Viterbo CRONACA CON SLOGAN

 

D   come  :   “Di tutto, di più”

“Di tutto, di più”.  Con questo slogan la RAI, parecchi anni fa, fece pubblicità a se stessa.

E’ una frase ad effetto che fece effetto, ma non tanto sugli incassi che la RAI sperava di incrementare, quanto sulle abitudini oratorie di chi parla senza originalità.

E così tanti ripetevano e ripetono ancora oggi “Di tutto di più”, in particolare i politici. Ma non si può pretendere che i politici sappiano pensare e parlare in modo originale. Razzi docet!

E’ comunque una frase insensata come spesso sono insensate le frasi ad effetto che la pubblicità si inventa.

Ragioniamoci su.

E’ possibile che ci sia qualcosa in più oltre il tutto? No! Il tutto è esaustivo, per definizione. Solo il concetto di infinito, che è un assioma, ammette che si possa aggiungere qualcosa a qualcosa… appunto all’infinito.

Quanto ho detto è astruso?

Allora c’è un semplice esperimento, che si può fare anche in casa, il quale esperimento può dare una idea della possibilità di aggiungere sempre qualcosa a qualcosa, via via all’infinito.

Mettete due specchi contrapposti e mettetevici in mezzo. Vedrete in ognuno dei due specchi la vostra immagine ripetuta all’infinito. Ma questo vi dà appunto l’idea di infinito, non di qualcosa che sia oltre il tutto. Infinito è la negazione di tutto. Però, come potete vedere negli specchi, l’infinito non è reale, oggettivo, ma è virtuale.

Gentile lettore, se lei è arrivato a leggere fin qui, penso che sarà alquanto scocciato dalle elucubrazioni di un  filosofo della domenica, dilettante (dilettante il filosofo, non la domenica). Quindi si chiederà: “Ma che ca… vuol dimostrare ‘sto Aggì? Ma che per caso… s’è ‘fatto’ con qualche droga?”

Ha ragione. Ho divagato, quindi chiudo la divagazione e concludo.

La RAI è riuscita a dimostrare che, senza bisogno di ricorrere all’infinito, si può andare oltre il tutto. E non soltanto con lo slogan, ma nella realtà. Ha speso “tutto e di più”:  tutto il riscosso dagli abbonamenti e dalla pubblicità, e di più. Infatti  si è indebitata per produrre e comprare programmi discutibili sul piano del valore artistico e del gradimento del pubblico.

Ora la “spending review” (chiedo scusa per l’anglicismo) del  presidente Renzi imporrebbe anche alla RAI di ridurre le spese di 150 milioni di euro, ma in RAI  ci si oppone perché è impensabile, è impossibile fare “di tutto e di più” spendendo  “tutto e di meno”.

Ma guardate un po’ come la RAI può sragionare in astratto e pretendere di avere ragione in concreto.

 

R   come :  Rispetto   Regole

30 maggio - TG 5 delle ore 13. Un servizio ha commentato l’esclusione del Parma dalla prossima Europa League e ha chiarito che l’esclusione è una sanzione per irregolarità fiscali. Il servizio è stato completato da interviste a cittadini parmensi.

Personalmente mi occupo poco di calcio e comunque ritengo che il fatto segnalato sia scarsamente rilevante in ambito nazionale, ma riguardi la cronaca locale o tutt’al più quella sportiva.

Allora perché ne parlo qui?

Ne parlo perché, attraverso un paio di interviste, si suggerisce che l’esclusione sia ingiusta in quanto quell’irregolarità fiscale non è un comportamento grave.  Questa risposta è emblematica di un certo modo italiano, purtroppo diffuso, di concepire il rispetto delle regole.

E’ (o dovrebbe essere) noto a tutti che per i comportamenti illegali sono previste sanzioni che possono essere dirette (pene pecuniarie e detentive) e indirette  (per esempio: perdita di diritti, come nel caso di cui stiamo trattando).

In ogni caso la sanzione va applicata sempre perché è prevista dalla legge e, se la legge è troppo severa o la si ritiene ingiusta, si deve chiedere l’abrogazione o la modifica della legge e non pretendere lassismo nella sua applicazione.

