura con colpi di piccone. L’apertura così rinforzata era scomoda perché stretta in alto e costringeva a lavorare chini, ma lo scavo procedeva. Tuttavia diventava sempre più faticoso per la stanchezza e la scarsezza dell’ossigeno che rendeva la respirazione difficoltosa.

     Era come una tragica lotta contro il destino: appena trovavamo il rimedio per una difficoltà, il destino ce ne presentava un’altra.

     Una nuova disperazione ci assaliva e scoraggiava. Stavamo ormai per arrenderci quando ci sembrò di sentire dei rumori in un bocchettone dell’aria. Era un brutto scherzo della fantasia o un vaneggiamento causato dall’anossia?

     No, all’esterno qualcuno stava cercando di liberare un condotto. Mentre eravamo impegnati a scavare, ci eravamo dimenticati del mondo esterno. Il bombardamento nel frattempo era finito ed erano iniziate le operazioni per soccorrere i feriti ed estrarre chi, ancora vivo, stava imprigionato sotto le macerie.

     Dopo pochi minuti sentimmo l’arrivo dell’aria fresca e una voce dall’alto, come un angelo dal cielo, che chiedeva:

     “Jemand da unten? Wie geht’s euch?” (C’è qualcuno laggiù? Come state?) 

*     *     *

     Passammo ancora un paio di ore trepidando nell’attesa di essere liberati, ma sostenuti da una ragionevole speranza. Intanto, rinfrancati dall’aria fresca, riprendemmo a scavare all’interno, mentre all’esterno una squadra di gente esperta nelle operazioni di soccorso sgomberava il passaggio dove c’era stato il tunnel. Finalmente cadde l’ultimo diaframma che ci divideva dalla salvezza.

     Fu come rinascere.

     Ma non fu un rinascere piacevole perché fuori trovammo un paesaggio disastrato. La fabbrica era stata colpita, centrata in pieno da una bomba ad alto potenziale. Nel buio della notte i palazzi intorno apparivano come scheletri di pietra: porte e finestre non c’erano più e all’interno si intravedevano, alla luce degli incendi non del tutto domati, pareti sfondate e pavimenti crollati. Le strade erano invase dalle macerie e qua e là si notavano oggetti di forma allungata: erano i cadaveri non ancora rimossi, ma ricoperti pietosamente con teli.

     Era andata completamente distrutta la fabbrica e anche la costruzione annessa che era stata la nostra abitazione. Un orrendo pensiero mi fece sospettare che i nostri sei colleghi fossero morti tra le macerie.

     Ricordo di aver notato uno di quei teli, steso a coprire un cadavere proprio davanti alla fabbrica. Da quella pietosa copertura spuntava fuori un piede: era senza scarpa, spiccava invece per un calzettone a righe rosse e gialle come quelli che indossava uno del nostro gruppo. Ci avevamo scherzato sull’ineleganza di quei calzettoni che aveva comprato in un negozio del posto. Ora con il cuore che mi batteva sollevai il telo: era proprio lui, sventrato da una scheggia di ferro di colore grigio lucente, ancora conficcata nell’addome; aveva una sola gamba, quella col calzettone dai colori assurdi, l’altra non c’era più; era tutto insanguinato. Quello che impressionava di più erano gli occhi vitrei, spalancati con espressione di terrore. Non era una visione nuova per me perché, proprio per il mio lavoro di carabiniere, avevo già visto il risultato della morte violenta e sapevo bene che morendo si soffre e si muore con gli occhi aperti, una visione che fa inorridire. Non è come al cinema dove i personaggi recitano la morte con parole poetiche, baciano qualcuno e poi chiudono gli occhi in un atteggiamento di sonno sereno. Lo sapevo bene che la morte è brutta, tuttavia provai un senso di orrore e vomitai.

     Come ho appena scritto, mi era già capitato di vedere persone morte e ci avevo fatto quasi l’abitudine; inoltre dopo cinque anni di guerra c’erano stati milioni di morti tanto che non ci faceva più caso nessuno, ma vedere il mio collega e amico in quelle condizioni mi sconvolse.

     Qualche tempo fa ho sentito citare in televisione un detto attribuito a Stalin, questo: “Una morte è una tragedia, un milione di morti è soltanto una statistica”. Allora, a Potsdam, non conoscevo quel detto e ne ignoravo quindi la perfida verità, ora so che è proprio vero.

     Un compagno l’ho perso così, drammaticamente. Gli altri cinque non li ho più trovati, né il caos che seguì nei giorni successivi mi permise di avere una conferma della loro morte nel corso del bombardamento. I loro nomi furono in seguito inclusi nell’elenco dei dispersi. Lo sono tutt’ora.

 

Il caos verso la fine della guerra

   Il bombardamento del 14 aprile segnò la fine di quel residuo di ordine ed efficienza che i tedeschi erano riusciti a mantenere.

   La città di Potsdam era stata gravemente danneggiata, i servizi non funzionavano più, i negozi erano chiusi, mentre quelli danneggiati e abbandonati dai proprietari, perché morti o fuggiti, venivano saccheggiati dai superstiti.

     Una delle immagini più penose, che ho ancora ben impressa nella memoria, fu lo Stadtschloss (letteralmente: castello della città), un grande palazzo in stile barocco, sontuoso ma non stucchevole, nel centro di Potsdam; era più una reggia che un castello. Lo avevo visto qualche giorno prima nella sua magnifica imponenza, ma adesso si presentava praticamente distrutto: soltanto alcuni possenti muri perimetrali erano ancora in verticale, tutto il resto crollato.

     Per alcuni giorni noi tre italiani, Giullaro, Sandretti e io, ci aggirammo per la città come inebetiti senza sapere cosa fare né dove andare; dormimmo in androni vuoti di case semidistrutte; mangiammo quel che si trovava saccheggiando negozi e magazzini. Noi, già uomini di legge e d’ordine, partecipavamo senza scrupoli ai saccheggi appena ne vedevamo qualcuno in corso.

     La gente si muoveva muta e sospettosa, ognuno badava solo a se stesso, la pietà e la cordialità erano state annullate e sostituite da un primitivo istinto animalesco: arrangiarsi e, se necessario, predare per sopravvivere. 

   Verso la fine di aprile si sparse in città la voce che i russi stavano per entrare in Berlino. Avevo saputo che la guerra in Italia era finita anche formalmente il 25 aprile, ed era evidente che sarebbe finita presto pure in Germania nonostante l’ostinazione di Hitler. Era questione di giorni, se non di ore. Allora dissi ai miei due compagni che non avrei aspettato di essere ‘liberato’ dai russi, liberato per modo di dire, e preferivo incamminarmi subito verso ovest, dove erano in arrivo gli anglo-americani, e poi andare a sud per tornare in qualche modo in Italia. Sandretti non fu d’accordo e disse che aveva intenzione di tornare a Babelsberg per riunirsi ai nostri compagni del lager perché riteneva che in tanti avremmo potuto organizzarci meglio. Ma a me l’idea di andare verso Berlino non piaceva affatto, era come gettarsi direttamente nelle unghie dell’orso sovietico; inoltre avevo saputo che il bombardamento del 14 aveva colpito Babelsberg e, si diceva, anche il lager. Che cosa avremmo potuto trovare di buono?

     Sandretti fu irremovibile e convinse Giullaro a unirsi a lui. Il mattino dopo ci salutammo con la promessa di ritrovarci in Italia se Dio ce lo avesse concesso. Facemmo gli scongiuri e ci avviammo in direzioni opposte.

     Non li ho mai più visti. Anche i loro nomi stanno nell’elenco dei dispersi.

     Ero solo, libero da ogni vincolo, ma non ero contento, piuttosto mi sentivo vuoto disorientato e ansioso. Non avevo più né amici né colleghi e mi trovavo straniero fra gente straniata dal disastro della guerra persa e demoralizzata per la caduta degli ideali e degli dei nazisti.

Ero solo ma non mi dispiaceva di aver lasciato i colleghi Giullaro e Sandretti, che secondo me erano troppo passivi e senza spirito di iniziativa. Loro no, non mi mancavano, ma del vecchio gruppo di Babelsberg sentivo invece due mancanze: la simpatia del carabiniere Klaus Kurzschwarzer e l’allegria scanzonata del brigadiere Caputo. Ah, Caputo con le sue battute e pure qualche sfottò, però mai volgare, e il suo dialetto napoletano! Lo immaginai allegro e ottimista pronto a intonare qualche bella canzone napoletana. Mi venne voglia di imitarlo e mi sorpresi a canticchiare, come faceva lui: “Jamme, jamme, jamme, mariscià…”.

     Sorrisi a me stesso, il primo sorriso dopo tanto tempo, e al ritmo di quella canzoncina mi avviai comminando verso ovest.

Continua domenica prossima

 

 

 

 

 

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