Ma quello che per me è importante rilevare è che questa pretesa di elasticità, lassismo, personalizzazione nell’applicazione delle leggi è considerata da noi italiani una paternalistica consuetudine. Invece no. Se quell’atteggiamento è generale, e purtroppo ormai quasi lo è, da esso nascono e per esso crescono la corruzione diffusa e la mafia.

Quando noi italiani faremo crescere, invece, il senso del dovere e della giustizia?

 

APPENDICE AL VOCABOLARIO  - PILLOLE DI STORIA n. 2

R  come : Rivalità religiosa

Conosciamo la storia dell’antico popolo di Israele solo per mezzo del Vecchio testamento della Bibbia. Poiché non abbiamo che pochissimi riscontri in altri documenti e in reperti archeologici, questi ultimi peraltro quasi sempre contrastanti con il racconto biblico, dobbiamo fidarci di quella fonte anche quando la narrazione biblica ha più il sapore del mito che della storia.

Narra dunque il Genesi (capitoli 25 27 28) che la  successione ad Isacco, per la guida del popolo di Dio, sarebbe dovuta spettare ad Esaù (primogenito di Isacco e prediletto da Isacco) e invece fu attribuita a Giacobbe (secondogenito). Questa attribuzione avvenne in due fasi. La prima fu una dichiarazione di disprezzo per la primogenitura, che Esaù fece a Giacobbe per ottenere pane e minestra di lenticchie. La seconda fase fu la benedizione che Isacco, quasi cieco, diede a Giacobbe che, con l’aiuto della madre (che lo prediligeva), si travestì da Esaù e ingannò il padre carpendogli l’investitura che non gli spettava.

Giacobbe dunque costituì uno degli anelli della continuità del popolo prediletto da Jahvè e ciò avvenne per mezzo di un’autentica truffa, ordita da madre e figlio contro l’altro figlio. Non ci fu proprio la complicità di Jahvè, ma almeno la sua tolleranza, il che è strano in un Dio che di solito era assai severo con i disonesti e non esitava a sterminarli.

Questa può dirsi storia? Crediamoci con qualche riserva, anzi con molte riserve.

Chiudo questa “impertinente” critica storica con una precisazione, che è poi il motivo per il quale sto scrivendo questa “voce”.

Dunque la tradizione ebraica ritiene che i discendenti di Esaù, dopo una serie di vicende piuttosto ingarbugliate, si trasferirono in Italia dove dettero origine ad un popolo che, sempre secondo la tradizione ebraica, sarebbe quello romano e poi quello cristiano in generale.

Sandro Magister, teologo e giornalista esperto di cose vaticane, ci rammenta (l’Espresso n.21 del 29 maggio) che gli ebrei ancora oggi temono che la Chiesa Cattolica voglia abusivamente riallacciarsi a Giacobbe, il fratello minore, e assegnare gli ebrei alla discendenza di Esaù, il fratello maggiore. Ciò avviene quando il Papa chiama gli ebrei “fratelli maggiori”.

Così infatti li chiamava Papa Giovanni Paolo II e così li chiama adesso Papa Francesco.

Benedetto XVI, fine studioso e forse anche ammaestrato dalla reazione islamica alla sua ‘lectio magistralis’ di Ratisbona, invece era più prudente e avendo intuito “dove stava il pericolo… preferiva chiamare gli ebrei “nostri padri nella fede”. Il corsivo è ripreso dall’articolo di Sandro Magister.

In conclusione mi sembra che ci sia rivalità tra religioni  e che i teologi si interessino alle sottili diatribe giuridiche e pseudo storiche piuttosto che ai gravi e seri problemi di disuguaglianze ingiustizie persecuzioni guerre, che travagliano  l’umanità.

Figli o padri o fratelli, vogliamoci tutti bene e aiutiamoci perché siamo la famiglia umana.

Ben venuto Papa Francesco e la sua ventata di aria nuova, semplice e pulita.

 Aggì

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